Speciale

Speciale Gianni Celati | Verso la foce

5 Marzo 2013

“Fatevi una storia”

Raccontare i libri di Gianni Celati attraverso le parole dei suoi lettori. Dare voce alle storie di chi legge e ama i suoi libri: un capovolgimento di ruolo che vede i lettori, amici, compagni di viaggio nel ruolo di narratori di uno dei più importanti scrittori italiani contemporanei

Leggere i libri di Gianni Celati e raccontarne la propria più personale esperienza, dai fatti minimi alle scelte che quella lettura ha determinato. Raccontare perché si è preso in mano quel tal libro di Celati e poi come mai vi si è rimasti legati, l’umore di un giorno, un entusiasmo giovanile come la sorpresa di una (ri)scoperta ad anni di distanza.

Scriveteci, i pezzi migliori (max 3000 battute da inviare a info@doppiozero.com) verranno pubblicati da doppiozero in occasione degli incontri che dal 7 marzo fino al 27 novembre animeranno
La dispersione delle parole. Una rassegna organizzata dal Comune di Bologna in collaborazione con la casa editrice Einaudi dedicata a Gianni Celati per la pubblicazione della sua traduzione dell’Ulisse di James Joyce.

 


 

Comincerò dall’inizio, cioè dal primo libro di Gianni Celati che mi è capitato di leggere quando insegnavo (precariamente) letteratura italiana alla facoltà di lingue. Celati era stato invitato da un amico che come me insegnava precariamente, e teneva quell’anno un corso sulla narrativa di viaggio, mi pare. Quella chiacchierata con gli studenti mi ha fatto una grande impressione. Tornata a casa ho iniziato un quaderno nuovo, scrivendoci tutte le cose che mi erano venute in mente mentre ascoltavo quel signore parlare stando in piedi davanti alla cattedra, come se non avesse mai fatto altro nella vita che parlare a ruota libera davanti a un gruppo di studenti che lo stanno ad ascoltare. Celati ha raccontato molti aneddoti, e a volte faceva dei suoni con la bocca, imitando un trombone con la mano usata come un megafono quando parlava degli scrittori tromboni. Mi aveva colpito il modo in cui pronunciava la parola “scimpanzé”, con la zeta dolce, e secondo me non ero l’unica ad ascoltare con tanta attenzione le note etologiche sulla vita delle scimmie solo per il gusto di sentire l’effetto sonoro che veniva fuori dalla ripetizione della parola “scimpanzé”, pronunciata in quel modo inusuale. Celati ha detto molte cose, e alla fine ha ascoltato le domande degli studenti.

                                                         

Quando è arrivato a parlare del libro, spiegando com’erano nate le pagine di Verso la foce,  ha raccontato dei suoi viaggi lungo il corso del fiume Po, all’inizio degli anni Ottanta, quando è stato reclutato da Luigi Ghirri per seguire un gruppo di fotografi con l’idea di documentare il nuovo paesaggio italiano. Per alcuni anni Celati ha viaggiato in treno, in corriera e a piedi, a volte accompagnando Ghirri nei giri di esplorazione fotografica, a volte scegliendo a suo gusto i luoghi da attraversare, senza fare programmi, prendendo appunti sulle cose che vedeva o ascoltava quando si fermava nei bar, nelle sale d’aspetto delle stazioni, nelle case delle persone che lo ospitavano per la notte. Così, viaggiando e scrivendo, assemblando gli appunti e riscrivendo, è venuto fuori il diario d’osservazione che Celati ha composto seguendo il corso dei pensieri di un uomo che cammina, con un andamento musicale della frase che richiama a sé in un’orchestrazione sapiente i registri bassi del parlato quotidiano, lo scatto improvviso di una battuta pronunciata in dialetto, il respiro ampio delle frasi che si distendono in tempi lenti per registrare i mutamenti di luce nel paesaggio.

 

Le pagine di quel libro sono piene di appunti presi sui margini bianchi. Ci sono stati pochi altri libri che mi hanno sollecitato con tanta forza a prendere la penna, a scrivere tutto quello che mi veniva in mente senza starci troppo a riflettere. Penso che leggere e ascoltare Celati si porti sempre dietro una sollecitazione: dedicandogli una raccolta di versi, Luigi Trucillo ha detto di lui che è un “attivatore dei campi emozionali nella scrittura”. E secondo me i poeti hanno sempre ragione.

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