Vecchi cani

3 Aprile 2013

I vecchi cani acquistano nello sguardo quanto perdono nel movimento. E’ uno sguardo capace di molte variazioni, che sa esprimere sentimenti e volontà diversi, che sa richiedere, che sa aspettare. Si direbbe uno sguardo con esperienza delle cose e soprattutto degli uomini. I vecchi cani ci conoscono bene, sanno tanto delle nostre abitudini, delle nostre manie, delle nostre paure. Non bisognerebbe mai dimenticarlo, i cani ci hanno visto come nessun altro. E, nonostante gli occhi velati, continuano a guardarci, anche quando siamo noi a non farlo più perché ormai abituati alla loro presenza, o, perché, soprattutto quando il cane non è il nostro, se è vecchio è spesso anche brutto. La raccolta di disegni di Giovanna Durì (“Vecchi cani”, edizioni Nuages) funziona come un richiamo all’attenzione. Leggere lo sguardo di quei cani – quasi tutti piccoli, zampe corte, un orecchio su e l’altro giù, movimenti rallentati, pedigree nullo, cani marginali, cani da canile – significa per l’osservatore trovare e ritrovare.

         

          

Trovare sensi, malinconie, domande, intese, fuggevoli felicità. E ritrovare altri sguardi, compresi quelli umani, probabilmente perduti per sempre. Come testimonia la letteratura, non c’è niente di più coinvolgente (fraterno, disse Saba) dello sguardo del cane, che, contemporaneamente, è una porta aperta verso l’umano e un valico verso qualcosa – l’abisso? – che sta oltre i nostri confini. Lo sguardo crea sintonia e la interrompe, è lo schermo su cui proiettiamo i nostri sentimenti e le nostre emozioni, ed è anche lo specchio opaco che ci rimanda solo in parte quello che gli abbiamo inviato. O, meglio, ce lo restituisce complicato da quel sovrappiù che il cane ci mette, aggiungendo (incredibilmente, ma è così) umanità alla nostra vita e imponendoci di riflettere attorno a qualcosa che solo il cane sembra vedere.

 

D’altra parte l’atto del guardare è biunivoco. Il cane non è un oggetto a cui dedicare intermittenti ricognizioni. Se tollera la nostra indifferenza però aspira ad essere guardato, sinceramente, senza barriere o intellettualismi. Disegnare vecchi cani vuol allora dire concedere loro quanto più desiderano. Significa rimetterli al centro, restituendogli una giovanile grazia. “A “loro” basta sapere che il padrone li ama ed è tutto uguale a sempre”, scrive Durì. Il disegno è un atto d’amore, è un ritornare verso, un riaprirsi a, tanto più inaspettato quanto più proviene da chi è abitualmente distante. Nessuno dei cani ritratti, infatti, appartiene all’autrice. Tutti sono cani incrociati per caso in strada, al parco, al mercato, al canile. Cani che – insieme ai loro padroni – sembrano aver accettato l’idea di essere ignorati, o, addirittura, hanno assunto una postura di tre quarti perché sono “pronti a schivare uno sguardo disgustato”. L’attenzione di Durì li trasforma. Sono ancora gli occhi a renderlo evidente. In loro si scorge mesta gratitudine (Tina, Camilla, Rocco, Gulasch), malinconica sorpresa (Primo, Sam, Furio), dolente meraviglia (Cani di canile, Napoli), ironica intesa (Cani di Napoli, Cane Mucca), infantile innocenza (Piri). Si ha l’impressione che tutti abbiano avuto la certezza di essere guardati, ed è come se – in qualche maniera – si siano messi in posa cercando gli occhi dell’interlocutrice. Chi, all’opposto, ha sentito di non essere il principale destinatario dello sguardo, rapidamente le ha volto deluso le spalle (Cani che non ti guardano).

      

    

Ma c’è di più. I disegni di Durì ci permettono di capire che l’assenza di contatto visivo è spesso figura (preludio quasi) della morte. Lo fanno intuire due disegni tratti da foto e, almeno in parte, dal ricordo. Nel primo c’è Ringhio. Ha una zampa sotto il mento e lo sguardo perso in una muta e interrogativa contemplazione. Sembra attendere, pazientemente. Nel secondo è raffigurata Cleo, che dorme, raggomitolata su se stessa. E’ vecchia e il suo, scrive l’autrice, è “un sonno contratto, di difesa, vicino al grande sonno”.

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