Le umide ierofanie di Lino Gerosa
Il pittore può dire di avere raggiunto l’abilità tecnica inarrivabile della vera arte quando l’immagine che dipinge avrà la sembianza di una macchia di inchiostro che, spontaneamente e per sua natura, abbia assunto la forma, la grandezza, la posizione e il colore della cosa che riproduce: così sintetizza Shi’Tao, il grande pittore del XVII° sec., la poetica del “tratto unico”. Le opere di Lino Gerosa sono delle grandi macchie, impronte generate per impressione e/o per secrezione di sostanze liquide fuoriuscite da un corpo appoggiato su un supporto ad essiccare, composto da un amalgama di carte antecedentemente fatte macerare per lungo tempo.
Il vero artefice del processo poietico di generazione e formazione dell’opera è lo sguardo di Lino Gerosa che vigila sul tempo, anzi sorveglia una molteplicità di tempi indipendenti: di secrezione, di imbibizione e di essicazione che di concerto con il caso, la chimica e la temperatura ambientale approntano l’alchimia di un processo creativo ineffabile, destinato a sconcertare e disorientare le certezze evinte dai procedimenti tecnici più collaudati. I lavori di Lino Gerosa si possono leggere come la riproposizione in forma laica delle “immagini acheropite”, una serie di immagini non dipinte dalla mano dell’artista ma da una concomitanza di fattori che, nel loro divenire metamorfico, generano la forma-formans di una indistinta sedimentazione di umori, intridono la parvenza di una ierofanica impronta di aloni, che soltanto lo sguardo perspicuo ed incline all’ubertosità dell’euristica è in grado di percepire tale evento come un’incoazione rivelativa, come il “kαιρός” genetico di un primigenio e ineffabile momento di figurazione visiva.
Lo sguardo di Lino Gerosa possiede questa spiccata attitudine alla pareidolìa, la sensibilità tipica dei pittori visionari, inclini a vedere forme in fieri in caotiche disposizioni di umide secrezioni. Il pittore percepisce una prossimità generativa tra il modo in cui trapelano gli umori indistinti dall’inconscio della materia e il modo in cui fluiscono i processi psichici nel suo cervello; intuisce che il modo in cui si combinano nel supporto quei madidi ed evanescenti aloni è l’equivalente materiale dei processi inconsci di condensazione e di spostamento che promuovono i processi immaginativi.
Ciò che i lavori di Lino Gerosa raffigurano non somiglia a niente, non riproducono qualcosa, né rinviano a qualcos’altro di esterno ed estraneo alla loro stessa formazione. Per statuto ontologico l’impronta è anacronistica, non possiede una storia, dice giustamente Didi-Huberman, perché con la sua reminiscente presenza, sospesa tra il visivo e il tattile, il figurativo e l’astratto, il visibile e l’invisibile costituisce “l’alba di ogni immagine.“
Le opere esposte non sono delle vere immagini, non rappresentano, né riproducono qualcosa, ma portano alla presenza visibile ciò che è senza figura: impronte dell’infigurabile e facies del dissimile che, a differenza delle immagini ottiche prodotte dalla distanza, vengono generate dall’incontro, dal contatto e dal contagio; propiziano una transizione tra impressore e impresso, tra presenza e assenza, tra memoria e attesa, tra spirito e materia, la cui contingenza e comunione si propone come la più imminente manifestazione visibile dell’anima delle cose. Come si sa l’anima non ha un’immagine somigliante all’aspetto esterno del corpo che mantiene in vita, ma quella di una forma infigurabile, prossima al trapelamento di un alone su di un sudario, la cui unica possibilità di esistenza sensibile è quella di manifestare la sua umidità, dice Eraclito. La stessa che rivelano le impronte di Lino Gerosa.
Testo estratto dal catalogo della mostra La stanza delle meraviglie. Lino Gerosa, Paolo Mazzuferi, Antonio Mottolese a cura di Marco Belpoliti in corso fino a domenica a Lissone presso il Museo d'arte contemporanea.