Marker / Mémoire
Questa è la storia di un uomo segnato da un’immagine d’infanzia.” L’immagine, attorno a cui gira e si avvolge La Jetée (1962) di Chris Marker, è il volto di una donna sul molo d’imbarco («jetée») dell’aeroporto di Orly: un uomo corre tra la folla verso di lei, ma è colpito da una pallottola, arrestato in una posa eterna, un’icona istantanea che ricorda molto lo foto emblema della guerra civile spagnola scattata da Robert Capa. Un bambino assiste alla scena, che è dunque scena primaria, “immagine d’infanzia”, prologo ed epilogo di una stessa storia: perché l’uomo e il bambino sono la stessa persona. Altro particolare, essenziale: questa immagine, come ogni immagine nel film, è, effettivamente, una fotografia fissa, come se questo istante fatale avesse congelato anche tutti gli altri.
La Jetée è la storia di un uomo che attraversa il tempo, un visionario, ossessionato da un ricordo e che grazie alla potenza di questo ricordo varca la soglia che separa un cupo mondo sotterraneo, in cui è relegato con gli altri sopravvissuti alla Terza Guerra Mondiale, dalla luce del mondo che esisteva prima. Il disastro atomico non ha lasciato alcuno spazio dove cercare salvezza: l’unica soluzione è viaggiare nel tempo. Ma una volta ritrovata la donna del ricordo, l’uomo non vorrebbe più separarsene: imbalsamato in quella memoria felice, come gli animali che circondano i due mentre visitano il Museo di storia naturale, è deciso a restarvi, piuttosto che tornare nelle catacombe in cui fisicamente si trova e dove i suoi carcerieri lo osservano spremere la propria psiche. Il punto in cui questa fuga del desiderio incontra di nuovo la dura realtà è proprio quell’istante sul molo dell’aeroporto, quello che chiude e riapre all’infinito questo film en boucle.
Il viaggio raccontato in questo foto-romanzo di fantascienza è un ritorno, un riavvolgersi della memoria su se stessa, fino a quel dejà-vu in cui coscienza e ricordo si sovrappongono e fondono: (ri)trovarsi immortalati in questo istante, non vuol dire solo affacciarsi alla morte, ma confrontarsi con una realtà anche più dura da accettare: “non si evade dal Tempo”, così come ogni fotografia non potrà mai liberarsi dal momento in cui è stata scattata. Che ogni film sia composto da fotogrammi fissi, che sfuggono allo sguardo, è una verità rimossa attorno a cui tanto cinema cosiddetto sperimentale ha spesso lavorato, ma nessuno l’ha mai resa in una forma così cristallina e necessaria come Chris Marker in questo piccolo film, che resta un oggetto non identificato nella storia del cinema: come il battito di ciglia della donna, che per un attimo anima la serie di fotografie, può anche essere sfuggito a tanti, ma, chi lo coglie, ha visto qualcosa di irripetibile.
Le immagini segnano, e Chris Marker, che il 30 luglio se n’è andato all’età di 91 anni, lo sapeva bene, tanto che di sé ne ha lasciate un numero davvero esiguo, quanto quello delle sue rarissime interviste. A pensarci, è bizzarro dire che “se n’è andato”, quando la sua presenza pubblica era già tanto simile a quella di uno spettro: al posto del suo volto preferiva mostrare il muso di un gatto, come quello arancione del suo Guillaume-en-Egypt, che aveva fatto diventare anche un Avatar (amava i gatti perché “non sono mai dalla parte del potere”). Marker dissimulava e moltiplicava la propria identità, forse anche perché alla sua attività multiforme non ne bastava una sola: scrittore, critico, aviatore, grafico, attivista politico, fotografo, cineasta, Marker, come il “fantasma” de La Jetée, era soprattutto un viaggiatore, un artista dell’attraversamento, dei passaggi e degli scarti tra le immagini, tra i media, tra luoghi e tra tempi. Muoversi da un punto all’altro del pianeta, dalla Siberia a Israele, dal Giappone alla Guinea Bissau, connettere e contrapporre luoghi e immagini, era una pratica di vita e una tecnica di montaggio, perché, come recita la citazione di Racine in epigrafe a Sans Soleil (1983), “la lontananza dei luoghi rimedia all’eccessiva prossimità dei tempi”. Il cinema è una macchina del tempo, capace di attraversare e rimontare la Storia, ma per farlo deve sottrarsi alla congestione dell’attualità, a un tempo che si fa sempre più presente e disponibile per scivolare via più rapidamente dalla memoria. Come l’altro uomo del futuro immaginato in Sans Soleil, esemplare di un’umanità che ricorda tutto e che, invece della memoria, “ha perduto l’oblio”, Marker osservava con curiosità e compassione le “infermità del Tempo” causate da una memoria imperfetta: il suo lavoro è sempre stato una sfida all’ingiustizia prodotta da questa imperfezione, consapevole della sua inesorabilità, come del fatto che, d’altra parte, “una memoria totale è una memoria anestetizzata”.
Il cinema, quello del Novecento (che poi è il cinema), con l’accumularsi dei necrologi diventa sempre più esplicitamente, anagraficamente, la terra di fantasmi che, del resto, è sempre stato. Anche questo, Marker lo sapeva bene: pensava La Jetée come un remake di un altro film avvolto nella spirale del tempo, Vertigo di Hitchcock (La donna che visse due volte, 1958). Il film è citato apertamente nella scena in cui, di fronte alla mappa temporale formata dagli anelli concentrici del tronco di una sequoia, l’uomo del futuro, come faceva Kim Novak, indica il punto da cui proviene e che si trova, ovviamente, al di là della corteccia. Anche le immagini del cinema (di un cinema che abbia coscienza di sé, che rifiuti la logica taylorista della “fabbrica dei sogni”, per farsi macchina del tempo), arrivano sempre da un altrove, da un’extraterritorialità temporale: da lì traggono lo slancio per tagliare nel tempo, per arrivare a folgorare il presente. La grande occasione che il cinema continua ad offrirci non è tanto la forza con cui rappresenta e trasfigura la realtà, ma la potenza con cui è capace di scollarci dall’attualità, la grazia preziosa dell’anacronismo. Marker è ancora qui per ricordarcelo, da qualche parte, oltre gli anelli della sequoia.