Speciale
Tavoli | Gustavo Pietropolli Charmet
La fitta rete di strumenti di ultima generazione a occupare soltanto una metà del tavolo, attraversata dalla linea di cavi che li connette l’uno all’altro, senza intrecci né nodi né brusche deviazioni. A rispondere, dall’altro lato, senza cesura alcuna, come graduale metamorfosi, fogli accanto ad altri fogli, una calligrafia ordinata, un raccoglitore di carte. Un’agenda piccola, da viaggio, in braccio a una più grande, stanziale. E appunti, disordinati quel tanto che basta perché emerga la differenza tra loro e il quaderno di bella copia che li raccoglie.
Le vecchie edizioni di libri sull’adolescenza, senza rispetto della partizione, a farsi testimone, passaggio.
Scotch, graffette, penne nel portapenne e un cd che pare una bobina. Un contenitore rigido che si finge astuccio e astuccio non è, a mostrare il contenuto come una fotografia a favore di sguardo. E un timbro. Gli occhiali con la montatura spessa, d’un colore tra il miele e l’ambra. Ed altri, a lato, nel raccoglitore: un paio con lenti più scure, probabilmente graduati allo stesso modo; e un altro modello ancora, più vecchi, quelli di riserva che si indossano talvolta in casa e raccontano di un’intimità.
Vi è un ordine. Ma è un ordine disordinato dall’uso e che conserva i segni di una cura, dell’eleganza della carta intestata di rosso e nero; e una precisione quasi maniacale, che abita almeno le intenzioni, o il tempo prima che il tempo intervenga: gli auricolari nella loro scatoletta e i cavi avvolti a testimoniarlo.
Ma più di tutto il tavolo di Pietropolli Charmet dice che c’è la vita e il suo intervento a complicare l’intreccio. La bellezza è pretesto e valore d’uso. Il passaporto a portata di mano, i tanti progetti, sovrapposizioni quotidiane: fogli sopra fogli e la bottiglietta di acqua sul basamento della lampada.
Gli occhiali tolti con un gesto, abbandonati nella fretta. La penna appoggiata sui fogli, la sedia indietro.
Si è andati, via.