Inventare qualcosa di insincero / Marcel Broodthaers
C'è una poesia intitolata La clef de l'Horloge, è tratta da un manoscritto di Marcel Broodthaers datato 1971 ed omaggia Kurt Schwitters; i primi versi recitano così: Il y a ce tableau avec une roue placée/ sur le pôle d'une trajectoire./ Surprise qu'elle ne soit pas peinte./ Une roue de chariot? /... Elle est la roue de l'espace […].
C'è una ruota nello spazio, dunque, sorella degli orologi il cui movimento rompe l'immobilità del quadro e produce una meccanica rigorosa, trasporta pezzi di legno al posto di stelle e insieme ad essi vecchi chiodi, tickets d'autobus e tutto ciò che la Vita abbandona ... il resto del testo suona più o meno così; così come Broodthaers percepisce il Merzbau dell'artista tedesco vissuto qualche decennio prima di lui e la cui casa andò distrutta durante la guerra.
Madrid, 9 Gennaio 2017: il Reina Sofia chiude i battenti sull'ennesima mostra dedicata a Marcel Broodthaers. Nel giro di due anni, durante il biennio 2015/'16, dopo decenni di fioco silenzio, ben cinque tra le più prestigiose istituzioni del mondo dell'arte internazionale hanno ospitato retrospettive dedicate all'artista belga: La Monnaie de Paris, il Fridericianum di Kassel, l'Herbert Foundation di Gand, lo Stedelijk Van Abbemuseum di Eindhoven ed il MoMA di New York. In Italia l'unica grande mostra è stata realizzata al MAMBO di Bologna nel 2012, mentre le pubblicazioni si possono contare sulle dita di una sola mano soprattutto in rapporto alla quantità di saggi monografici esistenti sia in area francofona a firma di studiosi come Catherine David, Bernard Marcadé o Jacques Rancière e all'interesse che parallelamente dall'altra parte dell'oceano i critici di October, in particolare Rosalind Krauss, Douglas Crimp o Benjamin H.D. Buchloh, hanno sempre dimostrato nei suoi confronti, fin dalla prima retrospettiva al Walker Art Center di Minneapolis nel 1989.
Padrino della Critica Istituzionale e dell'era del post-mediale, morto nel 1976 a soli dieci anni dal suo ingresso ufficiale del mondo dell'arte, per presentarlo probabilmente si dovrebbe iniziare dal nome: «Broodthaers se prononce Brotars: quatre lettres phonétiquement inutiles dans l'orthographe du nom», scrive egli stesso in un fittizio dialogo con Pierre Restany (pubblicato nel catalogo alla mostra Marcel Broodt(h)aers /Court-Circuit, 1967). Realtà e finzione, oggetto e decoro, opera e museo, creazione e reificazione, immagine e parola queste sono le tangenti lungo le quali scorre l'occhio di una società in veloce cambiamento: erano gli anni Sessanta e il boom economico stava stravolgendo la vita materiale di ogni individuo, per lo meno sul lato occidentale del pianeta, quando Broodthaers decide infatti di diventare artista, partendo dalla possibilità di inventare qualcosa di insincero.
«L'idée enfin d'inventer quelque chose d'insincère me traversa l'esprit et je me suis mis aussitôt au travail [...]», scrive proprio così sull'invito alla sua prima mostra alla Galerie Saint-Laurent di Bruxelles, quando viene presentata la prima opera che arresta la sua produzione poetica: Pense-Bête (questo il titolo) si compone di cinquanta esemplari invenduti della sua ultima raccolta di poesie sui quali è stato fatto colare del gesso; il risultato finale è un unico blocco informe e a-funzionale, visto che è stata tolta ai libri la possibilità della consultazione.
I messaggi di Broodthaers sono quasi sempre ambigui, sibillini e invitano chiunque si voglia accostare alle sue opere a un'operazione critica sugli strumenti di analisi e di comprensione, per non abbandonarsi mai a troppo facili considerazioni. Egli è difatti un artista, ma anche un poeta, un uomo di lettere, un intellettuale, un collezionista, un giornalista, un conferenziere. Le sue opere di primo acchito non risultano quasi mai particolarmente armoniose, seducenti o comunicative, ma piuttosto appaino fredde, bizzarre e chiuse nella loro significazione. Buchloh nel saggio dedicato ai Poèmes Industriels, pubblicato sul n.42 di October (1987) interamente dedicato a Broodthaers, parlerà a proposito della sua pratica di assumption of modernist thought, dal momento che il suo procedimento creativo si modella sui processi di produzione industriale e si avvale dello stesso milieu in cui avviene la diffusione e l'assimilazione – spesso inconscia – della cultura di massa.
Le sue opere rimandano difatti a una realtà frammentata, fittizia nel suo complesso, non perché ci sia una verità che assuma forme e caratteristiche opposte, ma perché fittizi sono gli ingranaggi legati al campo culturale che la società dei consumi nascente ha messo in azione. Compito dell'arte e dell'artista sarà allora quello di rivelarli secondo un processo accurato di demistificazione. Per avvicinare il suo lavoro si può ricorrere ad alcuni aggettivi cari alla critica del Novecento, come antigrazioso, ansioso e post-mediale richiamando alla mente la forma spigolosa e sommaria di Umberto Boccioni, l'oggetto opaco e di incerta definizione di Harold Rosenberg, e infine il superamento della specificità del medium a favore di un'azione plurale di media che liquida definitivamente la visione focale e apre – scrive Rosalind Krauss – a un'atmosfera, appunto, post-mediale.
Questi fattori, che Broodthaers ben fa convivere nel suo processo, sovvertono le gerarchie visive e configurano l'opera come un elemento composito e combinatorio, soggetto a diversi gradi di rappresentazione. Nonostante nel suo percorso siano chiari i riferimenti a Duchamp e Magritte, la capacità di vivere il suo tempo, fa sì che egli riesca a spingersi oltre la lezione dada e surrealista, rinnovando l'avanguardia e venendo meno in primo luogo al principio dell'enunciato e della legittimità del luogo – come nel progetto della sua vita, il Musée d'Art Moderne-Département des Aigles, allestito per la prima volta in casa sua in Rue de la Pépinière a Bruxelles nel 1968, in seguito alle riflessioni maturate dopo le contestazioni studentesche del maggio dello stesso anno.
La sua produzione, come accade in molte mitologie individuali (prendendo in prestito la felice definizione di Harald Szeemann, alla cui Documenta nel 1972 sarà del resto invitato a partecipare proprio nella sezione così designata), è più semplice da descrivere per antitesi che per analogia ad altri artisti o movimenti coevi: lontanissimo dall'epopea del visivo inaugurata dalla pop art e da Andy Warhol, gli oggetti che attirano la sua attenzione fanno parte della routine giornaliera ed hanno carattere ordinario, banale, convenzionale (come non ricordare tra di essi le moules, giocate sulla doppia accezione che nella lingua francese ha la parola moule, ovvero cozza/mollusco di mare e stampo/matrice utilizzata in particolare nei processi di produzione industriale). Le sue bizzarrie appaiono, inoltre, altrettanto lontane dagli aspetti minimali della scultura e degli ambienti americani, a cui addirittura opporrà un'atmosfera da bric à brac ottocentesco piuttosto che seguire la tendenza del white cube. E se nell'uso di materiali emerge qualche affinità con il nouveau réalisme, anche questo parallelismo non trova la giusta coerenza, perché il modo di associare gli elementi si nutre di ben altre suggestioni, spesso derivanti dal passato e in particolare dai surrealisti e dalla poesia del XIX secolo.
L'esprit che caratterizza gli ultimi anni della sua attività, infine, prende le mosse dall'assunto di non voler definire le opere realizzate in situ installazioni ma piuttosto décor. L'organizzazione delle mostre in salles che ne deriva non fa eco agli allestimenti per ambienti o period room, che tanta fortuna hanno avuto in alcuni decenni del secolo scorso, ma piuttosto a una concezione dello spazio che rimanda alle atmosfere dei primi studio cinematografici, in cui il décor viene utilizzato come stratagemma illusionistico per differenziarsi dalla quinta teatrale che mancava di profondità e mobilità (anche qui la parola décor gioca sulla doppia significazione in francese di decoro e plateau de tournage, ovvero set cinematografico). Questa costruzione spaziale è intesa come una conquista (Décor. A conquest by Marcel Broodthaers del resto è il titolo di una delle sue ultime mostre): un procedimento che già nella sua resa nominale si presenta ambiguo, perché evocatore sia di pratiche di potere sia di utopiche speranze di raggiungimento di un mondo nuovo. L'ambiguità viene utilizzata come una tecnica propria al linguaggio, e ancor di più alla società del capitalismo avanzato che del linguaggio si è impadronita per creare consenso. L'intera sua opera si rivela una strenua difesa dell'arte dall'assimilazione passiva ai meccanismi dell'industria culturale e la reificazione della parola stessa, nel passaggio da poesia ad arti visive con Pense-Bête, non si riduce a un semplice divenire cosa del linguaggio, ma costruisce un metalinguaggio in grado di formare dei dispositivi testuali in cui la «retorica nera» monta stratagemmi, sberleffi, giochi illusionistici che confluiscono in un'estetica della distrazione.
Se lo spazio ideale del white cube nasce principalmente per preservare l'oggetto d'arte, relegandolo in un luogo asettico e di esclusione basato sulla decontestualizzazione, molte delle pratiche nate in particolare dopo gli anni Novanta hanno capovolto la logica sacrale del luogo neutro: è chiaro, ormai, che non è una fuga dallo spazio reale a proteggere l'opera dalle leggi del merchandising. Nella ricerca del quotidiano, della simultaneità e della resa performativa si avvertono le dinamiche che processano la sua opera, rendendola oggi più che mai di una attualità sconcertante.