La storia di un partigiano e di chi gli sparò / Quando la nonna ha ucciso il nonno
«Non hanno perso quello che avevano trovato allora, e forse non lo perderanno per molto tempo. Sono vivi, attivi, tirano su muri diroccati, si sposano, fanno all’amore, cercano tutti i modi possibili, senza pigrizia e senza lamenti, di guadagnare la vita, di migliorarla e, con una incredibile rapidità, si sono dimenticati della guerra, della paura, del sangue, della servitù, del moralismo, della falsa santità, degli stati e delle leggi, e di tutte le menzogne e le atrocità degli anni passati».
Così Carlo Levi, ne L’orologio (1950), descrive l’esplosione di vita e attivismo febbrile seguito alla fine della guerra, che la liberazione aveva inoculato nel tessuto sociale della ricostruzione, nel tentativo di cancellare o esorcizzare le ferite inferte alle vite di uomini e donne.
Di questo essere “ferocemente vivi” e del suo legame con la Resistenza scrive Rosa Mordenti nel suo Al centro di una città antichissima. La storia indicibile di un partigiano e di chi lo uccise, riportando alla luce le tracce di una storia di partigiani romani comunisti: una vicenda dai tratti generazionali in cui la lotta di Liberazione innesca progetti di emancipazione esistenziale e rottura degli schemi, delle convenzioni e delle rigidità con cui vent’anni di fascismo avevano compartimentato e imbrigliato le vite di uomini e donne. Si tratta di una storia che appartiene all'autrice anche per un aspetto “privato”, perché è quella dei suoi nonni, Renato e Maria Luisa; e che come tutte le storie di famiglia – in particolare in quelle tragiche – ha avuto un andamento carsico e ha necessitato di un particolare lavoro “archeologico” di ricostruzione.
Renato ha avuto tra i compagni di scuola Carlo Lizzani e Carla Capponi, e poi, con loro e molti altri che affollano silenziosamente le pagine del libro, è stato partigiano. Responsabile militare della quarta zona del Cln nella capitale, è poi stato giornalista de l’Unità, l’“inventore” nel dopoguerra della pagina sportiva del quotidiano dei lavoratori, con tutto quello che significa riscrivere le regole della narrazione sportiva “proletaria” – calcio, ciclismo, atletica – in chiave di democrazia progressiva e di lotta per il socialismo. Maria Luisa, di origine borghese ed ebraica, è stata la sua compagna, conosciuta in una sezione del Pci. Insieme hanno avuto una storia di impegno, clandestinità e nascondimento, e di amore nel più ampio scenario della Roma liberata. Dopo anni di bellezza e due figli la loro relazione è finita, lasciando i dettagli crudeli di una «separazione furibonda e straziante», che ha visto lei, donna e madre, costretta a tornare «indietro e nei ranghi», non senza le molte complicazioni legate alla famiglia d’origine.
Se siete molto sensibili allo spoiler, grazie per l'attenzione e fermatevi qui, mi spiace. Chi non teme eccessivamente le contraddizioni dell'esistenza, del suo racconto e della recensione nell'età dell'informazione avanzata, può andare avanti.
Infatti è a questo punto che la storia svela il suo essere «indicibile». Perché ciò che rende arduo l’aver scritto questo libro – e va riconosciuto all'autrice – è raccontare a tutti, con equilibrio e giustezza, di quando la nonna ha ucciso il nonno. Di come Lei ha sparato a Lui, trentenne nel 1952, al termine di una lite. Con tutto quello che ne è seguito.
Il modo di poterlo dire incorpora il racconto di come la scrivente nipote, giornalista e militante, lentamente ne sia venuta a conoscenza nel tempo, attraverso le reticenze, le maglie e le intermittenze della memoria famigliare e della rete sociale di tre generazioni. Tutto questo rende il libro differente, lo sottrae allo statuto di vicenda di partigiani di taglio edificante e consolatorio e ne fa la descrizione di una impervia operazione di recupero di una traccia di memoria, a seconda dei tempi, meravigliosa e terribile. Quella di due vite e di altre che gli girano intorno – figli, amici, genitori, compagni – incastonate nella più grande storia e sullo sfondo della capitale. Il libro si fa così documentazione di un «percorso collettivo che inizia nella guerra e nella dittatura, passa per la lotta partigiana, la Liberazione e la Costituzione, e poi con la sconfitta del Fronte Popolare alle elezioni del ’48 finisce come una pietra che rotola al termine della caduta».
Nello specchio infranto di quel delitto d’amore perduto troviamo l’immagine di quanto sia stato difficile il dopoguerra e di come sia stato impossibile il ritorno allo status quo ante. Di quanto siano state frenate e impedite le istanze di mutamento, nel segno della regolarizzazione delle forze liberate, in ogni ambito della vita sociale, nella stagione della Liberazione. Di quale sia stato il prezzo della normalizzazione «che inizia sempre dal ritorno nelle case delle donne». Se la Resistenza è un momento di sospensione e riconfigurazione dei ruoli che permette la partecipazione attiva femminile, è un’eccezione che viene normalizzata con il rientro dentro gli schemi consuetudinari nel dopoguerra: al netto dei nuovi diritti acquisiti con la democrazia, questo riguarda in modo peculiare le spinte di emancipazione di genere e, in questo senso, a rimandare le donne “in casa” è stata la convergenza di pratiche antropologiche di lungo periodo e nuovo conformismo, trasversale alle forze politiche e al senso comune.
Come solo i nipoti saltando una generazione possono fare, Rosa Mordenti ritesse i fili della storia e memoria familiare con grazia e pudore. Recupera testimonianze e fonti fuori dalle mura domestiche, circoscrivendo in traiettorie ellittiche la scena del crimine: nelle storie della Resistenza, per le vie della Roma del dopoguerra e della ricostruzione, nelle cronache politiche e sportive de L’Unità, nei libri e negli ambienti militanti, su tutti il mondo del cinema neo-realista (il nonno recitò in Roma ore 11, film del 1952 di Giuseppe De Santis). Così la sua scrittura muove alla ricerca del Renato Mordenti mai conosciuto e ne incontra le ombre del passaggio; al tempo stesso ritaglia una zona di protezione per la nonna, la Maria Luisa di quando l'autrice non esisteva ancora e quella amata e conosciuta che appartiene al passato prossimo.
Al centro di una città antichissima è lo scavo «a mani nude in una materia dura, stratificata, che è stata viva» e dolorosa e risulta una non fiction di rara efficacia, sensibile e vibratile. Che commuove per il rischio che si è assunto chi ha scelto di raccontare, nella propria parte di eredità, una storia ardua. E che lascia ai lettori un senso sfuggente di consolazione per le cose che abbiamo perduto e di benedizione per quelle che ci sono state date.