Mari e monti (3). Sicilia degli dèi
In Sicilia, dicono, tutto è divisibile per tre. Tre punte, tre valli, tre mari, tre gambe nel simbolo ufficiale. E non stupisce che l’immaginario geologico di questa terra desolata e impensabile preveda finanche tre colonne che, dal profondo del mare, la tengono su. Malamente a dire il vero, poiché – raccontano diverse leggende – una di queste colonne è ormai spezzata, l’altra fortemente incrinata e una sola resta lì a reggere il tutto.
Il mitico Colapesce, ragazzino mutato in creatura acquatica a causa del suo amore per il mare, in diverse varianti della narrazione folklorica che lo vede protagonista prova a suo modo a mettere delle pezze; e usa la spalla a mo’ di pilone per sostenere l’Isola. Ma ogni tanto, stanco, cambia dorso: e il mondo intero, da quelle parti, sobbalza. Con risultati conseguenti: continui tremori e relativi timori, equilibrio perennemente instabile, poche aspettative. Ecco il destino di un’isola sempre in bilico, da tutti voluta e da nessuno mantenuta, mèta di numerose rapine morali e materiali, patria di curiosi indigeni che, odiamandola, non sanno né vogliono gestirla da soli. Siano essi divinità o eroi, umani o non umani, miti o realtà.
Ritroviamo la celebre storia di Colapesce in La Sicilia degli dèi. Una guida mitologica (Raffaello Cortina, pp. 295, € 20), il nuovo libro di Giulio Guidorizzi e Silvia Romani, classicisti con solide basi antropologiche, dedicato alle straordinarie, complesse mitologie riguardanti la Sicilia, popolate da dèi, eroi, giganti, sileni e satiri, furie, mostri, ninfe, efebi, amazzoni, centauri, re e tiranni, morti che ritornano, inventori e matematici, pittori e architetti, templi (con relative metope), teatri, statue, tombe, luoghi, mari e navi, laghi, montagne (l’Etna da un lato, Erice dall’altro), venti, mandrie, mute di cani, tori, amori folli e passioni sfrenate (gelosia, ira, paura), ebbrezze dionisiache, metamorfosi, ma anche trafficanti di reperti archeologici, collezionisti d’arte, condottieri illustri, schiavi ribelli, sacerdotesse di Venere, archeologi illuminati, amministratori locali spesso miopi, palazzinari, industriali senza scrupoli, attese di palingenesi future.
Come dire che il mito è l’insieme delle sue trasformazioni narrative che, se da un lato si perdono senza origini certe nella notte dei tempi, dall’altro continuano a pescare nella modernità e perfino nella contemporaneità. Diceva Lévi-Strauss che la psicanalisi è una delle ultime varianti, finora, del mito di Edipo. E così Guidorizzi e Romani stanno al gioco. Il loro storytelling , vivificando antiche leggende, si propone come una guida – perché no? – per vacanze, si sarebbe detto tempo fa, intelligenti nelle variegate terre di Trinacria: dallo stretto di Messina alle isole Eolie, da Taormina e Catania a tutta la costa dei Greci, passando per Iddu (appunto l’Etna) e arrivando a Siracusa, per poi avventurarsi nell’interno (Enna, Morgantina, Pergusa, Adrano), sfociando in faccia all’Africa, e cioè ad Agrigento e Selinunte, Sant’Angelo Muxaro e Mazara del Vallo, e arrivando infine a Erice, Mozia e Palermo: città quest’ultima che – scrivono i due autori – come la Natura per Eraclito ama nascondersi.
Ma questi sono solo i principali nomi propri di un’ipotesi di viaggio che, pescando nel mito, mette in fila, e soprattutto incrocia, popoli diversi – Siculi, Sicani, Elimi, Cartaginesi, Greci (della madrepatria, Italioti e Sicilioti), arabi, normanni, spagnoli e via dicendo, ognuno dei quali con le sue religioni – fenicia, greca, romana, cristiana… – e i suoi pantheon, a formare sincretismi d’ogni genere (Afrodite e la Madonna, per dirne una) e sovrapposizioni mimetiche, non soltanto onomastiche.
Quel che i due autori percepiscono di continuo nel loro girovagare nello spazio e nel tempo, e ridicono a ogni pagina, è che la Sicilia degli dèi è hic et nunc: non età dell’oro da rimembrare sospirando ma tessuto culturale e geografico che si innerva anche al di là dei siti archeologici, nei luoghi fisici, negli edifici, nei paesaggi, e perfino negli abitanti che, per quanto spesso dimentichino il loro passato, lo custodiscono inconsapevolmente dentro di sé.
Girando per le stradine di Erice si coglie ancora la frenesia erotica di Venere, che lì per secoli aveva il suo santuario. Con sollazzi vecchi e nuovi. Così come visitando i resti di Selinunte sembra di sentire la ricchezza e la magnificenza di una città gigantesca e fiera di sé, annientata in solo otto giorni dai soldati cartaginesi alquanto sanguinari. E le pietre dei templi hanno di che raccontare. Per non dire dell’Etna, i cui colori fortissimi stridono con il fischio continuo del vento, anche perché Tifone vi aveva a lungo soggiornato; e forse è tuttora lì. Ad Aci Trezza, poi, i faraglioni spiccano da millenni sul mare blu cobalto perché lanciati da un Polifemo accecato, realmente e metaforicamente, il quale dall’alto della grotta lanciava sassi da par suo contro quel furbacchione di Odisseo.
In tempi di turismo di massa, fattosi tanto più vandalico e rapace quanto più agognato da ciechi amministratori e autoctoni desiderosi d’un accumulo immediato, è bene andare in cerca di alternative sensate, nella tripla accezione del termine: con una direzione, un significato e, soprattutto, un apparato percettivo da tenere in allenamento costante e produttivo. Ridurre tutto al dissidio fra cultura ed economia, per poi attuare flebili compromessi, è deprimente. Meglio imboccare strade magari non nuove ma ricche di valore umano e sociale, storico e culturale. Dove l’immaginario e il simbolico, una volta tanto, hanno la meglio, e sanno indirizzare, se non trasformare, la nuda realtà. Colapesce for ever.
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