Messi(a)
Se lo chiedeste, e potesse rispondervi onestamente, qualsiasi allenatore e giocatore di calcio vi direbbe che l’unico modo per contenere Lionel Messi è marcarlo a uomo. Più precisamente fargli la gabbia, con due, meglio tre, marcatori. Non per annullarlo, renderlo inoffensivo, ma solo per tenerlo fermo per un po’. Si può provare a contenere il Barcellona, come squadra, attaccando: ci ha provato la Juve nella finale di Champions League del 6 giugno 2015, almeno per qualche intervallo di gioco. E così si può anche vincere, ma a memoria d’uomo ci è riuscito soltanto il Real Madrid di Ancelotti in qualche clasico (la sfida tra le due massime squadre spagnole), e il Bayern Monaco nelle semifinali di Champions League del 2013.
Nella maggior parte dei casi si può vincere con il Barcellona soltanto con una difesa strenua e asfissiante: il Milan (20 febbraio 2013), l’Inter (28 aprile 2010), il Chelsea (18 aprile 2012). E non è sufficiente cercare di rendere inoffensivi gli altri giocatori, per impedire l’innesco inesorabile del tiki-taka (ma noi preferiamo la versione originale, onomatopeica, del tiqui-taca, coniata da Andrés Montes, nel 2006), l’invenzione sublime di Joseph Pep Guardiola, la snervante manovra a ragnatela, fatta di passaggi brevi e infiniti tra i giocatori in campo, per stordire la manovra degli avversari e indurli all’errore, evoluzione narcisista e bassa, gracile, del calcio totale di Jack Reynolds, Rinus Michels e Johan Cruijff: anche privo di punti d’appoggio, di sponde, Messi può sempre andare in porta, e in goal, da solo. Perché Messi non è un attaccante (stato potenziale e tensivo di chi vuole fare goal), ma un finalizzatore (stato risolto e attivo di chi il goal lo fa sempre).
Per contenere Messi bisogna marcarlo a uomo. Il che, per un calciatore arcigno, rigoroso, ferreo e disciplinato, potrebbe non essere un problema, anzi, un’esaltazione del proprio essere. Ma per un creativo, un fantasista, un genio sregolato, ridursi alla marcatura a uomo è un sacrificio, uno snaturamento, anche doloroso, del proprio modo di giocare. Eppure è quello che Alex de la Iglesia sceglie di fare: il più istrionico creatore di immagini del cinema spagnolo, il domatore circense, l’affabulatore rumoroso, il regista dei suoni, dei colori, della deformazione e dell’iperbole, per contenere Lionel Messi, per tenerlo un po’ fermo, almeno il tempo necessario a metterlo sullo schermo e a farne un film, sacrifica la sua natura, si annulla, e lo marca a uomo. Da solo.
Sceglie due soluzioni estreme, che sono insieme una negazione e un ribaltamento speculare del suo stile. Congela il movimento nella mise en scène statica di una cena celebrativa, in un elegante ristorante: seduti ai tavoli i suoi amici di infanzia, le maestre delle elementari, i compagni del Barça (Iniesta, Piquet, Mascherano e l’ex portiere Pinto), i giornalisti sportivi, l’allenatore degli esordi, il CT della nazionale, il sublime César Luis El flaco Menotti. A un tavolo singolo Jorge Valdano e Johan Cruijff, inarrivabili, alieni. Su uno schermo passano immagini di repertorio. Tutti parlano di Messi, lo evocano, lo ricordano, lo elogiano, lo assaporano con le parole, lo bevono e lo mangiano, senza muoversi, senza alzarsi mai. Anche il cameriere che passa tra i tavoli. Tutti nello stesso modo, e il montaggio tra le inquadrature strette sui volti, ci illude che accada anche tutto nello stesso tempo, in compresenza.
Ma Messi - Storia di un campione non è un documentario: è un film di finzione, di invenzione nascosta, di marcatura a uomo della macchina da presa. Che non abbandona mai i corpi fermi, che non li fa, e non li lascia, mai muovere. E poi annichilisce la sua capacità di creare personaggi e situazioni inedite e imprevedibili, quasi impensabili, riducendola alla modalità del re-enactment. Le scene della vita di Messi non sono rappresentate, ma ri-messe in scena, prigioniere di un inseguimento disperato della mimesi. Quattro attori soltanto per rimettere in scena l’infanzia e l’adolescenza di Messi, prima che le immagini del suo corpo disponibili nei filmati di repertorio possano essere sufficientemente prossime a quelle dell’oggi (l’attimo esatto è quello di una ripresa nello spogliatoio nell’anno dell’esordio in prima squadra nel Barcellona di Ronaldinho), e decine d’altri per rappresentare in maniera credibile amici, allenatori, agenti. I genitori. E naturalmente la nonna, l’abuela del Messi.
De la Iglesia si concede pochissimi vezzi: il più curioso è il campo e controcampo in bagno nella casa che Messi e il padre condividono al loro primo viaggio a Barcellona, nel doloroso passaggio tra l’Argentina e la Spagna. Messi si sta asciugando e pettinando i capelli davanti allo specchio, il padre lo riprende, e si riflette nello stesso specchio, cosicché possiamo vedere non soltanto il campo (finto) dell’azione di filmare che apre al controcampo (vero) del piccolo Leo, ma anche la ricostruzione di altri istanti dell’immagine del padre riflesso nello specchio, con i due corpi che sembrano raddoppiarsi all’infinito.
Il film, che non è un documentario, si rivela allora come un atto d’amore, in cui il regista sembra volersi sovrapporre (ma non sostituire) alla figura del padre di Messi, il suo più fervente sostenitore (ma non il primo: dopo l’abuela, s’intende) e il suo primo iconografo, militante emozionale del video amatoriale, che lo filma incessantemente in tutte le sue partite da bambino. È a questa passione per la messa in scena del figlio, quasi a volerne già congelare e trattenere le vestigia per il futuro trionfo, che dobbiamo tutte le immagini di repertorio, la sua prima partita con i Newell’s Old Boys di Rosario (altra scena di montaggio alternato tra ricostruzione e testimonianza), il suo esordio con il numero 10, i suoi primi goal. E la certezza che Messi è sempre stato così, semplicemente che è sempre stato Messi. De la Iglesia, come un padre putativo e cinematografico, ricompone l’azione creatrice, per immagini, del padre naturale, che ha consegnato per primo l’immagine di Messi alla memoria.
E in questo senso, in questo totalizzare il corpo del calciatore nella rappresentazione, costituisce il doppio speculare del Zidane, a 21st Century Portrait di Douglas Gordon e Philippe Parreno: dove i due video-artisti riducevano l’azione di una partita (Real Madrid-Villareal, 23 aprile 2005) alle sole riprese del corpo di Zidane, costruendo un’immagine alternativa, ma reale, di ciò che accadeva (la partita nel suo svolgimento, che rimane fuori campo), lo spagnolo riproduce un’altra immagine reale, ma alternativa, che entra in dialogo con quella originale. Ma i paragoni filmici hanno poco senso, almeno quanto quello tra Messi e Maradona, che percorre il film, e la storia, come una hantise: se Menotti eleva di un’ottava evocando El Rey, Pelé, serve la saggezza di Cruijff per ricordare che si tratta di due epoche del calcio diverse, di siderale distanza.
Il film, che non è un documentario, non è nemmeno un’agiografia, com’è stato un po’ frettolosamente rubricato, perché non si tratta di ripercorrere gli episodi simbolici della vita di un Santo per illustrarne la vicinanza con Dio attraverso il valore allegorico delle sue azioni. Piuttosto è una teogonia, dove Messi è una divinità del calcio, il cui stato è dato in termini dogmatici. A De la Iglesia interessa raccontare come è nata e come si è generata la divinità, e su questo piano riesce a dire cose non banali. Fuori dall’aneddotica sulla vita di quartiere, sulle amicizie (ma l’amore pudico e nascosto che traspare dagli occhi dell’amica di sempre, Cintia, che si definisce sorella di latte, ma che freme di una passione altrettanto totalizzante di quella del padre, della nonna e del regista), sui sacrifici e sul riscatto sociale, sono due le principali forze generatrici della divinità ad emergere sotto traccia. Entrambe innaturali.
La prima è il trattamento farmacologico che gli ha consentito di guarire dalla deficienza patologica dell’ormone della crescita: senza le quotidiane iniezioni auto-inflitte, Leo non sarebbe mai cresciuto, e non sarebbe mai diventato Messi. Divinità non naturale, frutto di una generazione extra-biologica: la madre ha generato Leo, ma è la medicina che ha creato Messi, in una immacolata concezione contemporanea. Come Captain America. La seconda è l’Argentina, che predispone per lui la città di Rosario, gli consente di essere il bambino che gioca a calcio per strada ma poi, complice la crisi economica e sociale che si abbatte sul sistema sanitario, non può permettersi di pagargli i costi delle cure, e dunque è costretto a venderlo alla società del Barcellona. Che lo trasforma in Messi attraverso il denaro.
Potrebbe esistere un Messi in Corea? No, e neanche in Germania… Messi è l’argentino che vorremmo essere, Diego è l’argentino che siamo… Leo è più argentino del dulce de leche. In realtà Messi è il figlio di una madre nazionale proletaria che deve darlo in adozione a una ricca borghese spagnola. Se non ci si commuove davanti al racconto epico di formazione, si può sbirciare, dietro, la genesi di un dio del calcio, figlio di una siringa monodose e di un contratto. Il film, che non è un documentario, è insieme una teodicea, agostiniana. Di fronte al Bene assoluto costituito da Messi, e rappresentato dalle testimonianze dei commensali e dall’extra-ordinarietà delle immagini del suo gioco, si predispone il Male: la malattia, i cattivi ragazzi che gli rubano la bicicletta, il viso di Mourinho e il suo Chelsea spietato e falloso (quarti di finale di Champions 2006) contrapposto all’abbraccio di Rijkard, i tifosi dell’Argentina che lo fischiano per le prestazioni opache in nazionale. Ma tutto ciò si configura solo come un’interna limitazione del Messi, non come una contrapposizione.
E quindi il film, che non è un documentario, è un euangelion, una buona novella. Quella del Messi(a) venuto da lontano che può insegnare alla Spagna, e al mondo, il gioco del calcio. Intorno a lui gli apostoli buoni: il padre, il primo allenatore (che ascolta l’abuela) , l’endocrinologo (che sta aspettando la dedica di un goal), il tecnico delle giovanili del Barça (che lo riconosce come campione), Rijkard (oscuro nella sua storia di allenatore fuori di lui), Ronaldinho (il fratello maggiore), Xavi e Iniesta (i compagni, le scoppole sulla nuca durante le interviste, la reificazione del bisogno di Messi di giocare con gli amici, per strada, sempre, ovunque, comunque). E soprattutto Guardiola, il più grande allenatore del mondo che incontra il più grande giocatore del mondo. L’uomo che giocava sull’erba del Barcellona quando Messi giocava alla Playstation con la maglia del Barcellona, e la spegneva, se perdeva.
Guardiola compie l’ultimo atto generativo, il più importante, ancora una volta innaturale. Creando il più meraviglioso ossimoro del calcio moderno: il concetto di falso nueve. Il falso nove, l’ibrido perfetto, l’evoluzione del trequartista e della media punta.
E se i commensali concordano sul fatto che il miracolo si compì nell’epica Real Madrid-Barcellona 2-6, del 2 maggio 2009, da cui scaturì la crisi psicologica delle Merengues (e di Mourinho) e la consacrazione del Barça a squadra più forte del mondo, la partita che ha rivelato Messi al mondo è stata un’altra, di qualche anno prima. Il suo esordio internazionale è del 2005, a 17 anni, durante un’amichevole del Troofeo Gamper tra Barcellona e Juventus. Dieci anni più tardi Messi alza la sua quarta Champions Legaue all’Olympiastodion di Berlino, ancora contro la Juventus. Negli ultimi minuti Xavi entra da capitano per Iniesta. Sarà la sua ultima partita da blaugrana, e la sua quarta Champions.
È affascinante pensare che proprio con la Juventus, nella notte della quinta Champions del Barça, la prima dell’epoca post-Guardiola, proprio con la squadra che ha salutato l’inizio di Messi come giocatore universalmente conosciuto, si sia celebrata anche la fine di Xavi. Lui che è ricordato dai commensali come l’inicio del gioco del Barcellona, e in qualche modo l’inicio delle più straordinarie azioni di Messi. Il giocatore che più di ogni altro è sintonizzato con Messi. Il suo alter ego, il suo eterno secondo.
Chissà se l’unico altro modo possibile per contenere Messi non sia proprio togliergli Xavi? Lo scopriremo fra poco. E forse servirà un altro film.
P.S.: si dice, giustamente, che il film può essere apprezzato appieno solo dai fanatici del Messi. È vero, ma io non riesco a immaginare qualcuno che non sia fanatico del Messi.