Marisa Merz. Scarpette 1968
Abbiamo due scarpette abbandonate su una spiaggia La spiaggia è quella di Amalfi. Il mare è il Mediterraneo. Le scarpette sono tessute: la loro trama getta un’ombra tenue sulla sabbia. Di che si tratta? Di semplici calzature in filo di nylon, di imbarcazioni pronte al viaggio o di piccole soglie dischiuse su segrete dimensioni? Tutto questo assieme. E in più di un bizzarro, voluttuoso passatempo.
Marisa Merz, Scarpette, 1968 (fotografia di Claudio Abate)
Non molto tempo fa ho chiesto a Marisa Merz di scegliere una parola come emblema del suo lavoro. Le ho chiesto di considerare una mia lista. La lista era: “distanza, instabilità, Lascaux, origine, parola, riparo, stanza, viaggio, volo”. L’artista ha scelto “volo” perché, mi ha detto, “il volo le trasporta tutte”.
Spesso trascuriamo di considerare la dimensione del tempo in relazione all’attività di Marisa Merz. O per meglio dire trascuriamo di considerare la dimensione del disegno, inteso come tempo. Nulla dies sine linea: l’antico motto adottato da Paul Klee vale anche per l’autrice delle scarpette. Per Klee come per Marisa Merz disegnare è intrecciare. Linea dopo linea, tratto dopo tratto. Una semplice combinazione di linee verticali e ortogonali può dare vita a immagini disparate. Klee imita la tecnica del ricamo nella serie di disegni del periodo di Dessau: picchi innevati, fiori di alta quota, misteriosi ipogei o tumuli funerari di re-sacerdoti, giardini “orfici”. Non importa se la tecnica è semplice (in apparenza). Proprio il carattere ripetitivo e pressoché rituale conferisce al disegno carattere di trance, sogno a occhi aperti o appunto “trasporto”.
Paul Klee, Variazioni (Motivo progressivo), 1927
Dove ci trasporta Marisa Merz? Questa è la domanda. Un rapinoso desiderio di leggerezza attraversa l’arte italiana tra la fine dei Sessanta e i primi Settanta. In occasione della sua seconda personale all’Attico, nel marzo 1968, Pino Pascali installa ponti levatoi e passaggi di liane in lana d’acciaio.
Pino Pascali, Ponte, 1968
I ponti sono varchi che conducono l’arte (e l’esperienza che ne fa lo spettatore) al di fuori del ristretto mondo dell’“ideologia” o della cultura ereditata. Istituiscono regioni franche, governi del fantastico, apoteosi private. Legare, intrecciare, avvolgere, fasciare sono attività che richiedono tempo e dispensano assorbimento. L’artista si ritrae in un proprio regno. Che altro era, se non un’evasione sostenuta da un mirabile atto di fede, il celebre “salto nel vuoto” inscenato da Yves Klein in un fotocollage del 1960?
Memore del Mare di Pascali, Piero Gilardi evoca il volo dei gabbiani, grandi trasvolatori pelagici, nei Tappeti natura .
Piero Gilardi, Mare, 1967
Gianni Piacentino inventa aerei dalle ali sottili e opalescenti.
Gianni Piacentino, Ali opalescenti, 1969
La stessa Marisa Merz vola. Nel febbraio 1970, in occasione di una personale all’Attico, l’artista diserta l’inaugurazione per decollare dal più vicino aereoporto cittadino. Comunicherà al gallerista, Fabio Sargentini, quota e velocità; trascritte, le indicazioni numeriche saranno poi annotate su un grafico e esposte in mostra. Il volo è a tutti gli effetti un disegno; e viceversa.
Marisa Merz, Cm. 1647 di grigio trasmessi su ondaradio 123.6 tra quota 1-10000 piedi, 1970
Amalfi, ottobre 1968. Marisa Merz installa le scarpette sulla spiaggia. Che succede attorno? Marcello e Lia Rumma, al tempo giovani collezionisti (il primo è anche direttore del Salerno Centro Studi Colautti), hanno organizzato la mostra Arte povera + Azioni povere agli storici Cantieri della città. Il curatore è Germano Celant. Poveristi e concettuali espongono assieme. Il proposito è quello di accompagnare al debutto internazionale una generazione postidentitaria. Tra i non italiani Jan Dibbets, Richard Long, Ger van Elk. Pistoletto porta in scena lo Zoo, il suo gruppo teatrale. Mario Merz partecipa alla mostra, Marisa no. Le scarpette sono la testimonianza di una partecipazione indiretta, in piccola parte dissensuale. La sperimentazione di una differenza.
“Si pensava di portare gli spettacoli negli stadi, alla televisione”, ricorda Boetti commentando la rassegna amalfitana. “Tutto questo ci trascinava, erano i veri momenti falsi, della facilità… la nausea della fine”. Il ricordo non è aneddotico: segnala una precisa frattura interna al gruppo dell’Arte povera tra artisti interessati al lavoro in studio e artisti rivolti a pratiche performative o al teatro di strada. Boetti si schiera tra i “formalisti” con Paolini, Fabro e Marisa Merz. Dislocate in territori di trasognata perifericità, le scarpette di filo prendono le difese di fantasticheria e “trasporto”, linea e disegno.