Speciale
A Parigi con L’educazione sentimentale
Paris change ! mais rien dans ma mélancolie
N'a bougé ! palais neufs, échafaudages, blocs,
Vieux faubourgs, tout pour moi devient allégorie,
Et mes chers souvenirs sont plus lourds que des rocs.
Charles Baudelaire, Le cygne
Dalla chiesa del Sacré Coeur, sulla collina di Montmartre, si vede tutta Parigi. A volte da lì, se sei sovrappensiero, guardando la distesa di tetti color ardesia, le macchie d’oro di qualche cupola, il groviglio fitto di strade e di passages, di piazze e di boulevards, e in fondo, non vista ma presentissima, la Senna, hai l’impressione di sentire i passi di tutti gli scrittori e i poeti che solcando la città l’hanno letteralmente costruita nel nostro immaginario, forgiando il mito di Parigi . È come uno scalpiccio sordo e tenace, con qualcosa di suadente che ti trasporta e ti induce a mettere i piedi nelle loro orme. Quelle pietre le ha solcate anche Gustave Flaubert, taccuino in mano, nella sua minuziosa ricognizione per allestire la grande scena dell’Educazione sentimentale, cui mette mano nel settembre 1864.
Quando esce, nel 1869, L’Educazione sentimentale è un mezzo fiasco. Flaubert ha lavorato quasi cinque anni a quello che definiva il suo roman parisien, accumulando una documentazione sterminata sul periodo tra la fine della Monarchia di Luglio e l’avvento della Seconda Repubblica. Troppo moderno per i suoi tempi, troppo pessimista nel suo sguardo sulla storia, sulle illusioni utopiche di progresso come sulla grettezza bottegaia della borghesia mercantile in ascesa, è un romanzo spietato. Non solo per la lucidità dello sguardo sul mondo, ma anche per il modo in cui quella lucidità si fa parola, si fa frase, pagina. Di fronte a un mondo insensato, la frase che lo racconta sembra sbriciolarsi, tenuta insieme da disperanti catene di punti e virgola, perché non c’è più nessuna idea superiore (Dio, progresso, ascesa sociale) che possa darle, alla frase come a quel mondo, una più ampia unità, un respiro grande. E tonfano, le frasi, in un ritmo discendente che a volte suona come un singhiozzo, senza alcuna concessione, mai, a una facilità che voglia compiacere il lettore, imbarcato in una impresa di lucidità che, per esempio, spiega anche il rigoroso, sistematico rifiuto da parte di Flaubert di tutto ciò che può lontanamente suonare idiomatico: mai e poi mai il lettore avrà la fin troppo facile carezza, la fin troppo comoda tregua, di una frase fatta, di una locuzione. La notte senza dormire è una “notte senza dormire”, non sarà mai, in Flaubert, una “notte in bianco”. Le cose come sono, nelle loro vividezza: un mondo insensato scrutato senza scorciatoie che lo accomodino, che ne ammorbidiscano i contorni con qualche giro di parole meno affilato.
Dentro quel mondo dove si agitano girando a vuoto – sullo sfondo delle barricate del ’48 (che perlopiù sembrano soltanto una festa balorda e sguaiata) – una borghesia già cafona e arrivista, un’aristocrazia aggrappata ai propri privilegi e disposta a qualunque trasformismo per difenderli e un popolo ottuso e feroce, dentro quel mondo Flaubert scaglia forse uno dei primissimi grandi inetti del romanzo contemporaneo. Frédéric Moreau, il giovane provinciale, sbarca a Parigi fornito di tutto il puntuale bagaglio dell’eroe balzachiano: ambizioni di conquista, aspirazioni artistiche e vaghi sogni amorosi. Ma è un bagaglio già appannato, già anemico, poiché Frédéric è già, senza saperlo, senza neppure la loro consapevolezza, un eroe novecentesco: il suo tratto è infatti l’irresolutezza, l’inconcludenza, che lo porta ad accumulare esperienze inesorabilmente destinate al fallimento. Falliscono le sue aspirazioni artistiche, politiche e sentimentali. Falliscono tutte le sue ambizioni, in un naufragio non di illusioni perdute ma di illusioni scialacquate, disperse in una specie di annaspare autodistruttivo che neppure sa di esserlo.
Su questo cimitero, su questo mondo devastato dove tutte le esperienze sono destinate al fallimento c’è un solo riscatto possibile, ma immenso, quello della parola, dell’arte. Tutto l’arco desolante della vita di Frédéric, tutto quello che non ha compiuto, tutti i vicoli ciechi in cui si è sprecata la sua vita si offrono alla prodigiosa alchimia della letteratura per trasformarsi, per riscattarsi in romanzo. La non storia d’amore fra il giovane provinciale e Madame Arnoux, tutto quello che fra loro non si è mai compiuto, quella intensità dolorosissima di un amore mai consumato diventano non soltanto la vicenda forse più intensa del romanzo, ma una delle più memorabili storie d’amore della letteratura contemporanea. Nello stesso modo, le pagine che ritraggono le occasioni sociali – feste in maschera, balli pubblici, cene più o meno sontuose a seconda della casa che le ospita – dove vediamo radunate la borghesia rampante, svariate demi-mondaines, più o meno giovani politici repubblicani, qualche vecchia mummia dell’aristocrazia, restituiscono, nel chiacchiericcio disordinato e incomprensibile dei vari personaggi in scena, la sublime vacuità di un mondo e, più sottilmente, le dinamiche sociali a esso interne, meglio forse di un saggio sociologico.
Dal fallimento di una vita, dall’insensatezza di un mondo, l’alchimia della parola fa un quadro implacabile e lucidissimo, in cui il narratore non prende mai la parola, lasciando che sia la scena stessa a parlare. E ne esce un capolavoro cui si ispireranno i più grandi del novecento, Proust in testa, che su Flaubert scrive pochissime pagine definitive nella loro chiarezza. (Marcel Proust, “A propos du “style” de Flaubert”, in Essais, Bibliothéque de la Pléiade, Gallimard, 2023. La traduzione italiana, di Maria Ortiz, è in: Albert Thibaudet, Marcel Proust, Lo stile di Flaubert, Elliot, 2014)
E la scena a cui Flaubert dà la parola è evidentemente la Parigi del 1848. Scena al cui minuzioso allestimento l’autore si accinge solo dopo aver raccolto una documentazione smisurata: dall’organizzazione delle pompe funebri, ai menù dei ristoranti, ai luoghi delle prime corse di cavalli, agli arredi, alla moda vestimentaria con le sue marche sociologiche, per tacere ovviamente della cronaca dettagliata dell’insurrezione del 1848 per la quale si avvale anche della testimonianza di prima mano dell’amico Maxime Du Camp (scrittore cui sono dedicate Les Fleurs du Mal di Baudelaire). Parigi non è solo però un impeccabile fondale. È, come certe capitali di romanzi (la Londra di Dickens, la Pietroburgo di Dostoevskij per citare solo quelle), un corpo vivo e un personaggio che sembra avere molto da dire, quasi prendesse la parola al posto del narratore che volutamente non prende la parola, ma è perennemento immerso dentro la propria materia narrativa. È un coro, Parigi, la cui voce risalta per nitido contrasto rispetto alla voce vacua e insensata del chiacchiericcio che sentiamo levarsi sopra la capitale dal consesso umano.
Se gli spazi chiusi, infatti, sono spesso claustrofobicamente dominati dalla parola vuota della commedia sociale, gli spazi aperti non si limitano a essere il fondale della Storia in marcia, offrono alcune volte una parentesi come di tenerezza cristallina, qualcosa di timidamente simile a uno struggimento, come la nostalgia di una specie di purezza perduta, esiliata come il cigno di Baudelaire nell’omonima poesia. Ci sono, certo, spazi che Flaubert colloca fuori dalla capitale. Alcune pagine descrivono con una minuzia quasi allucinatoria la gita di Frédéric e Rosanette nella foresta di Fontainebleau: è l’immersione in una natura che via via si fa più selvaggia come per condurli, parallelamente, a un momento di verità con loro stessi e fra loro. Altrettanto vivide sono alcune descrizioni della campagna e di Nogent – altre parentesi che suonano come brevi tregue, non meno insidiose peraltro, né meno corrotte, del mondo dal quale sembrano offrire rifugio.
Ma è troppo gigantesco, Flaubert, per limitarsi a indulgere banalmente nel culto dei “légumes sanctifiés” (letteralmente: le verdure santificate), come definiva sprezzante la natura l’altro gigante del XIX secolo, Charles Baudelaire, altro antimoderno, altro immenso reazionario, nato come Flaubert nel 1821 e anche lui, nello stesso anno 1857, processato per oscenità – l’uno per Les Fleurs du Mal, l’altro per Madame Bovary. Non sono solo paesaggi naturali, scorci selvaggi, o non soltanto quelli, a inserire segmenti di una specie di verità al di sopra della mascherata sociale, non è solo la natura offrire momenti di riconciliazione nel romanzo.
“Passava ore a guardare dall’alto del balcone la Senna che scorreva fra gli argini grigiastri, anneriti qua e là dagli scarichi delle fogne, con un pontone delle lavandaie ormeggiato contro la sponda, dove ogni tanto, nella melma, i ragazzini si divertivano a far fare il bagno a un cagnolino. I suoi occhi, trascurando a sinistra il ponte di pietra di Notre-Dame e tre ponti sospesi, si dirigevano sempre verso il quai aux Ormes, verso un gruppo di vecchi alberi, simili ai tigli del porto di Montereau. Di fronte, fra i tetti, spuntavano la tour Saint-Jacques, l’Hôtel de Ville, le chiese di Saint-Gervais, Saint-Louis e Saint-Paul, – e il génie della colonna di Luglio splendeva a oriente come una larga stella d’oro, mentre all’estremo opposto tondeggiava contro il cielo la pesante massa azzurra della cupola delle Tuileries. Là dietro, da quella parte, doveva esserci la casa di Madame Arnoux. […]
Percorreva senza meta il Quartiere latino, di solito così movimentato, ma deserto in quel periodo poiché gli studenti erano tornati dalle proprie famiglie. Gli alti muri delle scuole, come ingigantiti dal silenzio, avevano un aspetto ancora più cupo; i rumori che si udivano erano tutti suoni quieti, frusciare d’ali nelle gabbie, il ronzio di un tornio, il martello di un ciabattino; e i venditori ambulanti di vestiti vecchi, in mezzo alla strada, interrogavano con lo sguardo ogni finestra, invano. Nei caffè deserti, la donna dietro il bancone sbadigliava tra le caraffe piene; i giornali rimanevano in ordine sul tavolo dei cabinets de lecture; nelle botteghe delle stiratrici, la biancheria tremolava alle folate del vento tiepido. Ogni tanto si fermava davanti a un bouquiniste; un omnibus, che sopraggiungeva sfiorando il marciapiede, lo faceva voltare; e, quando arrivava davanti al Luxembourg, non andava oltre.
A volte, la speranza di una distrazione lo attirava verso i boulevard. Dopo strette vie buie che esalavano un’umida frescura, giungeva in certe grandi piazze deserte, abbacinanti di luce, e dove i monumenti disegnavano sul bordo del selciato frastagliature di ombra nera. Ma ricominciavano i carri, i negozi, e la folla lo stordiva, – specialmente la domenica ‒, quando, dalla Bastiglia fino alla Madeleine, era solo un immenso flusso che ondeggiava sull’asfalto, in mezzo alla polvere, in un frastuono ininterrotto; si sentiva disgustato dalla meschinità dei volti, dalla scempiaggine dei discorsi, dalla soddisfazione imbecille che trasudava sulle fronti grondanti!” (Gustave Flaubert, L’educazione sentimentale, Bompiani, 2024, traduzione di Yasmina Melaouah, pp. 91-92)
Qui l’accuratezza della descrizione non è, come altrove, al servizio del ritratto di un mondo insensato, ma serve semmai a tratteggiare alcuni ampi scorci di città – che vediamo seguendo lo sguardo di Frédéric, dapprima dal suo balcone, e poi durante un vagabongaggio per il Quartiere latino d’estate – come il correlativo di un momento quasi di introspezione in cui, sospeso il chiacchiericcio, Frédéric stesso può concedersi un dialogo con sé stesso e, calata la maschera della commedia sociale, provare a dirsi la verità su quel che sente.
Come il suo fratello d’anima Baudelaire, in questo suo roman parisien Flaubert contribuisce alla costruzione del mito letterario di Parigi. Ci sono infatti, già soltanto nel brano citato sopra, alcuni topoi con cui fa i conti ancora oggi qualsiasi piéton de Paris. C’è la Senna, che non è nemmeno un fiume, è un corpo mobile e sinuoso, drago dalle squame dorate, la Seine che, come il suo omofono, è una scène, una “scena”, un palcoscenico, come ci hanno ricordato le recenti immagini della cerimonia di inaugurazione dei Giochi olimpici. La Senna che consolava un personaggio di Françoise Sagan, quando, alla prospettiva delle delusioni amorose, diceva a sé stessa: “Il y aura toujours la Seine”, frase in cui, incantevole metonimia, risuona quel “We’ll always have Paris” del film Casablanca. Ci sono i bouquinistes, e c’è la poesia del Quartiere latino, ancora oggi inossidabile, benché fra l’Educazione sentimentale e il turista americano in infradito che vaga con l’aria inebetita sia passato il barone Haussmann ad aprire, fra gli altri, il grande asse viario nord-sud del boulevard Saint-Michel e poi, in tempi più recenti, siano passate le catene internazionali di coffee-shop e i marchi della moda usa e getta a prendere il posto delle librerie (Christophe Charle, Paris, “capitales” des XIX siècles, Points, 2021).
Ci sono i caffè, su cui regge non solo la mitologia, ma la quotidianità di una città che quando è stata colpita dagli attentati del novembre 2015, lo è stata non casualmente anche e soprattutto ai tavolini dei suoi caffè, e c’è il Jardin du Luxembourg, dove ogni turista si sente ancora in dovere di leggere una mezz’ora sulle sedie color verde salvia.
Ma c’è, soprattutto, quell’altra creatura liquida e sinuosa e minacciosa come un drago, che è la grande protagonista salita alla ribalta della storia ottocentesca e rispetto alla quale i due soliti giganti, Flaubert e Baudelaire, provano nel contempo esercrazione e fascino: la folla. Compagna del flâneur, creatura per antonomasia della città e figlia dell’orribile progresso, della rivoluzione industriale e dell’esplosione urbana, la folla dell’Educazione sentimentale è liquida come la Senna, è una massa indistinta e minacciosa che scorre e fluisce come un fiume, rumoreggia “come il rumore continuo delle onde in un porto” con “un ampio ondeggiare di marea”. Creatura spaventosa e affascinante, la folla di Parigi, che dalle barricate del ‘48 a quelle della Comune a quelle dei Gilets Jaunes, suscita ancora e sempre terrore e tenerezza, e che brulica ancora e ancora, oggi, sotto gli occhi di chi, sovrappensiero, affacciato dal parapetto dal Sacré Coeur, ha l’impressione di vedere Flaubert con il suo taccuino e Baudelaire con le scarpe imbottite di carta di giornale calcare le strade di Parigi.
Yasmina Melaouah è autrice della nuova traduzione de L'educazione sentimentale pubblicata da Bompiani nel 2024. Tra gli altri autori che ha tradotto: Albert Camus, Daniel Pennac, Mathias Énard, Alain-Fournier, Raymond Radiguet, Colette, Patrick Chamoiseau, Laurent Mauvignier, Jean Genet.