Tunisia: l’onore dei soldi
Ti svegli una mattina a Milano, sali sulla moto, vai a Genova, imbarchi la moto, ventiquattro ore di nave e sei a Tunisi. L’odore è il solito dei paesi arabi, la luce bianca riflessa sull’asfalto. Poi nove ore di viaggio, un giorno, e sei nel deserto, a sud, alle porte del mare di sabbia. Nove milioni di metri quadri di niente e al massimo, qui e lì, qualche pozza d’acqua che chiamiamo oasi, usando un eufemismo.
Una di queste si chiama Tozeur, una cittadina vecchia di migliaia di anni, poco più di uno sbuffo di case intorno a una selva di palme, alle porte di un interminabile Sahara, in mezzo a un niente sordo e a un caldo senza appello. Ci coltivavano i datteri, da millenni, inseminando le palme a mano, maschio-femmina, dato che di api (sagge) da quelle parti non c’è traccia. Ora fanno i soldi con i turisti. O meglio, li facevano, prima che la rivoluzione araba riducesse il turismo al lumicino di qualche incosciente (il sottoscritto), e le città a un conglomerato di alberghi abbandonati, con finestre appese ai cardini come panni alle mollette.
E così Tozeur adesso è poco più di due strade che inanellano ruderi di alberghi con nomi presuntuosi, bar fumosi, e 4x4 fermi da mesi. Qui e lì, come sopravvissuti, resort fuori scala, palazzoni di sei piani, centinaia di camere, alberghi, parcheggi, e più personale che persone. Finisce che dormi lì, un po’ per disperazione, un po’ per salvezza.
Poi ti svegli la mattina e, chiacchierando con le persone che incontri, scopri che in Tunisia tutte le città hanno un quartiere di albergoni. C’è la città antica abbandonata, la cittadina anni '70/80 dove vivono tutti, e accanto la città turistica. Tre blocchi urbanistici. Il tutto è nato un po’ per necessità, un po’ per mancanza di soldi: portare l’acqua e le fogne fino ai borghi abbarbicati sulle montagne era un lusso, molto più semplice costruire case moderne un pelo più giù, a valle. E così le città hanno oggi un cuore morto, e un pelo più giù, al fianco di villaggi anni ‘70, un quartiere touristique. Albergoni mezzi vuoti, per lo più figli di investimenti stranieri, con buona pace del governo: quello in cui dormivo io, per la precisione, era russo.
Mi rimetto in viaggio, e dopo qualche giorno mi ritrovo nella famosa Matmata. Niente albergoni, niente oasi, niente tripartizione. Mi fermo ad un bar al centro del paese e per la prima volta mi serve una ragazza. Poco dopo arriva un signore sulla cinquantina, pelle secca e liscia, occhi verdi (berbero) e capelli bianchi. Mi spiega che anche a Matmata hanno dovuto lasciare le vecchie abitazioni (per mancanza di elettricità e acqua), ma che le famiglie hanno costruito le nuove case vicino alle vecchie. E ognuno usa entrambe. D’estate, quando fa caldo, le vecchie sono fresche. La ragazza che avevo visto è sua figlia, studia chimica a Gabes; mi dice in un italiano perfetto che secondo lui le donne devono studiare e lavorare. “E questo è importante”.
Poi il signore mi racconta che una volta aveva un piccolo bar, e adesso è il proprietario dei due ristoranti al centro del paese, della farmacia, e del minimarket. Capisco che Abdul è il piccolo re del paese e lo prendo in giro: “sei ricco”. Lui mi risponde che dà lavoro a venti famiglie e che quelle famiglie non lasceranno Matmata. “E questo è importante”. Aggiunge, con voce ferma.
Abdul è del posto, e le sue attività sono del suo paese; ha quasi sessanta anni, mi dice, e quando morirà non avrà più un ristorante, ma Matmata si. E questo, dice sorridendo negli occhi verdi, è importante.