Pavese e De Martino. Lettere sulla Collana viola
Arricchito e aggiornato, torna in libreria, a trent’anni dalla prima edizione (1991), il carteggio tra Cesare Pavese ed Ernesto De Martino. Curato con rigore filologico da Pietro Angelini, ricostruisce la genesi e lo sviluppo della “Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici” che l’editore Einaudi pubblicò in Italia subito dopo la Seconda Guerra Mondiale.
Come dimostra la recente riedizione, ampiamente rivista, del postumo e incompleto La fine del mondo (a cura di Marcello Massenzio), l’opera demartiniana sta conoscendo importanti rivitalizzazioni. Critiche o celebrative, le posizioni sul fondatore della nuova antropologia italiana diventano sempre più numerose. Speciali su di lui si programmano in diverse riviste, si commemorano anniversari con seminari e convegni in Italia e in Europa, si producono traduzioni in altre lingue, anche oltreoceano, così come se ne ristampano i testi classici e i carteggi. Su questi e altri fronti è instancabile il lavoro dell’Associazione Internazionale Ernesto de Martino, così come quello del Laboratorio di ricerca storica e antropologica che a capo alla redazione della rivista online open access “Nostos”.
Per questa nuova edizione del carteggio, Angelini ha compulsato gli archivi degli editori Einaudi e Boringhieri, nonché quelli dello stesso De Martino, arrivando a pubblicare altre lettere, ancora inedite nel 1991, che illuminano meglio il rapporto non sempre pacifico tra i due coetanei (erano nati entrambi nel 1908). Un contrasto che derivava da un lato dalla fascinazione di Pavese per il selvatico mitologico e irrazionale, e dall’altro, paradossalmente, dalla volontà di De Martino di contestualizzare i testi: ben presto, nelle sue lettere a Pavese i toni si inaspriranno, passando, come suggerisce Angelini, dalla Collaborazione (1945-48) al Contrasto (1948-1950).
Il suicidio di Pavese nel 1950, a soli 42 anni, porrà drammaticamente fine al confronto ma non al progetto editoriale. Anzi, a soli tre giorni dalla tragedia, De Martino scrive una lettera a Einaudi, chiedendo con fare un po’ perentorio del destino della collana. Una lettera a cui l’editore non ritiene sulle prime di rispondere; così, passata l’estate, De Martino torna alla carica nel novembre 1950: “Desidero sapere con una certa urgenza che cosa intendete fare della collana viola”, scrive, proseguendo con toni più tecnico-operativi. A fine mese, Giulio Einaudi risponde decretando la continuazione della collana.
Diffusa e nota come “collana viola”, dal colore delle cornici di copertina dei libri, la collezione fu responsabile della divulgazione dell’antropologia nel nostro Paese. La “Viola” fece sì che la parola antropologica introducesse nel contesto italiano una dimensione di “ombra”, un “lato oscuro della ragione”, imponendo al grande pubblico una disciplina pressoché sconosciuta in Italia. Gli autori furono poi via via assorbiti nel catalogo della casa editrice, soprattutto quelli di psicologia, che avevano, con Jung, segnato la prima fase della collana, dopo il primo volume demartiniano.
La collana infatti fu avviata dal volume Il mondo magico, definito da Carlo Ginzburg “libro dell’anno zero”. Era il 1948: lo stesso anno in cui Felice Platone curava la pubblicazione del primo volume dei Quaderni del carcere di Gramsci, sotto la supervisione di Palmiro Togliatti. Anni dopo, proprio prendendo a prestito un termine gramsciano, qualcuno parlerà di “egemonia culturale” del Partito Comunista Italiano, soprattutto per quel che riguarda la casa editrice Einaudi. La collana viola includeva certamente un elemento marxiano, anche se il marxismo antropologico di De Martino fu molto creativo, e forse per questo, almeno sulla carta, avrebbe potuto forse incontrarsi maggiormente con la linea di Pavese.
La collana apriva uno spazio “scandaloso” per l’Italia di allora, immettendovi la potenza fascinosa e mitografica della diversità culturale, rendendo accessibili e diffusi i titoli e gli autori allora più noti: Figlie del Sole di Kerényi, Il ramo d’oro di Frazer, Le radici storiche dei racconti di fate di Propp, Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi di Malinowski... Fu la consacrazione dell’antropologia nel nostro Paese, ideata dallo scrittore e animata dall’antropologo. Una disciplina e una metodologia che assumevano un ruolo fondativo nello spazio pubblico italiano, impegnato, non senza difficoltà, a edificare una nuova democrazia.
Attraverso le lettere si scoprono vicende importanti. Per esempio, l’introduzione in Italia dello storico delle religioni Mircea Eliade, vicino ad ambienti di destra, che fu contattato da Pavese e De Martino per la pubblicazione di ben due testi. Molte furono inoltre le proposte demartiniane che non ebbero esito per vari motivi o che si trasformarono in qualcosa di diverso (da libri ad articoli, per esempio). Senza Pavese, che ne fu l’ideatore e il fondatore, la collana prese poi un segno esclusivamente antropologico-storicistico (uno storicismo più gramsciano e meno crociano) allontanando ogni spettro neo-mitografico o irrazionalistico.
Se la collana ha dato luogo a una prima “internazionalizzazione” della cultura del nostro Paese, affiancando titoli di studiosi italiani a quelli di studiosi stranieri, centrale rimane la specificità italiana di questa esperienza. Come ha scritto Roberto Esposito nel suo Pensiero vivente, l’Italia è il Paese in cui si genera una vera e propria “teoria”, un pensiero “estroflesso alla vita”. Non a caso fa parte di questa linea Gramsci, che fece dell’Italia il suo laboratorio di ricerca a vocazione antropologica, e la cui filologia vivente si sostituirà all’influenza che Benedetto Croce, nel suo studio napoletano di Palazzo Filomarino, aveva avuto su De Martino. Proprio in quegli anni, infatti, il giovane scopriva Antonio Gramsci e, come ci ha rivelato lo stesso Angelini, teneva sul suo comodino gli scritti carcerari dell’intellettuale comunista, destinato col tempo a diventare il suo riferimento primario.
Anche in questo si misura la fortuna cui l’opera demartiniana è andata incontro nel corso degli ultimi trent’anni. Difatti, quando Angelini pubblicò la prima edizione del carteggio, sul giovane De Martino si sapeva assai poco. Nuovi studi ora hanno colmato questa lacuna, come la biografia Ernesto De Martino. Le precedenti vite di un antropologo di Giordana Charuty (Franco Angeli, 2010) e il saggio Il giovane De Martino di Emilia Andri (Transeuropa, 2014). Altrettanto importanti si sono rivelati i carteggi fra De Martino i suoi maestri Vittorio Macchioro (di cui fu anche suocero per un certo periodo, sposandone la figlia Anna) e Raffaele Pettazzoni, raccolti nel volume Le intrecciate vie, curato da Riccardo Di Donato e Mario Gandini (ETS, 2015).
Di “italiano” c’era anche di più nella collana viola. Era sicuramente molto italiana l’attenzione al mito e la scelta di testi a carattere religioso, come notava già nel 1973 Alberto Mario Cirese in Cultura egemonica e culture subalterne. Di questo furono responsabili sia Pavese, sia de Martino, attentissimo alla sfera religiosa e rituale dei comportamenti umani – anche se in una chiave storica, avversa a quella sorta di “sragionamento” cui pure il discorso critico sulla razionalità occidentale poteva dare adito. Non a caso, le sue prefazioni ai singoli volumi erano spesso delle “recensioni negative”: volendo dare delle “avvertenze” critiche al lettore, prendevano in qualche modo le distanze dal libro stesso.
De Martino oggi non è più considerato “l’antropologo del Sud Italia”, l’ispiratore di un Mezzogiorno italiano filmato in bianco e nero; ma il fondatore di un pensiero nuovo, “a colori”, che si candida a diventare una vera e propria antropologia della Storia. Marcello Massenzio gli ha attribuito recentemente “un eroismo mentale che non conosce sosta”, per la rapidità con cui egli supera se stesso e la sua propria teoria, i concetti e la velocità con cui mette insieme, muta e integra le nozioni altrui, mai docile a queste, ma sempre trasformativo, con una sensibilità etico-politica per l’azione concreta, un’operatività che tende ad allontanarsi da un semplice engagement aristocratico.
Nondimeno, la collana viola fu un importante esperimento antropologico-editoriale sui “Sud del mondo”, se per questa espressione si intendono gli ostacoli di resistenza che le culture tradizionali frappongono alla velocità del “progresso” oggi tardo-capitalistico o neo-liberista. Ebbe il grande merito di contribuire alla formazione di intere generazioni di antropologi, che poterono leggere in italiano testi fondamentali, la cui scelta naturalmente rifletteva le diverse, e talora opposte, sensibilità dei due intellettuali. Una vicenda puntualmente ricostruita da Angelini, fino al passaggio della collana a Boringhieri nel 1957, che segna, di fatto, l’inizio di un’altra storia.
Cesare Pavese, Ernesto De Martino, La collana viola. Lettere 1945-1950, Nuova edizione rivista e aggiornata a cura di Pietro Angelini, Torino, Bollati Boringhieri, Torino 2022, pp. 299.