16 gennaio 1933 - 16 gennaio 2020 / Susan Sontag. La coscienza imbrigliata
5 maggio 1964: “La mano destra = la mano aggressiva, la mano che masturba. Perciò, preferire la mano sinistra!... Renderla romantica, sentimentale!”. Con questa frase si apre La coscienza imbrigliata al corpo. Diari e taccuini 1964-1980 di Susan Sontag, il secondo volume curato dal figlio David Rieff e tradotto ottimamente da Paolo Dilonardo, (Nottetempo, pp. 593), che renderà a breve in italiano le opere della autrice americana da Nottetempo. Il libro comprende gli anni centrali della sua attività di saggista e scrittrice, quelli più fervidi di idee e opere, ma anche quelli in cui si manifesta il tumore al seno. I diari sono una sorta di zibaldone, un palinsesto, un brogliaccio, in continuo bilico tra la sua vita privata e l’annotazione di pensieri, letture, film visti, incontri e frasi prese al volo, una scrittura tesa tra la riflessione di sé e gli appunti per saggi e articoli.
La mano destra è la mano sessuale, suggerisce Susan, aggressiva, mentre la sinistra è quella preferita, perché inattesa e mancina? Ma quale delle due vuole rendere romantica e sentimentale? La destra o la sinistra? L’esperienza amorosa e sentimentale occupava buona parte di Rinata (Nottetempo, qui la recensione) il primo volume di diari, ed è presente anche qui. Il secondo appunto di apertura riguarda infatti Irene, alias Marìa Irene Fornés, sua amante nel 1957 a Parigi, e poi compagna dal 1959 al 1963 a New York, così come numerose sono le riflessioni sull’amore per Carlotta Del Pezzo, che la conduce in Italia a Milano, con momenti di disperazione e di passione in un continuo alto e basso d’emozioni.
La bisessualità di Susan Sontag è un dato importante della sua esperienza personale, ma anche del suo modo di pensare, com’è evidente in Rinata dove scopre l’amore per le donne, e anche qui il tema ritorna, seppure con minore urgenza e rovelli. In La coscienza imbrigliata dal corpo due sono invece le figure maschili, cui si lega nel corso dei quindici anni di cui si occupa il diario, a dare un tono al suo pensiero: Jasper Johns, l’artista della Pop art, e poi Joseph Brodsky, il poeta russo espatriato in America, che, come scrive Rieff, sul letto di morte di Susan al Memorial Hospital ritorna nelle sue parole come il punto di riferimento: “il cuore di lui fu il suo tribunale”. Brodskij compare nelle pagine dedicate a Venezia negli anni Settanta, piene di amore per la bellezza sorprendente della città.
Il 1964, data con cui comincia il diario, è l’anno in cui esce quello che è il testo più emblematico di Susan, Note sul ‘Camp’, sicuramente quello che mette in luce l’aspetto centrale della sua personalità di cui troviamo tracce evidenti nel volume. Se c’è una parola che connota la personalità di Susan Sontag è sensibilità, ed è di sensibilità che s’occupa il saggio in forma di punti e annotazioni che lei dedica a questo particolare gusto, in cui sembrano eccellere, come scrive al temine del saggio uscito su “Partisan Rewiev” nell’autunno del 1964, ebrei e omosessuali: “Le forze trainanti la sensibilità moderna sono infatti il rigore ebraico e l’estetismo e l’ironia omosessuale”. Due gruppi umani cui anche Susan appartiene, seppure in modo altalenante e alterno, poiché non c’è nulla cui la caustica, intelligentissima e ironica scrittrice americana appartenga interamente, se non a se stessa, a un sé comunque diviso e conflittuale, come i due diari sinora apparsi mostrano. Ebrea lo è per nascita e appartenenza, lo è soprattutto per la sua ostinata “promozione del senso morale”, come scrive degli ebrei alla fine del saggio; omosessuale, invece, non lo è solo dal punto di vista sessuale, ma principalmente per la sua continua “promozione del senso estetico”, un senso mai conformista o omologante, e comunque sempre sovvertitore dei luoghi comuni intellettuali e di gusto.
Nel chiasmo tra questi due aspetti, moralità e estetica, si trova il centro del suo pensiero e anche della sua vita. Un centro che non è facile definire perché entrambi gli aspetti oscillano continuamente, così come fluttuano coscienza e corpo, i due termini che David Rieff ha voluto porre come titolo del volume traendoli da un passo del diario. Il Camp è dunque una sensibilità “inconfondibilmente moderna, una variante della sofisticazione, anche se difficilmente con essa si identifica”, scrive nelle prime righe del testo che la proietta sulla scena newyorkese e poi chiude il suo Contro l’interpretazione (1964 in edizione originale), libro fulminante dove sensibilità e sofisticazione si inseguono, s’elidono e celebrano il proprio singolo trionfo.
Tutto in Susan Sontag è sensibilità, a partire dall’elemento erotico di cui sono pervase queste pagine, in forma più serena e meditata rispetto al primo diario, quello della giovinezza, là dove il problema di Susan è la creazione del proprio self. In La coscienza imbrigliata nel corpo le riflessioni e le annotazioni mostrano come nel decennio tra il 1965 e il 1975 la sensibilità, elemento individuale, altamente soggettivo, per quando condiviso o condivisibile con altri, ovvero sociale, si trasforma in gusto: per le persone, per i sentimenti e soprattutto per l’intelligenza, forma di gusto anch’esso, di cui Susan pare altamente dotata. Coltiva l’ossessione dell’intelligenza, che vuol dire frequentare persone intelligenti e essere intelligente in quello che pensa e che scrive. Possiede quello che lei stessa, scrivendo del Camp, definisce “idee”, che altro non sono esse stesse che prodotto della sensibilità e del gusto. La coscienza, poi, è esattamente questo: gusto per le idee, volontà di avere idee, di saperle esprimere, che con lo stile, altra sua ossessione, è il problema che agita queste pagine. Scrive in Sullo stile, compreso in Contro l’interpreazione citando Cocteau: “Non è mai esistito uno stile decorativo. Lo stile è l’anima che, per nostra sfortuna, assume la forma del corpo”. Il suo corpo parla il linguaggio dell’emozione, del sentimento, del desiderio, così come la passione è ciò che alimenta le pagine del diario, una passione che si trasferisce via via dal corpo alla mente, alla coscienza, che non coincide certo con la mente medesima, ma è qualcosa di più. Per Susan la coscienza è infatti prima di tutto riflessione su di sé, è identità.
Pagina dopo pagina nel diario 1964-1980 prende forma la forma-Susan Sontag, di cui fornisce a se stessa fulminanti definizioni: “Ma ciò non significa che “io” lo “penso” “veramente”. Significa soltanto che è il mio-pensiero-quando-scrivo (o quando-parlo).
Se avessi scritto in un altro giorno, o avessi avuto un’altra conversazione, “io” avrei potuto “pensare” in modo diverso”. Tutto quello che pensa e scrive è legato alle situazioni che vive, ai momenti in cui l’ha detto o scritto. La sensibilità alimenta il gusto e lo definisce, come un carburante che alimenta un motore. Ha idee, precisa, perché non pretende di avere ragione; pensa e scrive “al fine di scoprire ciò che penso”. Questo è esattamente per lei un critico, dove l’elemento umorale si trasferisce nella sensibilità e questa si fa gusto sulla pagina.
Una delle cose che più la tormentano è il pensiero di non essere un genio come Wittgenstein, come Sartre, come Simone Weil. Arriva a scrivere che ha una buona mente, una mente potente, tuttavia non si reputa un genio. Non si chiede però se la sua sensibilità sia un limite o un ostacolo alla genialità. “La mia mente cartografa”, scrive, e del resto quel saggio che va scrivendo nel 1964, le Note sul ‘Camp’, è una magnifica cartina geografica della sensibilità contemporanea e di se stessa.
Susan non è tuttavia Camp, pur essendo ebrea e omosessuale – bisessuale bisognerebbe sempre dire – si distanza da tutto quello che cartografa e descrive. Lo dice dal di dentro, ma lei è anche al di fuori. Perché è intelligente, troppo intelligente. Del genio non possiede la stupidità – altro tema che l’affascina, e che tuttavia non riesce a comprendere proprio perché troppo intelligente. Sa che esiste la stupidità degli intelligenti, una delle cose più dannose, però Susan è intelligente-intelligente, non è mai sfiorata dalla stupidità, dallo stupore ebete della sorpresa: riconosce sempre quello che vede, gli trova un nome, una definizione, lo iscrive in una mappa. Non è stupita, se non forse in amore, nel sesso, ma il diario non arriva a descrivere questi aspetti se non per percorsi esterni, lambendo le zone di intimità, perché nella scrittura del sé – questo sono i taccuini: scrittura del self – è sempre presente a se stessa, anche se disperata. Scrive della disperazione, non la disperazione. Così possiamo dire che questi diari sono una scrittura di secondo livello, a causa della sua stessa sensibilità, del suo gusto e della sua intelligenza. Parlando di se stessa in rapporto alle donne che ha amato, arriva a scrivere, ad esempio di Irene e del rapporto con lei, che aveva “creduto che la mente servisse soltanto a vedere fuori di me!”.
Una parte importante dei taccuini è poi il confronto con la madre: “Ho paura di mia madre – paura della sua durezza, della sua freddezza (la rabbia fredda – il tintinnio della tazza di caffè”). E ancora: “Ero il polmone d’acciaio di mia madre. Ero la madre di mia madre”. Oppure: “Mia madre è ancora una ragazzina infelice. Io devo tirarla su”. Sono diverse le pagine nel 1967 in cui mette a fuoco il dramma del rapporto con lei. Rapporto passato, trascorso; il tenore delle frasi, il tipo di affermazioni, segnano comunque una distanza, che non significa un superamento del trauma provocato dal rapporto con la madre. L’ha segnata il rifiuto. Tuttavia qualcosa è stato elaborato. Dopo di allora non torneranno, almeno sino al 1980, altre considerazioni sul rapporto con la madre. Il tema della mancanza d’amore torna varie volte nei taccuini. “Io mi sento sempre felice dopo aver fatto l’amore” scrive a proposito di C. Di Carlotta del Pezzo. E subito aggiunge, “a meno che l’altra persona non mi piaccia veramente (in quel caso sono triste perché il sesso è un’imitazione dell’amore e ciò che desidero davvero, ciò che mi manca, è l’amore)”. Quello che desidera è sempre avere un corpo. Al termine dell’appunto su C. scrive: “Amo – almeno un po’ – chiunque mi tocchi. In quell’istante chiunque mi tocchi mi restituisce qualcosa: il mio corpo” (9/7/70).
Quel “qualcosa” è il fantasma che attraversa queste pagine e che si affianca e si oppone alla coscienza, all’intelligenza. Non si può certo dire che la sua sia una coscienza disincarnata, perché il corpo è sempre presente, e tuttavia è una coscienza sublimata. Il suo è il tentativo continuo di superare il limite, con l’intelligenza e possibilmente con il corpo, con entrambi.
Resta il problema della liberazione, su cui scrive alcune riflessioni. Quale liberazione? Se c’è una donna che sembra libera è proprio lei, Susan, eppure torna di continuo su questo. Perché? Perché Susan è complessa, perché si sente pesante e aspira alla leggerezza, che a tratti riesce a raggiungere: “Sono riuscita a ridere di me stessa, con tenerezza” (2/2/71). Capisce che una strada esiste. Forse il sacro “L’esperienza del sacro è l’opposto della alienazione”, scrive. Annota subito dopo: il sacro comporta “il rischio della morte, dell’annichilimento”. Sospetta che sia una “mistificazione”. Aggiunge: “(Una forma di universalismo più sofisticata che nega il conflitto di classe e la lotta concreta)”, un appunto dell’inizio degli anni Settanta segnato dalle sue scelte politiche e ideologiche.
Nella sua prefazione al volume David Rieff scrive che sua madre “fu una studentessa per tutta la vita”. Con questo intende indicare l’atteggiamento che Susan Sontag tenne nei confronti della cultura e del sapere, delle persone che sapevano, che amava frequentare, e anche nei confronti di quanto lei stessa andava scrivendo? Si tratta di una osservazione che coglie l’atteggiamento curioso, attento, vorace che provava verso tutto ciò che suscitava la sua attenzione. Vuol intendere che Susan non saliva in cattedra, anche se nel suo stile c’è una continua sprezzatura, una forma di sfida verso ciò che analizza o discute, insieme a un’assenza totale di boria o altezzosità, per quanto nei saggi il suo stile è quello dell’assalto. La parola studente nel suo etimo originario significherebbe: “colui che si agita”.
Susan Sontag è attraversata continuamente da un’agitazione, che però non è mai fretta, ma giovanile voglia di arrivare alla meta. Non impazienza, piuttosto energia dello slancio. Si tratta di una saggista che predilige e ama la forma breve, l’aforisma, l’espressione apodittica e incontrovertibile. Essere una studentessa vuol dire per lei proprio questo: giovinezza. Nelle righe finali della prefazione Rieff ricorda le tre caratteristiche di fondo della personalità di sua madre: l’infelicità amorosa, il grande senso di appagamento che le dava scrivere e la passione che l’animava quando non scriveva, e conclude il brano ribadendo l’immagine della “eterna studentessa”. Possiamo dire che in tutte e tre le espressioni, o forme di vita, negli stili che Susan Sontag ha scelto, restava viva un’agitazione che ritroviamo in questi diari e taccuini: inquietudine, eccitamento, a tratti malessere, e soprattutto una grande attesa per quello che potrà succedere, che può fare accadere, e anche no. Qualcosa accade sempre, e lei è lì pronta a coglierlo.
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