Dal trailer al film / Tarantino e la strategia dell’anti-spoiler

19 Settembre 2019

Attenzione: questo articolo contiene spoiler (ma non è importante). 

 

C'era una volta a... Hollywood è preceduto dalla sua stessa fama: il nono film di Quentin Tarantino, su Hollywood. Basterebbero già questi due elementi per sapere che ci troviamo di fronte a una situazione autoreferenziale, prima ancora che metacinematografica: Tarantino fa un film su sé stesso. Ciò crea la dovuta attesa – o, come si direbbe oggi, un hype.  

 

Poi però l'affare si complica. Durante la conferenza stampa del film al festival di Cannes, lo stesso regista prega i giornalisti di non svelare il finale del film. La richiesta, oltre ad amplificare genericamente l'attesa della sua uscita (e forse spingere qualcuno, in virtù dello stesso divieto, a cercar di capire cosa c'è sotto), concentra sul suo misterioso contenuto ogni genere di riflettore. Come se non bastasse, dalla dichiarazione di Tarantino prende avvio una serie di rimbalzi web a partire dall'incidente diplomatico causato da Wikipedia che, a detta di alcuni critici su Twitter, se da un lato rispetta le volontà del regista, dall'altro viola uno dei principi del suo stesso statuto (affermare il falso): nella sinossi non viene riportata la fine del film, ma al suo posto ne viene inserita un'altra, inventata.   

Ora, posto che il colpo di scena è espediente narrativo comune e l'obbligo di preservare il suo potere esplosivo ipoteticamente valido per ogni tipo di film, che cos'ha questo di particolare? Ma soprattutto, di quale trama stiamo parlando? E cosa voleva dire esattamente Tarantino? Il gioco è doppio, se non triplo. 

 

 

Andando a fondo alla questione di link in link sulla stampa internazionale, viene fuori che il film è ambientato alla fine degli anni Sessanta a Hollywood e potrebbe trattare della strage di Cielo Drive ad opera dei seguaci di Charles Manson, e che dunque il colpo di scena finale su cui è richiesto di tacere possa riguardare Sharon Tate, a cui il film decide di cambiare le sorti: invece di rimanerne vittima, si salva. Ma siamo sicuri che il film parlerà di Sharon Tate? A quel punto, il detective/spettatore potenziale intenzionato a capirci qualcosa di più, decide di guardare il trailer, che, come scopriremo, si rivelerà sorprendentemente veritiero e finanche profetico (“In questa città tutto può cambiare all’improvviso”). 

 

 

Il trailer lascia entrare Sharon Tate (Margot Robbie) solo in un secondo momento, dandole subito il ruolo marginale di colei che va a vivere accanto al protagonista (Rick Dalton/DiCaprio), e che al limite non paga al botteghino per vedere un film di cui ella stessa è protagonista. Del tutto specularmente ai vari discorsi che si spendono in rete, il trailer si mantiene sul vago, preparandoci piuttosto a un affresco sulla vita hollywoodiana su cui si staglia indiscutibilmente come protagonista la coppia DiCaprio-Pitt (rispettivamente un attore e il suo stuntman), che, come tutti gli affreschi, non sembra avere una vera e propria trama, se non a mo' di mera scusa per la narrazione (Ave, Cesare!, dei fratelli Coen, presentava la stessa impalcatura narrativa e forse non è un caso che parlasse anch'esso di Hollywood). Anzi, se proprio dovessimo dire che cosa ci aspettiamo di vedere nel film, stando al trailer, diremmo: l'aria che tira a Hollywood, gli alti e bassi della fortuna attoriale, nello specifico legata al mercato dei western. Da lì sembrava ovvio insomma che il film non intendesse andare nella direzione “Sharon Tate”. E così sarà. Ma se il film non ha mai voluto parlare dei giorni della morte di Sharon Tate, cosa ne è del discorso “Sharon Tate”, e del segreto sul suo finale? È vero, non ha mai inteso parlare di quello, ma lo ha fatto ampiamente credere, prendendone a prestito solo la parte precedente, e cioè l'ipotetica tensione, ricostruita artificialmente al cinema, che ha pervaso inconsapevolmente quegli stessi giorni. 

 

Dal momento che il registro è ambiguo (mezzo ispirato alla realtà, mezzo no), distinguere il vero dal falso è compito arduo, e tuttavia l'auto-spoiler che il dato storico per sua natura inevitabilmente contiene ha fatto la sua parte... se solo non fosse stato contraddetto. Se per età, curiosità scatenata dal divieto espresso in conferenza stampa, cinefilia, o anche solo fanatismo nei riguardi di Charles Manson, si è a conoscenza del fatto che Sharon Tate è stata quella giovane e promettente attrice, nonché bella e infinitamente dolce moglie di Roman Polanski, che fu trucidata, incinta, nella sua villa di Hollywood durante un party, una calda sera d'agosto del 1969, quello che ci si aspetta al termine del film è esattamente questo, anche restando all'oscuro di trame e polemiche dell'online. Soprattutto quando siamo in presenza di quello che è a tutti gli effetti un apparente countdown inverso nei sottotitoli, a scandire il procedere temporale dei fatti. 

 

 

Ed eccoci: a conferma di ogni sospetto, a film avviato, vediamo comparire Sharon Tate e Roman Polanski che arrivano in cabriolet nella loro villa di Cielo Drive, sotto gli occhi increduli del vicino di casa Rick Dalton. A condire il tutto, l'andamento scanzonato di una Los Angeles molto prossima Messico, quel ritmo sonnolento, da serie tv che avrà il tempo che desidera per sviluppare la vicenda, che se può funzionare nella realtà diventa sospetto nel film; un'atmosfera rilassata ma tesa a interrompere la quale, bene che vada, presto o tardi scoppierà una bomba, di quelle che non ti scordi; insomma, una calma piatta come se dovesse succedere qualcosa da un momento all'altro. O anche niente. Il tempo semplicemente trascorre, come potrebbe farlo l'estate: fa caldo, c'è il sole, Cliff Booth (Pitt) aggiusta un'antenna sul tetto, mentre strappa una lattina di birra. Un clima di festa: quale occasione migliore per lasciare che lo sguardo dello spettatore si posi sul primo piano candido, raggiante, ignaro di una virginale Sharon Tate, con quegli occhioni blu, la minigonna bianca, gli occhiali da sole e le labbra innocentemente turgide di giovinezza, su cui leggere il destino della morte: povera ragazza, non sa ancora quale tragica fine la attende! Di nuovo quelle date precise che compaiono sotto, che confermano ancora una volta una deadline alla quale si deve giungere, sensazione amplificata quando si sa per certo che un eccidio è alle porte. Ne sei sicuro, e poi invece quando meno te lo aspetti scoppi in una grande risata liberatoria. 

 

 

Il fatto è che non solo Sharon Tate non muore, quanto che il cuore del film risiedeva da un'altra parte e più nello specifico a lato: letteralmente dai vicini di casa, Rick e Cliff, quella sera completamente ubriachi. È lì che scoppia la bomba; sono loro che si fanno carico, non solo del vero nucleo narrativo del film, quanto anche dei potenziali assassini della Tate, finendo per giunta per farli fuori, in un divertentissimo duello finale, cane compreso. Regola numero due: se in un film vedi un pitbull, sai che prima o poi quel pitbull finirà per azzannare. A rimetterci la pelle è un gruppetto sprovveduto e impaurito di hippie, precedentemente incontrato da Pitt: “Io ti conosco... tu sei...”, “Io sono il diavolo e sarò il tuo giustiziere.”. “No”, gli dice Cliff, “No, era un nome un po' più idiota di così, tipo Tex”, e fa cenno al suo cagnone di attaccare. Questo, né più e né meno, vuol dire che ciò su cui si è puntata tutta l'attenzione svanisce nel nulla, ma non prima di essere stato, come spesso accade, la motivazione su cui si è retta tutta la narrazione. Lo slittamento è pari a un'inversione figura e sfondo: Sharon Tate lascia il posto a Hollywood, nella personificazione della coppia DiCaprio-Pitt, scivolando verso il background. 

 

Stando a quanto detto, il film avrebbe anche potuto essere ambientato, ad esempio, nei giorni nostri? Dipende. Viene il sospetto che il fatto di cronaca nera legata al feroce assassinio di Sharon Tate ad opera di Charles Manson, venga usato proprio come esca di coinvolgimento per lo spettatore, per avere una motivazione facile su cui creare la tensione (la morte che incombe sulla narrazione), finendo per diventare il tassello chiave per un'indimenticata prova di virtuosismo. Alcuni hanno visto proprio nella scelta del finale diverso l'esigenza di andare verso un happy ending, favola fin dal titolo. In realtà il film sembrerebbe tutt'altro che un if movie: If once upon a time in Hollywood, come sarebbero andare le cose se...? Prima del gioco del “se fosse” è senz'altro un: "guarda come sono bravo a costruire la tensione protraendola fino al climax per poi lasciare che lo spettatore si distenda in una grassa risata catartica" (l'effetto comico scaturisce non tanto dalla scena che realmente vediamo, quanto dall'apprezzamento dello scarto rispetto a quello che si si sarebbe aspettato: al suo posto una soluzione pacchiana, e completamente ridicola). 

 

 

Cosa sarebbe cambiato allora a conoscere o meno il finale del film? Che, ad esempio, conoscendolo (come nel caso di chi scrive) ci si è potuti concentrare ancora meglio e in tempo reale, sulla maestria della costruzione della tensione, ancora più efficace in vista della beffa finale. Si diceva, Tarantino fa un film su sé stesso. E sicuramente la vocazione è rispettata nel momento in cui ci accorgiamo che l'obiettivo del film è un puro risucchiare lo spettatore dentro le maglie della costruzione narrativa, fare un film a sua immagine e somiglianza svelando gusti e disgusti su cinema e altro (il western all'italiana, la cultura hippie, il cinema di Polanski). Dire che c'è di diverso che Sharon Tate non muore è certamente riduttivo, almeno quanto intendere il finale alternativo come una messa in salvo dell'attrice in omaggio a Polanski non sia quasi macabro, patetico e finanche doloroso per i restanti in vita.  Anzi, è stato forse, secondo quest'analisi, pure un po' opportunistico. Ma a fin di bene. A conti fatti, nonostante Tarantino abbia voluto beffarsi del meccanismo cinematografico dello spoiler con quello che è a tutti gli effetti un l'anti-colpo di scena, che Sharon Tate non muoia è del tutto irrilevante; così come saperlo o meno. L'importante è che Rick Dalton si riprenda dalla sua crisi passeggera, perché è un personaggio a cui vogliamo bene. Così come – o forse di più – al suo amico Cliff, perché è più povero, ha sviluppato delle tecniche di sopravvivenza migliori, è più coraggioso, più ribelle, e anche – le donne a cui Brad Pitt non è mai piaciuto, quelle un po' particolari, le più snob, le più scettiche di tutte, dovranno ricredersi – più bello. La coppia è riuscita, e anche il film: questo è ciò che rimane.

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