Michael Ignatieff. Storia di una caduta
Questa è la storia di una caduta. È la vita di Michael Ignatieff, prima intellettuale dalla fama internazionale, poi candidato primo ministro alla guida del suo paese, il Canada. Nel 2011 porterà il suo partito, i liberali, al peggior risultato della loro storia. Arriverà terzo in una competizione elettorale che avrebbe dovuto vincere.
La sua parabola è raccontata in un recente libro autobiografico, Fire and Ashes: Success and Failure in Politics (Harvard University Press, 2013). Storico di formazione, a partire dagli anni Ottanta era stato, nell'ordine, sceneggiatore, saggista, editorialista, memorialista, intervistatore alla BBC, uomo copertina di GQ, biografo del filosofo Isaiah Berlin, autore di romanzi, corrispondente di guerra, esperto di etica e affari internazionali. Nel 2000 Harvard gli offre la cattedra in Diritti umani. Quando diventa un leader politico Foreign Policy lo inserisce nella classifica dei Top Global Thinkers, per dimostrare che «non tutti gli accademici sono irrilevanti». Tutto finisce con la disastrosa sconfitta del 2011. «Ho sacrificato la mia posizione accademica per entrare in politica. Ora ho perso anche la mia autorità intellettuale», scrive oggi, a 67 anni. Ma come ha fatto ad arrivare a questo punto?
Bisogna tornare a una sera di ottobre del 2004. Tre uomini in abito scuro vanno a trovare Ignatieff a Cambridge, Massachusets. Sono esponenti dei vertici del Partito liberale. «Ti andrebbe di tornare in Canada e di candidarti con noi? Poi potrai diventare primo ministro», gli dicono. All'epoca i liberali erano in crisi, gli uomini in nero vedevano in Ignatieff il papa straniero in grado di salvarli.
«La proposta mi sembrò subito insensata, pensai di rifiutare», racconta Ignatieff. Invece accettò. A fargli compiere quel passo fu la hybris, spiega, la presunzione che porta alla rovina gli eroi della tragedia greca. «Fu sicuramente un momento di cecità, e la cecità è una condizione necessaria per molte delle conquiste umane. Voglio dire, chi mi credevo di essere?». La moglie gli disse: «Che cosa abbiamo da perdere?». Lui oggi scrive: «Non avevamo idea di ciò che ci aspettava».
Nel 2006 quando arriva nel suo collegio di Etobicoke, un sobborgo di Toronto, viene accolto da centinaia di manifestanti: molti cartelli “Iggy go home”, c'è chi indossa la maschera di George W. Bush e la tenuta arancione dei detenuti di Guantanamo. Urlano: «Vergogna! Vergogna! Vergogna!». Lo accusavano di aver sostenuto la guerra in Iraq e di giustificare le torture. Avrebbe voluto spiegare loro che le sue parole, estrapolate dal contesto, erano state fraintese.
«Ho dovuto imparare che in politica le spiegazioni arrivano sempre troppo tardi. La regola è: non spiegare mai, non lamentarti mai». Quando poi dovrà affrontare la campagna per il suo seggio da parlamentare sembra a tutti un alieno. Non guarda le persone negli occhi, appare troppo freddo. Viene comunque eletto e diventa candidato in pectore alla leadership del partito. Capisce presto che in politica «Chiamare fatto un fatto è l'equivalente di tirare una spoletta da una bomba a mano». Si fa più attento, incomincia a esprimersi in modo più convenzionale. Diventa dipendente dalle opinioni altrui. Non basterà a togliergli di dosso l'etichetta di intellettuale distaccato.
Cinque anni dopo, alle elezioni del 2011 Ignatieff non viene neanche riconfermato come parlamentare: «Una umiliazione senza precedenti». Il giorno dopo lascia la politica, abbandona la residenza del capo dell'opposizione a Ottawa (un palazzo di 34 stanze con cuochi e servitù), il jet privato, il servizio di sicurezza, lo staff di cento persone, l'autista, l'auto blu; perde persino il diritto alla pensione. La disfatta non è stata solo colpa di una politica troppo antagonistica e di una stampa sleale – di cui pure si lamenta. «Io stesso ho fatto un sacco di errori», riconosce. «Gli elettori puniscono i politici che hanno l'aria di giocare o che cambiano il loro atteggiamento. Io sembravo uno di quelli.»
Si potrebbe inserire Ignatieff in una lunga tradizione di intellettuali prestati alla politica e da questa restituiti alla vita accademica senza troppi complimenti. Cicerone, Machiavelli, Edmund Burke, John Stuart Mill, Max Weber. Imprescindibili dal punto di vista teorico, ebbero tutti esperienze disastrose nella lotta politica del loro tempo. «Il candore, il rigore, la volontà di seguire un pensiero fino alle sue estreme conseguenze, la ricerca dell'originalità – sono tutte virtù ai fini teoretici che diventano debolezze nella politica attiva», scrive Ignatieff. Nella politica sono necessarie altre qualità: «adattabilità, scaltrezza, capacità di riconoscere la “fortuna” così come la intendeva Machiavelli, una rapida intuizione dei cambiamenti».
Eppure, alla fine, nonostante sia la storia di un fallimento, Fire and Ashes è un elogio della politica e dei politici, rivolto in particolare a coloro che pensano di impegnarsi: «Io voglio che sappiano com'è avere successo ma anche com'è fallire, in modo da poter imparare a non aver paura di nessuno dei due», scrive. «Potreste trarre delle conclusioni sbagliate dalla mia storia. Potreste pensare che la politica è solo un gioco sporco e che è meglio tenersene lontani», leggiamo nelle ultime pagine.
«La politica invece è una nobile lotta che richiede più autocontrollo, capacità di giudizio e fermezza interiore di quanta voi abbiate mai immaginato di possedere.» Poco cambia se alla fine rimane solo cenere: «La cenere è un residuo. Umile, ma ha la sua utilità. I miei genitori spalavano le ceneri dalle braci sulle radici delle rose che adornano la facciata orientale di casa nostra. Le ceneri della mia esperienza spero possano essere utili a qualche altro giardino».
Una prima versione di questo articolo è uscita su Pagina 99