Intervista a Maria D. Rapicavoli / Surface Tension
Dal 6 novembre al 13 marzo, l'UB Art Galleries dell'università di Buffalo ospita Maria D. Rapicavoli: Surface Tension. Questa è la prima retrospettiva dell'artista catanese, da tempo residente a New York. Le dieci opere esposte, infatti, ripercorrono all'incirca l'ultimo decennio dell’eterogenea produzione di Rapicavoli, affrontando tematiche complesse quali neo e post colonialismo, la sorveglianza militare dello spazio aereo, razzismo, violenza domestica e di genere.
Ne abbiamo parlato con l'artista.
La tensione superficiale è una caratteristica propria dei liquidi e si tratta di un fenomeno fisico che porta alcuni oggetti o creature a galleggiare, a “camminare” sull’acqua. Perché hai deciso di intitolare così la mostra? In questo caso, credi che siano le opere, l’artista o gli spettatori a mantenersi a galla?
La capacità di un liquido di resistere a una forza esterna grazie alla natura coesiva delle sue molecole viene definita tensione superficiale. Questo fenomeno rimane invisibile fino a quando non avviene un’interazione tra oggetto e liquido. Ed è proprio questo gioco di forze a catturare il mio interesse: da un lato l’oggetto che sfrutta la tensione ma vive in uno stato di equilibrio precario, dall’altro il liquido che agisce come agente respingente. Questa tensione è per sua natura molto facile da rompere. La vedo come una metafora della nostra società in cui le tensioni sociali, politiche ed economiche sono spesso invisibili e, quando si manifestano, gli agenti in gioco devono mantenere un equilibrio di forze per non affondare.
Crooked Incline e A cielo aperto prendono in esame la mappatura militare dello spazio aereo. Credi che l’arte possa – o debba – destabilizzare, disorientare e sfuggire a ogni forma di controllo?
L’arte si presenta attraverso una grande varietà di forme, significati e scopi. Non credo ci sia una sola direzione in questa molteplicità. Io inizio sempre un progetto perché sono spinta da qualcosa che mi destabilizza e che ho bisogno di raccontare visivamente. Questa urgenza cerco di trasmetterla nel mio lavoro e quindi di passarla agli spettatori. Poi sta a loro lasciarsi disorientare.
Quello della migrazione è un tema ricorrente nel tuo lavoro. Credi che l’Italia debba ancora fare i conti con il proprio passato coloniale?
Credo che l’Italia fatichi ad avere una visione onesta e lucida dei motivi che condizionano i movimenti migratori perché non ha mai davvero cercato di risolvere il suo passato coloniale, anzi ha minimizzato il fenomeno, quasi negandolo. I flussi migratori verso l’Italia sono la conseguenza delle politiche coloniali dirette e indirette e del mercato globale che mercifica gli esseri umani e li spinge a circolare con la promessa di un futuro migliore, per poi respingerli o rispedirli indietro senza delle regole internazionali che li tutelino.
Quale pensi possa essere la funzione sociale dell’arte al giorno d’oggi? Credi ci siano delle differenze significative tra lo scenario statunitense e quello italiano?
Per me l’arte è uno strumento di conoscenza, a prescindere dal tipo di forma che assume e dal significato che se ne possa dare. Come tale, credo fortemente nella funzione politica e sociale dell’arte che da sempre mi spinge a trattare tematiche impegnate. L’arte italiana ha un forte tradizione formale e concettuale, mentre in America (parlo di New York) la tradizione pop unita all’arte di denuncia, rivelano una forma artistica più diretta e pungente. In questo momento, le tematiche razziali e quelle di genere sono sicuramente tra le più affrontate.
Sia Reminder che If I am in Pieces Is Easy to See? sono state realizzate durante il lockdown. Pensi che la pandemia abbia influito sulla percezione collettiva del tempo e dello spazio? E se sì, in che modo?
Lo spazio domestico ha sostituito quello esterno, quello mentale si è riempito di pensieri. Lo spazio limitato degli schermi digitali ha invaso le nostre vite. Il tempo si è dilatato, mentre lo spazio si è ristretto. E proprio in questa condizione, su invito di Magazzino Italian Art di Cold Spring, NY, ho realizzato sia Reminder che If I am in Pieces Is Easy to See?, da casa, nel mio piccolo appartamento di New York, perché durante il lockdown non potevo andare in studio a lavorare. Ho trasformato la cucina in un laboratorio di ceramica e il letto in un set cinematografico. Ho passato tantissime ore a modellare centinaia di pezzi di argilla, per ricreare un mucchio di vetri rotti che avevo trovato per strada. Aspettavo l’arrivo di un raggio di sole, che ogni giorno entrava dalla mia finestra, per fotografarlo e scandire le giornate. Reminder si compone di una serie di immagini fotografiche e di testi che ho scritto nei mesi in cui ho raccontato il mio stato d’animo. Penso fosse molto vicino a quello collettivo, in cui spaesamento, frustrazione, senso di rottura e paura coesistevano.
Qual è il punto di equilibrio tra l’intervento manuale, artigianale e l’utilizzo delle più recenti innovazioni tecnologiche nei tuoi lavori?
Ricordo che da bambina il mio libro preferito era un volume di I Quindici, un’enciclopedia per bambini, intitolato Come funzionano le cose. Questa domanda, insieme a “perché funzionano così”, è da sempre alla base della mia ricerca. Non sono diventata una scienziata, ma credo che questo spieghi quanto per me il legame tra le due discipline sia forte. Quasi tutte le mie sculture richiedono un tempo di lavorazione manuale molto lungo e una grande meticolosità: penso all’installazione A Cielo Aperto, in cui ricreo i corridoi aerei dei droni militari con sottili fili di plastica incollati alle pareti; a Crooked Incline, in cui modello forme geometriche in porcellana che ricordano le bombe sganciate dagli aerei durante la II Guerra Mondiale. Anche per A Starry Messanger ho scolpito a mano un telescopio, seguendo un lungo processo di rimozione e levigatura. Questi elementi, insieme alle imperfezioni del lavoro manuale, stridono con il lavoro tecnologico – spesso associato alla velocità – che ispira i contenuti dei miei lavori. Il contrasto tra temporalità e resa traccia un intervento umano tutt’altro che “perfetto”, ma proprio per questo unico.
A Starry Messanger fa riferimento al Sidereus Nuncius di Galileo Galilei. Oggi, sono sempre di più le mostre che affrontano il complesso rapporto tra scienza e arte. In che direzione credi possa svilupparsi l’interdisciplinarietà della produzione artistica contemporanea?
L’interdisciplinarità nell’arte è una espressione naturale che si manifesta già da tempo e il cui sviluppo nella video arte, ad esempio, si sta spostando verso la realtà aumentata o virtuale che – presto – penso sostituirà la fruizione tradizionale dello schermo. A Starry Messenger è la traduzione in inglese di Sidereus Nuncius, il testo in cui Galilei pubblicò, nel 1610, le sue osservazioni astronomiche, tra cui la scoperta delle lune attorno a Giove che suscitò l’ira della Chiesa Cattolica. Il progetto è stato commissionato dal Socrates Park nel Queens, NY, come opera di arte pubblica e, in questo senso, il connubio tra arte e scienza è diventato davvero uno strumento conoscitivo accessibile a tutti. Il telescopio, infatti, funziona davvero e, al suo interno, tra le due lenti, si possono vedere diverse immagini della terra catturate dai sistemi di sorveglianza satellitare. Sono immagini random, trovate in rete, che rivelano close-ups di diversi punti della superficie terrestre. Quando Galilei fece il suo primo telescopio non pensava che un giorno il cielo potesse osservare la terra grazie ai satelliti. Attraverso un telescopio, da sempre considerato strumento di conoscenza, l’opera enfatizza invece un sistema di controllo che di poetico ha ben poco.
Quanto e come ha influito il trasferimento negli gli Stati Uniti sul tuo lavoro?
L’anno di studi al Whitney Independent Study Program, che mi ha portata a New York dieci anni fa, è stato determinante per lo sviluppo della mia ricerca nell’ultimo decennio. L’indagine storico-sociale, in relazione al discorso artistico, così come lo studio delle politiche postcoloniali, femministe e di critica al sistema economico affrontate durante il corso, infatti, mi ha portata ad avvalorare e a consolidare i contenuti del mio lavoro. Parte della mia ricerca, inoltre, si basa ormai da anni sulle conseguenze degli accordi postbellici tra Stati Uniti e Italia. Pertanto, considero gli States come fonte di ispirazione e risorse.
In The Other: A Familiar Story la pluralità dei punti di vista fa da contrappeso alla voce narrante. Le grida sorde della protagonista così come le bande nere sugli occhi dei commensali restituiscono il peso di un’assenza quanto mai soffocante. L’intento sembra quello di proporre non uno sguardo univoco, ma un’occasione di confronto. Ti andrebbe di spiegarci questa scelta?
The Other: A Familiar Story si basa sulla storia vera di una donna della mia famiglia, costretta a sposare il marito che l’aveva violentata, per poi seguirlo negli Stati Uniti agli inizi del Novecento, lasciando i figli in Sicilia. È una storia di violenza di genere, di abuso, di patriarcato, ma anche di alienazione e invisibilità, condizioni comuni a chi emigra. Come dice la voce narrante all’inizio del video, “La voce che ascolti non è la mia, e la storia che racconto neanche, ma è molto vicina perché fatta dei ricordi di chi mi ha conosciuta e di chi ha sentito parlare di me”. Sono diverse, infatti, le voci delle donne della mia famiglia che mi hanno tramandato questa storia, così come possono essere tante le voci delle donne che hanno una storia simile da raccontare, perché l’hanno vissuta in prima persona. Il video è stato pensato e prodotto su due canali per ricreare una visione dualistica, incentrata sul concetto di Un-hemlich, il “Perturbante” che, secondo Freud, è la condizione in cui gli stati di estraniamento e familiarità coesistono. La mia protagonista non ha mai avuto il permesso di parlare, e quindi di essere ascoltata. Il lavoro si sviluppa molto attorno alla nozione di alienazione e invisibilità, condizioni tipiche di chi emigra, ma anche di chi è soggetto a violenza domestica. I manichini nella scena del pranzo sono i figli della protagonista. Hanno gli occhi coperti perché speravo non vedessero e assorbissero tutto quel male.
Nell'immaginario collettivo, la donna è più volte associata alla fragilità, al bisogno di protezione. Questo è un paradigma riconducibile alla narrazione bellica: il corpo femminile diventa lo spazio simbolico di una contrapposizione. Come pensi sia possibile rimettere in discussione le strutture discorsive e le abitudini che fanno ancora parte del nostro modo di pensare, vedere e agire?
Nella visione patriarcale, la donna deve essere fragile perché così l’uomo può imporre la sua forza e usare controllo su di lei. Ma il paradosso è che andrebbe protetta dagli uomini contro altri uomini, perché non vedo altri nemici. Il secondo sesso (1949) di Simone De Beauvoir, spiega come la donna, nella società patriarcale sia vista come “Altro” rispetto all’uomo, che è l’essere “Assoluto” e quindi autoritario e dominante. Questo pensiero attribuisce alla donna un ruolo minoritario che penso si possa reprimere solo attraverso il ribaltamento di questi concetti. L’uguaglianza dei sessi, l’indipendenza e quindi la libertà della donna devono diventare dei diritti reali.
L’iconografia sessuale svolge un ruolo fondamentale nella costruzione delle ideologie politiche. La personificazione femminile della nazione – spesso aggredita dallo straniero – è sicuramente una delle metafore in tal senso più utilizzate. Sara R. Farris ha parlato di "Femonazionalismo" per descrivere la strumentalizzazione delle rivendicazioni femministe da parte dell'estrema destra. Il principio dell'uguaglianza si ridurrebbe paradossalmente a uno scontro tra civiltà, assumendo tratti islamofobi e razzisti. Secondo te stiamo correndo questo rischio?
Certo, perché ricollegandomi a quanto detto in precedenza, è la questione egemonica a determinare la strumentalizzazione. A fare questi discorsi, sono sempre uomini bianchi che governano e che cercano costantemente di affermare la propria superiorità di genere e di razza. Hanno poco, quindi, a che vedere con il femminismo e l’uguaglianza di genere.
Il video è un mezzo costantemente presente nella tua produzione. I tuoi lavori, inoltre, sono accomunati da una durata per lo più contenuta. In tal senso, pensi che l’imponente minutaggio spesso raggiunto dalla video art vada a discapito della fruibilità delle opere stesse, rischiando di cadere nell’autoreferenzialità o, al contrario, credi possa essere un mezzo per contrastare l’abbassamento della nostra soglia di attenzione?
Non credo che la video arte debba avere un tempo preciso, penso però che il visitatore debba sentirsi libero di iniziare o lasciare il video quando vuole, per questo motivo faccio sempre molta attenzione a fare dei lavori che possono essere interrotti o ripresi in qualsiasi momento. Pur avendo un inizio e una fine, non mi aspetto che il fruitore guardi tutto il video.
Chi è l’altro per Maria D. Rapicavoli?
“Un soggetto si impone solo opponendosi. Un oggetto è ogni cosa che il soggetto percepisce come diversa da sé.” Inizio il video The Other: A Familiar Story con queste parole. L’altro, quindi, nel sentire comune, non è mai il soggetto. E il soggetto per esistere deve assicurarsi che ci sia sempre un altro a cui opporsi e su cui imporre la sua superiorità. L’altro è sempre in una posizione minoritaria. È il diverso, da punto di vista sessuale, razziale, sociale, economico, militare o politico. Nel mio immaginario, invece, vedo solamente soggetti, tutti diversi.
Surface Tension è la tua prima retrospettiva: le opere esposte ripercorrono all’incirca gli ultimi dieci della tua produzione. Come definiresti oggi i tuoi lavori?
Tornando alla prima domanda, e quindi al titolo della mostra, la tensione è la chiave d’unione di tutti i miei lavori. La tensione disturba, disorienta, irrita. E spesso porta in superficie conflitti molto più profondi. Il mio interesse consiste, da sempre, nel rendere visibili gli effetti di queste dinamiche – siano essere di natura politica o economica, di stati di violenza o di potere – partendo da situazioni locali per riflettere su contesti globali più ampi.