Le finestre di Enrico Palandri
La vitalità del mito si percepisce nella letteratura, in una pièce teatrale, in un dipinto, in una pietra scolpita, ci ricorda Enrico Palandri ad apertura di Sette finestre, raccolta di saggi narrativi usciti nel marzo di quest’anno nella collana Passaggi di Bompiani. “Siamo pieni di storie, amati e avversati da quel che si muove in cielo e in noi: gli dèi del mondo greco e romano, il Dio della Bibbia e del cristianesimo, l’astrologia, i campi magnetici, le orbite dei pianeti. Gli altri”. Noi abbiamo perso il senso di questa presenza numinosa a cui bisogna abbandonarsi senza indagare: “Gli dei che abitano le storie sono dappertutto intorno a noi, ma restano invisibili se pretendiamo di conoscere solo attraverso le facoltà razionali, quando vogliamo capire e spiegare tutto”. Cerchiamo rifugio nei particolari, nei dettagli, nella concretezza: “La bellezza è invece terribile, infinita, arriva sparigliando le carte e ribaltando i tavoli, apre una porta e si affaccia su abissi e spazi sterminati. Lì c’è l’altro, e noi, e le ossessioni sono solo uno degli strumenti che hanno gli dèi per costringerci a recitare la nostra parte.” Il più delle volte non capiamo nulla, solo la nostra lingua e i nostri sistemi, quello che pensiamo di pensare, ci rinchiudiamo nella bolla degli impegni, delle cose che abbiamo da fare, cerchiamo rassicurazioni nella nostra identità, nell’appartenenza, nelle definizioni e nelle categorie. In questi momenti gli dei tacciono, guardiamo il cielo e non vediamo nulla. “Non è facendo un buon ragionamento che decidiamo di sposarci o intraprendere una strada, cambiare paese, far figli, o che accettiamo di morire. Le cose sono abitate più a fondo, esistono prima del nostro conoscerle e ci avvolgono nella loro trama prima di dispiegarsi, prima di attraversarci e metterci nel mondo.”
Come scrive John Keats in una lettera ai fratelli citata nella prima delle sette finestre, I racconti e gli dèi, nei grandi della letteratura – e qui Keats pensa soprattutto a Shakespeare – si manifesta una qualità che si può definire come una capacità negativa, ovvero la capacità di muoversi nell’incertezza, nell’indeterminato, nel mistero. È importante distrarsi, ci dice Palandri, perché è proprio dalla distrazione che ritornano gli dei: “Solo sporgendosi oltre questa imprecisione, nella capacità negativa, la lingua si compromette con l’indicibile ed evoca, accenna, a volte dà la sensazione di poter cogliere, e poi torna a scorrere tra mille altre cose che vengono o non vengono dette”. Questo è lo spazio della poesia: nel silenzio, nell’ombra e nella distrazione i miti continuano a vivere, anche quando li vogliamo liquidare come resti di epoche passate, “abitano un’alterità che non si lascia ridurre all’ordinario”. Ognuno deve misurarsi con il nocciolo tragico del mito, il rapporto con la famiglia d’origine, il mistero e il dolore della maternità, il nucleo rovente delle ribellioni, l’attrazione che proviamo per gli altri, l’amore. Nel raccontare e riraccontare – ci dice Palandri –, tenendosi fuori dalle chiacchiere superficiali, dalle parole che non dicono più nulla, cerchiamo di capirci qualcosa, di dare un senso a un frammento sepolto o di ritrovare un granello di verità disperso in tutto quello che non sappiamo. “Non siamo mai fuori dalle narrazioni. I miti sono vivi, una trama di racconti che ci precede ed emerge dal silenzio in una storia che è già iniziata”.
Siamo così fittamente intessuti di racconti che non possiamo esimerci dal produrne di nostri, continuamente nuovi, anche quando capita che un’attrice cinematografica legga un poesia di William Blake, A Poison Tree, ispirata al Paradiso perduto di Milton, e ne faccia un manifesto di rivendicazione: è accaduto a Rose McGowan, che ha twittato una sua traduzione politicamente orientata del sonetto, creando una rete di consensi (sfociata poi nel movimento #MeToo) intorno alla denuncia del produttore Harvey Weinstein per molestie sessuali. Tutto questo succede – ci dice Palandri nella seconda delle finestre dedicata alle Interpretazioni diverse – perché interpretiamo attraverso la nostra epoca ogni scritto sopravvissuto a epoche lontane: “Mentre il testo infatti rimane radicalmente altro (come ogni persona), il contesto è poroso, mescola le ragioni degli uni e degli altri alla nostra percezione, è inevitabilmente un ponte tra quel che siamo noi oggi e quello che abbiamo invece di fronte”.
Tutte le narrazioni tuttavia (la famiglia, le ideologie, le credenze, le mode, l’identità, il passato) diventano con il tempo soffocanti e ci fanno sentire il bisogno di liberarcene. Accade in occasione di un lutto, di un passaggio d’età, della fine di un percorso di studio, della rottura di un legame importante, della fine di un amore. Palandri ritiene che proprio in queste occasioni il ruolo della critica si disveli, divenga palese: la critica infatti ci aiuta a capire di cosa vogliamo disfarci. Questa funzione della critica si ritrova in un testo che Palandri ha amato e studiato a lungo, lo Zibaldone di Leopardi, dove le note di poetica, le riflessioni di carattere filosofico, le osservazioni critiche sulla tradizione letteraria hanno il compito di sgomberare il campo dalle tante discipline a cui si volge l’attenzione dello studioso per fare spazio alla poesia. Critica e poesia, sapere e conoscenza, verità e bellezza, possedere e amare: ci muoviamo tra le finestre aperte da Palandri ritrovando le questioni che si pongono i grandi filosofi nello specchio della vita di tutti: “Incontriamo una persona e se ci piace facciamo domande – leggiamo nella terza finestra, Dalla critica e la poesia al critico e il poeta –. La bellezza con cui ci appare apre a tanti contenuti: vogliamo conoscere la sua storia, da dove viene, com’è la sua famiglia, le sue abitudini, la trama psicologica della personalità, vogliamo intuire un interno. O come dice Dante, intuarci, entrare nel tu. Questo approfondimento ci porta oltre noi stessi […]. Vorremmo essere con l’altro infinitamente, indefinitamente, invece rischiamo di volerlo possedere attraverso il suo corpo. L’amore che si apre attraverso l’altro è infinito proprio perché si oppone alle definizioni, e quindi neppure il corpo può raccontarlo, ma temiamo di contemplare invece di amare. Quindi vorremmo in qualche modo toccare, avere l’altro, sapendo fin dall’inizio che non possiamo possedere qualcuno più di quanto si possa possedere un paesaggio. Cosa significa possedere? Dire è mio non ha senso, quando lo crediamo ci affacciamo sul baratro. Di là c’è il nulla, la morte.”
La nostra debolezza è fatta di fantasmi, timori, desideri, da tutto ciò che non è. Ce ne rendiamo conto, scrive Palandri – attivando il movimento consueto che in queste pagine rimanda all’esperienza di ogni giorno –, quando aspettiamo il responso di un referto medico, quando riceviamo una lettera di convocazione inattesa, quando dobbiamo affrontare un esame universitario, quando sospettiamo che una persona amata ci tradisca. Negli interstizi di questi vasti territori del dubbio si insinuano astrologi, fattucchiere, preghiere, sacrifici, voti, calcoli scientifici, sedute psicanalitiche, consultazioni di pagine web. A questo nostro fisiologico bisogno di rassicurazioni rispondono i grandi miti che rappresentano il tempo: è quanto ci viene mostrato nella quarta finestra, che riguarda proprio Il tempo nella letteratura. “Dobbiamo pensare che oltre a essere qui, presenti e distruttivi, i nostri mali sono transitori. Che c’è un tempo più lungo, eterno, che ci contiene; i guai domani non ci saranno, passeranno, il male non è per sempre. Questo è connaturato al tempo: avere memoria di disgrazie peggiori nel passato che nel presente lenisce il dolore […] Questo è all’orizzonte dei libri sapienziali della Bibbia, nell’apocalisse, nelle resurrezioni, negli eventi prodigiosi di cui son pieni non solo i vangeli ma le storie di santi che si diffondono nel medioevo cristiano raccolte da Jacopo da Varazze nella Legenda Aurea. La morte in queste narrazioni è sempre intessuta con la vita, la termina ma ne diviene anche il dispiegamento oltre il defunto. Ogni romanzo, ogni poesia, ogni brano musicale che accenna alla morte non fa che cercare di accoglierla nella vita e raccontarla”.
Ed è proprio quando scompare la sensazione di un tempo fisico, di un tempo che non smette mai di scorrere, come nell’incipit della Recherche di Marcel Proust, che il racconto ha inizio. Nella quinta e nella sesta finestra (Amore per, dei e attraverso i personaggi e La bellezza dell’estraneità) Palandri si interroga sullo statuto dei personaggi letterari e sulla nostra condizione di spettatori-lettori delle vite altrui; attraversa le metamorfosi dell’istanza narrativa nel modernismo, conducendoci tra i grandi classici del Novecento, sempre tenendoci per mano, mostrandoci come le grandi questioni che attraversano la cultura e la storia contemporanea non differiscano dalle domande che ciascuno si pone nelle circostanze più ordinarie; portandoci nel cuore delle scelte formali dei grandi narratori (Italo Svevo, Marcel Proust, Virgina Woolf, James Joyce, Franz Kafka) e presentandole non come espedienti tecnici, ma come tentativi di offrire una rappresentazione più vicina possibile a un comune sentire che gli scrittori si incaricano di tradurre per noi. Siamo tutti sulla stessa barca, sembra dirci Palandri, siamo esseri che si agitano e si dibattono cercando di orientarsi fra attrazioni, timori, desideri, delusioni, aspirazioni, senso di estraneità e di impotenza. Ci muoviamo in un destino che ci accomuna: “Mai completamente infelici, un po’ infelici e un po’ felici, come tutti, come sempre”.
L’ultima della sette finestre, In cerca della sorgente, si offre insieme come bilancio e come rituale di soglia: Palandri si congeda dai lettori raccontando come nasce un libro originato dal bisogno di aprirsi al mondo uscendo dallo spazio chiuso del suo studio, aprendo le finestre, muovendosi liberamente, con leggerezza e coraggio fra materiali eterogenei, come il dottor David Livingstone, perduto in Africa alla ricerca delle sorgenti del Nilo. “Non per spiegare, ma per continuare a cercare”.