Nostalgia
Nel Quarticciolo, ex-borgata romana, ex-estrema periferia, ex tutto, mancano anche le latterie, quelle con le diacce luci al neon. Però in quel luogo disperato vive una specie di mondo del futuro, civile sul serio. No, non si tratta qui della vecchia mitologia delle borgate: il mondo del futuro civile è piccolo e sta rinchiuso nella scuola “Benedetto Croce”, dove c’è dentro una strana Preside bella e allampanata, e forse un po’ malata, giovane e magra, molto ma molto pallida. È lei che ha chiesto che venisse un ebreo per raccontare ai suoi bambini le antiche tragedie “micenee” della prima metà del secolo scorso. Ed eccomi qua, al Quarticciolo, ancora una volta a fare da capra, “una capra dal viso semita…” perché quei bambini sentano “querelarsi ogni altro male, /ogni altra vita”… (Umberto Saba, “La capra”. Da “Il Canzoniere” ed. Einaudi, 1957).
Nelle campagne d’una volta, quando bussava il povero, e bussava in un certo modo convenuto e nell’ora prestabilita, la contadina avvolgeva il pane secco nel grembiule, non lo faceva vedere a nessuno, apriva la porta di casa e consegnava il pane con tutt’e due le mani a chi chiedeva. Quando tornava sembrava che avesse ricevuto invece che dato. Adesso, il povero che chiede pane di cognizione e dona in cambio rossore sono qualche volta io, il cantastorie.
I fiori portati dai bambini, e strappati da chissà quale sozza prataglia, che appassiscono nelle latte di conserva e nei barattoli di marmellata sui davanzali delle finestre, polverose ma non tantissimo, sembrano caricature della Preside, bella e macilenta. Che non ci bada quando entriamo perché sta confortando una bambina in lacrime seduta al tavolino della bidella nel corridoio: “Non sei contenta di esser tornata con noi a scuola? Beh, ti sei fatte le vacanze di Natale un po’ più lunghe... tutto qui, devi essere allegra adesso. Non piangere più così”.
La Preside è Don Chisciotte vestito da donna, il Cavaliere dal triste sembiante, sembra una gappista del ’44, partigiana di città, vecchia ragazza con la faccia molto, molto stanca. Nulla vuol mostrare sotto una coltre di scetticismo, di minimalismo, quando mi descrive la storia del quartiere e le biografie dei suoi bambini, di vite appena iniziate ma non del tutto promettenti, salvo una timida speranza: uno, uno almeno si salverà, e potrebbe bastare. Dunque i fiori che appassiscono nei barattoli non sono solo una metafora dell’Allampanata, ma anche degli steli grami delle anime dei suoi bambini.
Non mi guarda sempre in faccia mentre parla perché attende l’evolversi delle mie emozioni e solo a volte, per fortuna, mi guarda negli occhi. È una forma di punteggiatura speciale, nella quale lo sguardo è il punto e a capo del racconto frettoloso e, per pudore, militaresco: “...qui ci sono i figli dei figli di quelli del 1940, dello sventramento dei Fori Imperiali, e sono insensibili... a tutto” (sguardo in alto verso il cielo) “...prima che costruissero i nuovi condomini, quelli che adesso sono occupati dagli abusivi, c’era là (e fa un gesto per indicare un posto immaginario oltre un confine invisibile, ma vicino) una bidonville di immigrati irregolari”. (Qui mi guarda negli occhi, punto e a capo.)
“I marocchini però hanno mandato i bimbi a scuola. E quelli di qua si sono messi a perseguitarli, naturalmente. Mica tanto, gli facevano qualche dispetto, ma loro, i bambini di fuori, sembravano più miti e più forti, ma non so di che forza, che forza potrà essere... non hanno nulla di speciale... Ma in qualche modo alla fine sono arrivati a un accordo, e ora convivono. Un bel sospiro di sollievo per noi insegnanti. Hanno vinto forse gli stranieri, e neppure sappiamo come. E per fortuna, una grande fortuna, non lo sanno neppure loro…”
E qui mi guarda ancora una volta negli occhi, essendo ormai le mie emozioni giunte al punto di cottura giusto da poter essere lette con lo sguardo. Punto.
“Eccoli, vengono avanti, una confusa e compatta schiera...”, vengono avanti, sono le policrome classi dell’Istituto “Benedetto Croce”, classe per classe, guidate dalle professoresse, con zittii, strattoncini, arresti improvvisi per farli entrare nel teatrino, ordinatini, non al passo ma senza gazzarra: “Qui, qui la I F”, “zitta, sschtt, la II L”, e loro sono ordinati, sono disciplinati, perché sono titubanti e incuriositi dall’ebreo che parlerà, anche la III Z.
Hanno tutti i colori, dal biondo macilento di Bucarest al terreo un po’ a chiazze del Magreb, al nero ebano delle impenetrabili foreste. Bimbi di bronzo, che si dice essere così scuri per ripararsi dal sole. Dal sole? Che da loro, all’Equatore, non c’è mai, nelle foreste pluviali impenetrabili, verdi-nere, sotto cieli grigi-neri pieni di pioggia… Bambini usciti all’improvviso dalle Colline della Nebbia, dove hanno lasciato soli i poveri gorilla di montagna.
Ma come gli è venuto in mente di chiamare Benedetto Croce quella scuola, e che cosa diranno mai ai bambini del Ghana, di Bucarest, del Marocco, a proposito dello storico storicista filosofo idealista senza attributi, la bellezza non ha attributi, dissepolto orfano e bambino dalle macerie del terremoto di Casamicciola? Lui ha con loro un solo punto in comune. Uno solo ma importantissimo: la nascita doppia, la doppia anagrafia. È uscito la prima volta dall’alveo materno e poi, una seconda volta, è stato partorito orfano dalle macerie di Ischia con la stessa faccia ingrugnata e sanguinosa di chi sta nascendo malvolentieri. Loro forse sono stati tirati fuori dalle foreste, dai deserti, con le tenaglie di miseria del forcipe della Storia, non già magistra vitae ma sanguinaria ostetrica pazza.
Le prof sembrano più normali della mitica e inquietante Preside, tutte in tailleur, ma quando parlano, anche loro dicono cose spaventose e usano la punteggiatura minacciosa dello sguardo dritto negli occhi: “Ne abbiamo due, Rom, mandati dall’Istituto, che non hanno mai conosciuto il papà e la mamma”.
Queste prof non sono eroine, ma persone con famiglia, che svolgono con dignità il proprio lavoro nel posto assegnato fino a quando non saranno trasferite in una scuola meno di frontiera. Forse, ma l’illusione dell’avanguardia che sorveglia insonne ad armi spianate, che sorveglia al confine il tempo futuro per renderlo meno infame, quell’illusione non la si deve perdere, non deve diventare un sogno morto.
“Calcio, calcio, quando non giocano a calcio, si occupano di calcio, parlano di calcio. Le bambine no. Loro sperano un giorno di fare le mossette in televisione.” E la Preside la fa, una mossetta con l’anca, la fa sul serio, velina per un attimo, ma intanto mi guarda negli occhi. “Per questo lei deve raccontare”. Raccontare che cosa, e a chi? Raccontare ai bambini di me, o raccontare dei bambini agli altri? “…perché il dolore è eterno,/ ha una voce e non varia”.
Comincio con una domanda – per tentar di spiegare in una sola frase il nucleo profondo dell’ebraismo – e chiedo se conoscono il significato della parola “nostalgia”. Non lo sanno. E quando poi glielo spiego lo capiscono sì subito come parola, ma se insisto per sapere se i loro genitori o i loro nonni abbiano mai parlato del rimpianto di qualcosa, di qualcuno, di un loro tempo lontano, mi guardano zitti come topi, con le braccine conserte.
E allora una bambina si alza, solo una dal fondo: “Mi chiamo Loraine... il nonno... prima di morire... mi parlava sempre du village...”. Dalla testina aguzza, dalla cuspide del cranio scendono treccette nere a centinaia, gli occhi grandi e da donna adulta sono dolci, timidi, titubanti e teneri. È nera che più nera non si può, ma esprime infanzia femminile e incertezza e timore. È nata a Roma, ma il luogo di nascita dei suoi era un villaggio sulle rive del terrificante fiume Congo. Il fiume buio che sgorga immenso dal Nulla.
La nostalgia al Quarticciolo è il ricordo di un sentimento incerto, trasmesso a una bambina incerta dal tam-tam di un nonno nero che è riuscito ancora a parlarle del mondo felice della sua infanzia laggiù, nel grembo delle sconfinate foreste infette di vita. Punto e basta.
Dello stesso autore:
Aldo Zargani, In bilico.
Aldo Zargani, Profumo di lago.
ebook:
Aldo Zargani, Profumo di lago.