Se uno stato non crede nella cultura

12 Giugno 2013

Non servono le parole del ministro Bray pronunciate all’inaugurazione del Padiglione Italiano della Biennale d’Arte “C’è qualcosa che non funziona nel modo in cui lo Stato crede nella cultura” per capire quanto sia urgente un cambiamento di rotta in un settore cruciale per lo sviluppo sostenibile del nostro paese. La riduzione della spesa pubblica e delle sponsorizzazioni private destinate alle attività culturali ha messo in crisi un modello di produzione fondato prevalentemente sulla gratuità dei fattori produttivi, capitale in forma di contributi, lavoro in forma di volontariato. Allora la necessità di nuove forme di finanziamento si deve accompagnare alla ricerca di modelli e pratiche innovative per l’esercizio di attività culturali che siano in primo luogo attività economicamente sostenibili.

 

La cultura è dunque un ambito di applicazione dell’innovazione sociale e di sviluppo dell’impresa sociale, intesa in senso non strettamente giuridico, ossia come un’impresa che esercita un'attività economica organizzata ai fini della produzione di beni e servizi culturali di utilità sociale, capace di stare sul mercato e di finanziarsi grazie ai ricavi generati dall’attività stessa. Fare impresa non implica necessariamente creare una società commerciale. Certo esistono forme giuridiche più o meno adatte ad organizzare un’attività in senso economico, così come esistono, per alcune organizzazioni, limiti di tipo normativo e fiscale allo svolgimento delle attività di natura commerciale, ma in linea di principio non è la forma organizzativa a determinare il grado di imprenditorialità di una certa iniziativa. Questo concetto sgombra il campo da alcune convinzioni radicate, aprendo a nuove forme di modelli organizzativi, per sviluppare in modo più efficace  modalità innovative di produzione e fruizione di servizi culturali.

 

L’impresa sociale, come campo di sperimentazione ancora non consolidato, è infatti uno strumento al servizio dell’innovazione sociale, capace di offrire una risposta molteplice che riflette la complessità e la ricchezza delle pratiche, senza appiattirle su forme consolidate e ricondurle a logiche tradizionali. Se l’innovazione nasce dalla domanda di nuovi bisogni e servizi, l’impresa sociale deve offrire nuovi modelli coerenti con la natura atipica del prodotto e del processo a cui danno forma.

 

Per fare il punto sull’imprenditoria sociale in ambito culturale, facciamo riferimento ai risultati del progetto cheFare, lanciato nel 2012 da Doppiozero, in collaborazione con Avanzi, Make A Cube, Fondazione <Ahref, Tafter, Eppela e La Domenica del Sole 24 Ore, che rappresenta un osservatorio privilegiato sullo stato dell’arte della produzione culturale in Italia.

 

L’analisi dei dossier (oltre 500 progetti presentati) ha evidenziato la prevalenza di attività non strutturate in senso economico, di modelli gestionali e di business non sufficientemente sviluppati per garantire la solidità economica delle iniziative progettuali. E questo a prescindere dal fatto che la maggior parte delle organizzazioni abbiano una forma giuridica che non è quella propria dell’attività commerciale. Si tratta infatti di enti associativi il cui scopo non è quello di creare valore economico a favore dei soci ma di perseguire finalità di tipo sociale. In particolare, è emersa con forza la difficoltà a “pensare come imprenditori”, ad elaborare piani di costi e ricavi necessari a ponderare la sostenibilità finanziaria del progetto. Questo elemento riconduce ad un approccio gestionale molto diffuso nell’associazionismo, in cui il valore della produzione è misurato solo in termini culturali e non economici, e in cui i costi dei fattori produttivi sono sostenuti da erogazioni a fondo perduto e non vengono remunerati dai risultati dell’attività stessa.

 

Dare vita ad un progetto o ad una attività di questo tipo e con questo approccio non può che portare ad una gestione non professionale, in cui le opportunità di lavoro e di auto-impiego non offrono una remunerazione sufficiente. Allora l'associazionismo “non imprenditoriale” e il volontariato sono un esito quasi necessario, l’unica via immaginabile e percorribile, soprattutto in assenza di sistemi di welfare che premiano l'imprenditorialità, il rischio, l'investimento personale e collettivo in una attività a tempo pieno che possa svilupparsi e strutturarsi in impresa.

 

Le evidenze emerse non permettono di constatare l’esistenza di imprenditoria culturale matura e sviluppata, cioè di un numero elevato di imprese sociali che esercitano attività economica, ma suggeriscono l’esistenza di imprenditorialità culturale diffusa. E in questo senso ricorriamo alla visione schumpeteriana di imprenditore, quale agente del cambiamento e innovatore capace di modificare e rivoluzionare modelli di produzione esistenti. Allora l’imprenditorialità culturale a cui facciamo riferimento è quell’insieme di capacità e di qualità che abbiamo riscontrato in molte pratiche e progetti, sostenuti da individui impegnati nella scoperta di modi creativi di valorizzare risorse poco utilizzate, nella definizione di modalità innovative di produrre o distribuire servizi culturali, nella capacità di impiegare la tecnologia come driver di innovazione. Molti dei progetti mostrano infatti un alto grado di innovatività, nell’uso di tecnologie e digital media per la comunicazione, nella creazione di nuovi mercati, nell’adozione di sistemi di produzione collaborativa (crowdsourcing) e di nuovi modi di organizzare la filiera.

 

La dicotomia tra valore culturale e valore economico sembra ancora prevalere, determinando una sorta di barriera culturale tra associazionismo e imprenditoria, una lontananza dettata da storia e cultura di mondi diversi, con valori spesso agli antipodi. Se la cultura è intesa come attività non economica, ad esclusiva valenza sociale, si rischia di non cogliere le opportunità offerte dai processi di innovazione sociale, in termini di modelli alternativi ed ibridi di organizzazione dell’attività e soprattutto di modalità di finanziamento ad essi collegati.

 

La sostenibilità economica è il presupposto fondamentale per dare continuità e stabilità alle attività di promozione culturale e artistica, dando concretezza ad un settore economico con grandi potenzialità. La vitalità e lo spirito anche imprenditoriale, in alcuni casi, delle pratiche e delle iniziative culturali mappate sono la riprova che il settore della cultura può essere uno dei pilastri del rilancio economico del sistema paese, nell’ambito di una strategia di sviluppo sostenibile.

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