Camille Paglia: imparare a guardare
“George Grosz rifiutava con fermezza l’astrazione.
‘La grande arte deve essere comprensibile da chiunque’, diceva”.
Può non essere il libro di una storica dell’arte, ma è certamente un libro sulla storia dell’arte. Provvisto di una filosofia dell’arte, un’istanza patriottica e una teoria critica saldamente radicata in una prospettiva democratica.
In Seducenti immagini Camille Paglia si pone un problema educativo. Ciò che conta, afferma, è “imparare di nuovo a guardare”. La sua preoccupazione si volge soprattutto ai piccoli e agli adolescenti. Come potranno sopravvivere al caos visivo? E interessarsi al mondo là fuori, “con i suoi doveri e i suoi dilemmi morali”? Legioni di immagini sollecitano quotidianamente la nostra attenzione ammiccando dagli schermi di cellulari e monitor, dalla TV, dai cartelloni pubblicitari. Può sorprendere che una agit-prop si distolga dalla militanza di gender per interessarsi a problemi pedagogici o storiografici. Ma è così: dall’intero libro traspare un allarme. “La cultura americana”, scrive Paglia, “ha smarrito ogni equilibrio a causa dell’ossessione per il cruento sport della politica”. La femminista pro-sex è d’accordo con il filosofo conservatore. Paglia stringe la mano a Allan Bloom. Tra politica-spettacolo, eccessi decostruzionistici e isolazionismo etnico o sessuale è in gioco la “chiusura della mente americana”. Al grande pubblico manca “una cornice storica di conoscenze oggettive sull’arte”. E’ inoltre necessario restituire priorità a ecfrasi e “narrazione”.
Qui e là disseminate di gaie “attualizzazioni” a sfondo psicosessuale, le descrizioni di Paglia sono per lo più intriganti e originali se considerate da punti di vista extraspecialistici, di rado intralciate da preoccupazioni pedanti o punti di vista moralistici. Un modo insolito e brillante, il suo, antiformalistico sino all’aneddoto, per conquistare nuovi adepti alla causa del finanziamento pubblico dell’arte, oggi decurtato; e più in generale del “patrimonio”.
Seducenti immagini si presenta come un “breviario” rivolto, oltreché ai preadulti, “alle classi operaie e mediobasse”. Suo obiettivo è quello di installarsi sugli scaffali semideserti di famiglie che hanno poco altro, in casa, oltre la Bibbia e qualche selezione del Reader’s Digest. Dunque un’accorta strategia editoriale. Ampie riproduzioni a colori. Dettagliate descrizioni di singole opere accompagnate da copiose digressioni storico-biografiche. E maneggevolezza di formato. Niente di più dissimile dai soggioganti blockbuster “alto-culturali” che la storiografia artistica accademica americana ci ha intimato in questi anni: il genere manualistico-monumentale entro cui svetta, per intenderci, il ponderoso Arte dal 1900 di Hal Foster, Rosalind Krauss, Yve-Alain Bois e Benjamin Buchloh. Paglia professa il proprio amore per l’arte con brevità e humour. Il racconto è scandito in capitoli monografici dedicati ciascuno a un’opera. “The best of”: cinque millenni di storia dell’arte occidentale esemplificati attraverso una selezione di immagini risolute a sfidare il pregiudizio dei ceti popolari americani.
“Questo libro nasce dalla costernazione che ho provato davanti all’aperta ostilità verso l’arte e gli artisti che ho potuto riscontrare nelle trasmissioni radiofoniche AM degli ultimi vent’anni”. Tutto è critica in nuce, dunque persino l’insulto e il punto di vista di Paglia è lodevolmente non corporativo. “Chi appartiene al mondo dell’arte”, osserva, “e risiede in regioni metropolitane provviste di grandi musei soffre di un tragico autocompiacimento circa lo status corrente dell’arte e il suo prestigio”.
L’autrice contesta determinati aspetti dell’arte contemporanea e le sue tesi sull’involuzione della cultura Pop sono stimolanti. “Giunta a maturità dopo la guerra”, scrive Paglia, “la mia generazione ha potuto giocare con il Pop perché avevamo una solida istruzione elementare, orientata sui fondamentali della storia e delle discipline umanistiche”. Ma il ludico anti-intellettualismo dei baby-boomers ha prodotto conseguenze inattese. I riferimenti normativi dell’educazione liberale classica sono stati dispersi perché “gli approcci multiculturali hanno sacrificato troppo spesso la cronologia all’entusiasmo sentimentale e alle rimostranze d’obbligo”. Oggi le più giovani generazioni ricorrono all’incredulità per trovare riparo all’eccesso relativistico di un’informazione orizzontale. La loro “nervosa ironia” non è tuttavia in grado di progettare storia e la mancanza di “narrazioni” lineari smarrisce le ragioni di conflitti formativi.
Cosa ha più senso studiare e stimare “d’obbligo”? L’antologia storico-artistica di Seducenti immagini vuole essere una risposta pronta all’uso. Ma è appunto sotto il profilo pedagogico che il programma di studi sorprende: le scelte dell’autrice oscillano tra l’ufficialità del canone e la più intrepida idiosincrasia. Mi spiego. Quanto più il “breviario” si avvicina cronologicamente a noi tanto più diviene evidente che non recherà notizia di maestri accreditati, di Giotto o Masaccio, poniamo, di Piero della Francesca o Antonello, van Eyck o Memling, Dürer o Leonardo, Rubens o Caravaggio, Rembrandt o Goya. E neppure del Doganiere Rousseau o di Puvis de Chavannes, di Matisse o de Kooning. Troveremo invece Eleanor Antin o Renée Cox. Tamara de Lempicka invece di De Chirico. Warhol ma non Johns. Per fortuna Nefertari assicura un saldo ormeggio iniziale a una narrazione altrimenti desultoria e l’omaggio al Libro di Kells divulga i tesori dell’arte altomedievale. Ma un tardo, brutto Manet non ripaga dell’assenza di Degas (ardimentosamente richiamato nel capitolo su John Wesley Hardrick) mentre, pur senza troppo rimpiangere Van Gogh, l’inclusione di almeno uno tra Gericault, Delacroix, Courbet o Cézanne sarebbe apparsa a chiunque più che onorevole. Infine. Se la prospettiva è quella dell’arte narrativa perché negare il giusto trionfo all’inesausto pennello di Hogarth o di Daumier?
Edouard Manet, Al caffé, 1879 ca.
C’è sempre il rischio che gli studi culturali diventino la riottosa provincia frontaliera esposta al rischio di incontrollate incursioni pulsionali. Talune iperboli camp di Paglia confermano il timore. Davvero dovremo credere che vi siano sensate analogie storiche tra il Marcel Duchamp di Tonsure, una stella disegnata sulla nuca, e un cybergladiatore masochista dalle oscure motivazioni come l’atroce Stelarc? Ovviamente no, ma si potrà pur sempre replicare che la selezione di Seducenti immagini non manca di grazia, novità e temerario piglio di scoperta proprio perché disequilibrata e (a tratti) selvaggiamente frammentaria.
“Chi è il più grande artista del nostro tempo? Di norma per emettere questo giudizio guarderemmo alla letteratura e alle belle arti. Ma il felice connubio della Pop Art con i mass media commerciali ha segnato la fine di un’era. I massimi artisti dei cinquant’anni successivi a Jackson Pollock non sono stati pittori, ma innovatori che si sono impossessati della tecnologia”. L’intero racconto è attraversato dalla convinzione che qualcosa come il “genio americano” si sia espresso (e sia destinato a esprimersi) nelle arti commerciali: cinema, televisione, pubblicità, jazz, musica rock, architettura. L’omaggio a George Lucas, regista e inventore della saga di Guerre stellari, conclude il libro e illustra, nelle intenzioni di Paglia, il trapasso dall’arte per artisti e conoscitori allo spettacolo di massa. Scorgiamo qui qualcosa come un’estetica antiminimalista e anticoncettuale, vitalistica, comunitaria e a tratti vernacolare, potentemente segnata dalle controculture femminista e nera degli anni Sessanta e Settanta. Il grande rilievo conferito a Cox, versata nella reinterpretazione in chiave afro di iconografie sacre ebraico-cristiane e nella creazione di personaggi femminili dai fumettistici superpoteri, è rivelativo: il progetto storiografico diviene un’estroversa affirmative action condotta contro la cultura “alta”, l’immaginazione erotico-estetica dominante, l’autorità culturale. Intemperanti sincretismi e ludiche razzie in territorio nemico fanno parte del gioco.
Il Pantheon modernista soffre sotto il duro gioco imposto dal proposito di “narrazione” e gran parte degli artisti più distaccati sono esclusi dall’antologia. Fa eccezione Mondrian, cui l’autrice dedica un cameo istruttivo e perspicace. “L’energia creativa della nostra epoca si sta riversando dalle belle arti alla tecnologia”, conclude ruvida Paglia. L’“avanguardia” è finita e “negli ultimi cento anni il design industriale ha fornito quell’appagamento estetico che un tempo proveniva soprattutto da quadri e statue”. Il punto di vista è quello del saggio benjaminiano sull’Opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936): le arti non industriali hanno il torto di comunicare a cerchie troppo ristrette. Riformulato in chiave techno-consumeristica, tuttavia, l’antico elogio dada-costruttivista della “riproducibilità” equivale oggi alla diffidenza nei confronti di ogni possibile “avanguardia”.