No Naomi
Poiché partecipo spesso a incontri dedicati alla crisi economica, in cui di solito dipingo uno scenario assai cupo, capita che alla fine dello speech, qualcuno si avvicini e mi dica: «senta, ma io comunque spero ancora». È molto diffuso il desiderio di sperare, anche se non si sa esattamente in che cosa. Oggi i lavoratori del sapere, oltre a pensare che le attività che svolgono abbiano un senso, vogliono cambiare il mondo, e che riescano, nel loro piccolo, a migliorare il mondo: ecco, mi sento di dire che l’ultimo libro di Naomi Klein fa per loro.
Il titolo italiano, diverso da quello originale – This Changes Everything. Capitalism vs The Climate – comunica chiaramente il vero messaggio di questo libro: anche se va tutto malissimo, noi possiamo, anzi dobbiamo continuare a sperare; saremo noi a salvarci, se solo ci crediamo appassionatamente. Seguendo uno schema retorico classico, Naomi Klein inizia illustrando i tratti di un mondo destinato all’apocalisse. Nella prima parte ci spiega, essenzialmente, come la possibilità di ridurre l’impatto di una crisi climatica ancora in corso e di preservare la sopravvivenza della civiltà, così come noi la conosciamo, sia profondamente incompatibile con il “capitalismo deregolamentato”, ossia il governo più o meno diretto da parte delle grandi corporation sulla società. Il punto è che le soluzioni tecnologiche e sociali ci sono, ma gli interessi consolidati dell’attuale neofeudalesimo neoliberal impediscono che esse vengano adottate:
«Siamo bloccati perché le azioni che garantirebbero ottime chances di evitare la catastrofe – e di cui beneficerebbe la stragrande maggioranza delle persone – rappresentano una minaccia estrema per quell’élite che tiene le redini della nostra economia, del nostro sistema politico, e di molti dei nostri media» (p. 32).
Le varie buone intenzioni annunciate dalle grandi corporation e la retorica confortante delle organizzazioni ambientali più mainstream, che collaborano e si fanno finanziare da queste corporation, non avranno nessun impatto sulla catastrofe immanente, anzi serviranno solo a rafforzare lo status quo generando, semmai, una falsa sicurezza basata sulla convinzione che tutto può rimanere più o meno lo stesso. Inoltre, la politica di austerità e la privatizzazione delle risorse pubbliche che ancora rimangono, tendono ad aggravare il problema perché queste politiche riducono la forza degli interessi diversi da quelli corporate. Invece, l’unico modo di salvarci dagli effetti della crisi climatica, o almeno di evitare una vera e propria apocalisse, consiste in una rivoluzione non solo energetica ma soprattutto sociale, dove il capitalismo verrà sostituito da un sistema più razionale, in grado di programmare razionalmente le nostri sorti comuni, e allo stesso tempo più equo perché in grado di supportare la partecipazione democratica di tutti e, di conseguenza, la rappresentazione della vasta gamma di interessi presenti nella nostra società globale.
Dopo aver delineato una situazione disperata, Naomi Klein dedica le ultime duecento pagine del suo lunghissimo libro (settecentotrenta pagine in totale!) alla speranza. Ci porta con sé in un tour fra i vari movimenti, dalla Grecia agli Indigeni del Canada, che riescono a organizzarsi effettivamente per resistere agli interessi corporate e a realizzare, nel loro piccolo, modelli economici, ecologici e sociali alternativi. La disperazione e la realtà tangibile della crisi ambientale dovrebbero essere un motivo di speranza, ci dice la Klein, perché questa gravità potrebbe funzionare da catalizzatore per un nuovo movimento di massa, in grado di cambiare non solo la politica energetica ma anche tutto ciò che non gradiamo. Insomma, per salvarci dobbiamo fare un salto di civiltà, e la crisi climatica potrebbe essere «la forza, la grande spinta, in grado di mettere insieme tutti questi movimenti ancora in vita (come in un fiume in piena alimentato da innumerevoli torrenti, che accoglie questa forza collettiva per giungere in fino al mare)» (p. 608).
È singolare come delle settecentotrenta pagine del libro, Naomi Klein dedichi solo le ultime venticinque alla conclusione, per spiegarci come l'alleanza politically correct di cui parla ci porterà in un «mondo basato sulla rigenerazione e sul rinnovamento anziché sul dominino e sullo sfruttamento» (p. 560). Fornisce solo tre ragioni per crederci, tutte molto poco convincenti:
- 1. È successo prima! (Dopotutto la schiavitù è stata abolita negli Stati Uniti; tralasciando però il fatto che dietro ci fossero dei forti interessi anche industriali…)
- 2. Ci sono i social network!
- 3. Bisogna crederci!
«Gran parte del lavoro da compiere consiste proprio nel tenere dei dibattiti durante i quali sia possibile raccontare nuove storie che sostituiscano quelle che ci hanno condotti al disastro. Perché se vogliamo avere una qualche speranza di riuscire a fare il salto di civiltà che questo fatidico decennio ci richiede, dovremo iniziare di nuovo a credere che l’umanità non è irrimediabilmente egoista e avida, secondo quell’immagine che ci viene riproposta di continuo da una serie di fonti che vanno dai reality show all’economia neoclassica» (p.611).
Inizialmente trovavo singolarmente irritante che Naomi Klein, in tutte le settecentotrenta pagine del suo libro, non dedicasse la minima attenzione a come potrebbe effettivamente avvenire un cambiamento globale, che poi sarebbe l’unica questione veramente interessante: mi sembra abbastanza scontato che vogliamo tutti un mondo migliore! Esiste una ricca letteratura in merito e in grado di dimostrare che generalmente i cambiamenti sociali non avvengono perché la gente ci crede, ma perché ci sono forti alleanze di interessi che di solito comprendono anche quelli di élite sociali. Riflettendoci meglio, però, mi sono reso conto che lo scopo del libro non è quello di fornire proposte per il cambiamento. Non è un libro analitico, è un libro liturgico; non funziona per argomentazioni, ma per ripetizioni. Nella prima parte, infatti, Naomi Klein ci ripete in varie salse come il capitalismo neo-liberale ci porti alla rovina, dipingendolo in modo manicheo come un blocco del male, totalitario, in stile “Matrix”, senza nessuna debolezza o possibile dialettica. Invece nell’ultima parte ci ripete, per duecento pagine, che non siamo soli, che succedono tante cose belle e che dobbiamo avere speranza, senza dedicare una minima analisi a come tutti questi esempi virtuosi potrebbero formare un blocco sociale capace di cambiare realmente le cose.
Concludendo, è un libro noioso, in più è un libro stupido e consumista, che invece di un’analisi seria ci fornisce una speranza da consumare, una sorta di feel good book con un tocco rilevante di buonismo in stile New Age: è scritto per chi, invece di analizzare, vuole trovare motivi per continuare a sperare. Per tutti questi motivi, troverà sicuramente un ampio mercato.