Le verità perse di Monsignor Mennini
Nella tarda mattinata di lunedì 9 marzo monsignor Antonio Mennini, arcivescovo e nunzio apostolico in Gran Bretagna, ha varcato la soglia del palazzo di San Macuto, l’antica sede delle carceri del Sant’Uffizio ove fu processato Galileo Galilei, per essere ascoltato dai parlamentari della Commissione di inchiesta che indaga sul rapimento e sulla morte di Aldo Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni.
Nel 1978 Mennini aveva 31 anni ed era un semplice viceparroco della Chiesa di Santa Lucia a Roma. Proveniva da una numerosa e influente famiglia legata a doppio filo alla Santa Sede (suo padre Luigi era vicepresidente dello Ior, presieduto da mons. Paul Marcinkus, suo fratello Alessandro un alto dirigente del Banco Ambrosiano, diretto da Roberto Calvi) ed era avviato alla carriera diplomatica, quando, suo malgrado, fu coinvolto nella tempesta dell’affaire Moro, che riuscì ad attraversare senza farsi travolgere, prima che le gerarchie romane, nel 1981, decidessero di allontanarlo dall’Italia, inviandolo in Uganda, prima tappa di una fortunata carriera ecclesiastica.
Monsignor Mennini aveva già deposto davanti alla Commissione Moro nel 1980 ed è stato più volte ascoltato dalla magistratura italiana tra il 1979 e il 1993, ma è interessante notare che nel 1995 si rifiutò di intervenire davanti alla Commissione stragi adducendo come motivazione di non avere nulla da aggiungere rispetto a quanto testimoniato in sede giudiziaria e davanti alla prima Commissione Moro.
Ora, è anzitutto importante capire se e quali novità sono emerse dalla missiva del 1995 a oggi che possono averlo indotto a cambiare idea, spingendolo questa volta ad aderire alla richiesta di audizione da parte di un’altra Commissione parlamentare. Un’ipotesi potrebbe essere la progressiva scomparsa di una serie di protagonisti direttamente interessati, per diversi e tutti comprensibili motivi, alle sue dichiarazioni: sul fronte vaticano la morte di Cesare Curioni (1996), di suo padre Luigi Mennini (1997), di Carlo Cremona (2003), di Pasquale Macchi (2006); su quello politico di Giuliano Vassalli (2009), di Francesco Cossiga (2010) e di Giulio Andreotti (2013); su quello brigatista di Prospero Gallinari (2013) e su quello della vittima di Eleonora Moro (2010) e di Corrado Guerzoni (2011).
Occorre notare, infatti, che sia Francesco Cossiga sia il collaboratore di Moro Corrado Guerzoni a più riprese hanno sostenuto di essere certi che Mennini non si limitò a recapitare alcune lettere del prigioniero, ma lo avrebbe addirittura incontrato per confessarlo e per impartirgli l’estrema unzione.
I testimoni ancora vivi che, al di là dei sequestratori, potrebbero forse consentire di approfondire questo non secondario passaggio, sarebbero soltanto tre. Il primo è l’ormai centenario cardinale Loris Capovilla, il quale ha dichiarato che incontrò Mennini («uomo specchiato, come è specchiata tutta la sua famiglia») in Vaticano nel maggio del 1978, e costui gli disse che «non poteva parlargli nei dettagli, perché era vincolato al segreto, tuttavia mi fece capire chiaramente che aveva potuto visitare e confortare Moro, durante la prigionia». Il secondo è il teologo gesuita Heinrich Pfeiffer che alle 14.15 del 9 maggio 1978 (la notizia del ritrovamento del cadavere di Moro era pubblica da poco più di un’ora) parlò al telefono intercettato di Mennini, il quale gli disse che l’indomani sarebbe andato da lui «perché ha da dirgli dei segreti». Mennini è stato interrogato sul contenuto di questa telefonata dalla magistratura italiana il 2 giugno 1978 e il 12 gennaio 1979 e ha sostenuto che i «segreti» erano costituiti da «questioni non attinenti ai fatti per cui è processo, ma riguardavano il suo futuro di sacerdote», in quanto gli era stato proposto di entrare nell’Accademia pontificia per frequentare la scuola di diplomazia vaticana. In realtà, nella seconda testimonianza Mennini, forse consapevole della sua inverosimiglianza, pur ribadendo la prima versione, sentì il bisogno di aggiungere: «Non escludo che nel concetto di segreto io abbia fatto rientrare anche i contatti che ebbi con i “brigatisti rossi” in relazione sia alle comunicazioni telefoniche ricevute sia agli scritti che su segnalazione del sedicente prof. Nicolai avevo prelevato e consegnato alla famiglia Moro».
In effetti è accertato che Moro segnalò il suo nome ai rapitori come uno dei tramiti da utilizzare per recapitare le sue lettere, come puntualmente avvenne. Non sappiamo se il prigioniero lo scelse perché si fidava di lui in quanto era stato suo studente alla Facoltà di Scienze politiche di Roma, o perché sapeva di avere davanti il figlio del vicecapo dello Ior. Ciò appare più verosimile e sensato se consideriamo che oggi sappiamo con sicurezza che durante il sequestro Moro si svolse una trattativa segreta che coinvolse direttamente Paolo VI, il quale fece raccogliere a Castel Gandolfo un’ingente somma di denaro. Le intercettazioni telefoniche ci dicono che in quei giorni, con apparentemente diversi motivi, si recarono più volte nella residenza estiva del papa sia lo stesso Mennini, sia Giuliano Vassalli, che alcuni colloqui intercettati nel corso del sequestro indicano esplicitamente come protagonista di un negoziato segreto. A rivelare l’esistenza di questa somma di denaro è stato il sacerdote Fabio Fabbri (il terzo testimone ancora in vita), nel 1978 braccio destro del capo dei cappellani carcerari d’Italia Cesare Curioni e nel 1992-1993 coinvolto con il suo principale anche nella presunta trattativa Stato-mafia, il quale nel 2012 ha dichiarato davanti ai magistrati che lui e Andreotti erano «ormai gli unici due, rimasti vivi, a sapere un pezzo di verità sul caso Moro».
Sarebbe anche importante stabilire se Mennini non si limitò al ruolo di postino, ma svolse anche la più delicata funzione di «canale di ritorno», dall’esterno all’interno della prigionia, un canale che certamente Moro provò ad attivare con l’esplicito consenso delle Brigate rosse, a partire dal 29 marzo 1978, quando i sequestratori recapitarono le prime due lettere a Cossiga e al collaboratore Nicola Rana. In una missiva a Mennini, scritta intorno al 24 aprile, ma che, a quanto sappiamo, non risulta recapitata, Moro scrisse: «Vorrei raccogliessi notizie sulla salute di casa e ti tenessi pronto a rispondere, quando mi sarà possibile di domandartelo. Mi potrebbero scrivere qualche rigo? tramite te?». E in una seconda lettera, ritrovata soltanto nell’ottobre 1990, il prigioniero arrivò a scrivere: «Ho pensato dunque di unire il tutto, di chiamarti, di darti il pacchetto, perché lo tenga per te. Evidentemente, sorpassando casa, si rischia (credo) la perquisizione. Terrai tutto per te e, a tempo debito, ne parlerai a voce con mia moglie, per vedere il da farsi».
Sin qui le fonti conosciute. Cosa c'era da aspettarsi, allora, dall’audizione di monsignor Mennini? Moro scrisse in una di quelle sue lettere disperate che «la verità, cari amici, è più grande di qualsiasi tornaconto. Datemi da una parte milioni di voti e toglietemi dall’altra parte un atomo di verità, ed io sarò comunque perdente». Dopo averlo ascoltato, abbiamo avuto conferma che continueremo tutti a perdere: 37 anni dopo, ancora.