Si può vivere senza identità?
«Preciso emerge il tutto»: così reagisce Edipo, quando scopre di essere figlio di Laio e di Giocasta. Lui, che si proclamava “figlio di nessuno”, acclamato sovrano dai Tebani che aveva liberato dalla Sfinge terribile, ora si ritrova dinnanzi a un vuoto inaudito, nudo: diverso da tutti gli altri.
Spogliato della propria identità, privo di un’essenza, a Edipo – come direbbe Giuseppe Serra – non rimane che darsene una nuova, “ripetendo” la propria esistenza, ripercorrendo il proprio passato: «nato da chi non dovevo nascere, mi sono congiunto a chi non mi dovevo congiungere, ho ucciso che non dovevo uccidere». Malgrado tutto, coincido con quel che sono stato: parricida incestuoso. Ecco a voi ciò che in Aristotele diventerà l’essenza: io sono il mio passato, “ciò che era essere”, tutto quello che sono, a cui rimarrò inchiodato.
Molti, a Tebe, si erano già accorti dello scandalo. Edipo no: gli dèi hanno voluto che fino all’ultimo rimanesse cieco al proprio destino. E ora emerge anche ai suoi occhi: ma tutto questo non è già più “tutto”, perché adesso Edipo comincia a parteciparvi. Oltre alla colpa – scriveva Schelling – si accolla liberamente anche il castigo: si acceca! Con questo gesto Edipo contribuisce “di suo” a tutto questo.
Cessa di subire passivamente ciò che gli è destinato: stavolta vi aderisce spontaneamente. Decidendo di assumere proprio quel “volto” già assegnatogli dalla sorte, in qualche modo trasfigura l’accaduto e gli conferisce un’altra sembianza: il destino non cala più dall’alto, ma è fatto proprio da Edipo. Anche solo ripetendo col suo gesto di accecarsi ciò che era già stato per tutta la vita, in qualche modo ne differisce. E ora ci sono io, mentre ne scrivo, a differire da tutto questo: e mentre leggerai, caro lettore, sarai tu a differire da tutto questo che sto scrivendo.
Rifugiarsi nel passato, incamminandosi lungo una strada già battuta, è una strategia piuttosto nota e consolidata, parecchio efficace qualora s’intenda recuperare un’identità capace di annacquare i dubbi e di assopire l’inquietudine. È un nascondiglio che può rivelarsi anche abbastanza confortevole per evitare di confrontarsi innanzitutto … con se stessi, con quell’accadere dell’istante presente che inevitabilmente ci riguarda: ci guarda da tutte le parti, nel senso che noi ci troviamo senz’altro immersi nel presente e siamo profondamente influenzati dall’atmosfera che ci avvolge. Ma per un altro verso questo presente si rivolge a noi: ci guarda ancora una volta, una volta di più, perché in un certo senso non può davvero accadere senza che noi – anche noi – vi contribuiamo. Nel contribuirvi, però, inevitabilmente finiamo per alterarlo, anche solo inavvertitamente, con quello che avremmo da aggiungere, da sottolineare, magari da trascurare o da ribadire rispetto a tutto questo che già c’è: con un nonnulla che non c’è già, e proprio per questo può accadere.
Memorie, usi e costumi – diciamo pure l’intero novero delle pratiche che frequentiamo nei loro diversi esiti – ci precedono e ci plasmano intensamente, molto al di là di quanto noi stessi potremo mai essere consapevoli. Silenziosamente il portato di una cultura continua a forgiarci, ad ogni istante, sotterraneamente, inconsciamente: non solo la lingua, ma ogni singolo modo di dire, ogni espressione bizzarra, avvertita magari una sola volta in vita, opera in me, in sottofondo; non soltanto le abitudini di cui penso di essere conscio, ma ogni più piccolo modo di fare, ogni gesto insignificante, ogni postura involontaria, colta negli altri, incorporata nella mia giornata o magari anche esplicitamente rifiutata dal mio sentire, tutto questo infaticabilmente lavora dentro di me.
“Dentro di me”, “fuori di me”: anche queste sono tutte categorie, tutte formulazioni che una certa cultura mi suggerisce come ennesimo tentativo di operare dei tagli, delle discontinuità, per cercare disperatamente di mettere un po’ d’ordine nel fluire della vita.
Non c’è quasi nulla di “mio” che non abbia assorbito in realtà da tutto ciò che mi circonda, anche senza volervi aderire espressamente: lacanianamente si potrebbe anche dire che l’altro è il luogo in cui ci costituiamo. E però, a mia volta, come si legge in un appunto di Valéry, «io sono l’altra faccia di tutte le cose». Siamo senza dubbio condizionatissimi, legati mani e piedi alle persone che abbiamo frequentato, ai libri che abbiamo sfogliato, ai luoghi di cui ricordiamo e fantastichiamo, ai contesti entro i quali viviamo e abbiamo vissuto. Tutto questo non esaurisce ancora il fondo infaticabile della vita: c’è anche quel peculiare, quel singolarissimo, quell’insignificante riflesso di tutto questo che ora sta accadendo in me, o forse meglio tramite me.
“Tramite me” poiché non siamo soltanto discendenti di una tradizione, ma anche eredi: non ci accontentiamo – in effetti non potremmo accontentarci – di assimilare passivamente un modo di pensare e di vedere le cose: anche solo per acquisire una certa identità, un preciso contenuto, siamo costretti a tradurlo, per così dire, nel nostro modo di vedere le cose, a partire da quella prospettiva, da quel singolare pertugio che ci dà accesso al mondo. Non perché questo mio “spioncino” possa pretendere di risultare speciale: è tutto fatto di mondo, è stato a sua volta costruito alle mie spalle da tutto ciò che mi gira attorno. Ovviamente non gira intorno a me: questo è soltanto l’effetto che mi fa il “giro” della vita.
Ma lo sbalzo, ecco sì, lo stacco tra “tutto questo” e il modo tramite cui rimbalza su di me: tale differire non è un pezzo di mondo. Non è qualcosa riguardo a cui il mondo possa dire: “nulla di nuovo! Anche questo l’ho già visto. Non mi riguarda”. No, no: lo riguarda! Quel riflesso lì, secondo quella inclinazione lì, no, non c’è mai stato. E il Tutto, per accadere, per accadere di nuovo, deve passare anche da quel (mio) riflesso apparentemente insignificante. L’Uno stesso si specchia in me … medesimo.
L’ultimo secolo ci ha mostrato in vario modo come il linguaggio non sia riducibile a un portalettere che trasmette il messaggio mantenendolo inalterato nella sua purezza. Recepire un’identità significa sempre anche trasformarla: aggiornarla, perderne qualcosa e aggiungerci qualcos’altro, di più o meno eterodosso. Anzi, quella stessa identità che crediamo di approcciare come fosse un pezzo di granito non è a sua volta un blocco monolitico inscalfibile: si è costruita nel tempo, agglutinando attorno a sé il materiale più vario, talvolta senza esigere una particolare coerenza, e talvolta addirittura in maniera contraddittoria. Solo ex post noi guardiamo da fuori questo coacervo di innesti come se fosse un tutto coeso e sospiriamo: “quelli sì che avevano un’identità”. E forse “quelli”, se interpellati sul punto, si lascerebbero sfuggire un lieve sorriso.
Forse per questo, nella sua prefazione alla traduzione italiana di Moby Dick Pavese scriveva che «avere una tradizione è meno che nulla, è solo cercandola che si può viverla». Viverla, giammai averla.
C’è un passato che è veleno: un veleno ci costringe a surrogare la possibilità di accadere nel presente con una sua narrazione sostitutiva. Ci accontentiamo di essere, di essere “una volta per tutte”: ridotti entro una presunta classe d’appartenenza, schiacciati su una certa ideologia, profilati e ritagliati secondo parametri che altri hanno messo in campo per noi.
C’è un passato che è risorsa: «si sente anche il nuovo che subentra – come direbbe Hölderlin – la cosa giovane, il possibile». La domanda non è quindi se si possa vivere senza identità, ma che cosa diavolo vorrebbe dire averne una sola: un’identità fissa risulterebbe letteralmente invivibile. Dove sarebbe in tutto questo il margine di traduzione, la possibilità di una partecipazione che mi fa accadere? Oppure, forse peggio ancora: ciascuno con la propria identità, rigida, senza scambi; sarebbe addirittura inimmaginabile. Sempre peggio: tutti uguali, magari ugualmente garantiti da “valori universali”. C’è un frammento meraviglioso di Valéry che ci porta al limite estremo del ragionamento: «Tutti come me, e allora non ci sarebbe nessuno».
Nelle sue conversazioni notturne con Qohélet, Turoldo provava a rispondere così alla sentenza fatale dell’Ecclesiaste, “niente di nuovo sotto il sole”:
«Il già detto è ancora da ridire, o Qohélet:
mai la stessa onda si riversa
nel mare e mai la stessa luce si alza sulla rosa:
né giunge l’alba
che tu non sia già altro!».