Aldo Zargani, Certe promesse d'amore
Certe promesse d’amore, dello scrittore torinese Aldo Zargani (1933-2020), è un incantevole viaggio nella memoria e nella speranza che anima l’Italia del dopoguerra. In esso, l’autore di Per violino solo riavvolge il filo della sua adolescenza per raccontarne i brividi, i sogni e le sconfitte. Protagonisti, il giovane Aldo e Dlilah, in ebraico Dalila come la Dalila di Sansone, la “flessuosa fanciulla di Trieste, pallida e magra” con cui nel giro di poche estati condivide discussioni, bagni di mare, baci e passeggiate. È il primo amore, dove la scoperta dell’altro è anche il primo affaccio all’età adulta e al mondo delle idee: un assaggio di futuro, una vertigine di possibilità. E in quella stagione irrepetibile il filo del privato s’intreccia al tessuto vivo della Storia mentre il ragazzo Aldo getta i semi di una riflessione destinata ad accompagnarlo per il resto dei suoi giorni.
Pubblicato nel 1997 dal Mulino e da poco tornato in libreria con Bibliotheka Edizioni in una riedizione curata dalla moglie Elena Magoia e dalla figlia Lina, Certe promesse d’amore (160 pp.) è il secondo libro di Zargani e l’ideale seguito di Per violino solo: La mia infanzia nell’Aldiqua (1938-1945) che, dopo una carriera in Rai, a 64 anni era stata il suo fulminante debutto. In quel libro, forse il suo capolavoro, Zargani ricreava il periodo della seconda guerra mondiale e le persecuzioni antisemite. Qui completa il racconto soffermandosi su un capitolo meno noto che rappresenta però uno snodo centrale negli anni della ricostruzione e nel ritorno alla vita dell’ebraismo europeo dopo la Shoah.
Certe promesse d’amore si apre a bordo di un treno. È il 1953 e un giovanissimo Aldo è in viaggio verso Trieste. Sono gli anni in cui la città è Territorio libero e sotto il Governo militare alleato vive una temporanea rinascita. Ai suoi occhi è al tempo stesso un’irrestistibile anticipazione delle megalopoli d’Occidente e il simbolo di un’Europa ormai tramontata, “un posto mai visto che sembra l’estremo del mondo, ma è invece l’inizio di una vastità dimenticata che fu un tempo il punto finale dell’Impero dell’Est che ora non c’è più”. Più della politica e della storia, a occupare l’anima di Aldo in quel viaggio è però la fine dell’amore in cui ha riversato tutto se stesso. E in quella disperata corsa verso Trieste, il ricordo gioioso della prima volta in cui ha percorso quel tragitto si colora dello stordimento di un dolore fino allora sconosciuto e la trama del ricordo si ricompone in una narrazione poetica e appassionante.
Aldo e Dlilah si sono incontrati a un seminario socialista sionista e presto “il lavoro agricolo socialista e l’ebraismo laico, dopo la fine della prima liceo classico, si erano fusi assieme nel torrente di certe promesse d’amore”. Lei lo invita a Trieste, a passare qualche giorno al mare e lui accetta con entusiasmo: “Ci saremmo rivisti più volte, io e lei, prima della scuola, era certo”. Quella che segue è la cronaca di un amore che si dipana fra due estremi. Da un lato, l’appartamento in un buio palazzo nel quartiere edificato dall’imperatrice Maria Teresa, dove solo una porticina invisibile separa la vita di famiglia dall’ambulatorio del padre di Dlilah, Giula Szécheny, medico ungherese e triestino d’adozione. Dall’altro, lo stabilimento balneare di Punta Olmi dove “effimere piattaforme di legno e cabine alla Carrà su palafitte di enormi tronchi saldi sott’acqua” si allungano sull’acqua. Il contrasto fra le regole di casa Szécheny, dominata dalla personalità strabordante del padre-patriarca, e l’apertura luminosa e inebriante del mare e del sole è abbagliante. Sono le due anime di Trieste – le suggestioni della cultura europea e il culto della libertà, del mare e del corpo. E sono le due facce del sentimento che lega i due adolescenti ebrei.
L’amore di Dlilah e Aldo ha una timidezza d’altri tempi e lo slancio della ribellione storica. Nell’intimità precaria della cabina a Punta Olmi, sperimentano “il nostro eros, quello nuovo del pionierismo. Vedevamo con disprezzo il tetro moralismo degli antenati: amore e fedeltà erano forze potenti nella costruzione del nuovo mondo che ci spettava”. In questa saldatura fra privato e slancio ideale, il lavoro di Zargani illumina uno snodo cruciale per l’ebraismo europeo, soprattutto per i più giovani, nella ripartenza post-bellica. La Shoah ha devastato le loro famiglie e le loro comunità ma Aldo e Dlilah si sentono parte di una nuova generazione: guardano al futuro e ha il volto di Israele.
Il mondo ha la memoria corta e oggi che l’antisionismo è diventato uno slogan di moda è facile dimenticare cos’ha significato, dopo la tragedia delle persecuzioni nazifasciste, la nascita di uno Stato ebraico. “Quando, nel 1948, l’anno prima, era scoppiata la Guerra d’Indipendenza d’Israele, l’esercito, che rifornivamo a più non posso di sospiri di speranza, si chiamava ‘autodifesa’. Haganah. Un vertice ideale per chi come me, a quindici anni, pensava che i propri genitori, e con loro le innumerevoli generazioni che li avevano preceduti, non fossero stati capaci di autodifendersi”.
Aldo e Dlilah non si limitano a sognare. Frequentano seminari, congressi, raduni: studiano sionismo, ebraismo, marxismo. Aldo è affascinato dalla teoria delle piramidi rovesciate di Ber Borochov, in base a cui il popolo ebraico ha una struttura inversa a quella degli altri popoli: la punta è fatta da pochissimi operai e contadini e la base vacillante lassù nel cielo fra le nuvole è l’immensa borghesia, mercantile, industriale, professionale ma soprattutto stracciona”. La soluzione al “problema ebraico” è semplice e intuitiva: basta rovesciare la piramide sbagliata e costruire un popolo diverso.
Il dopoguerra è un “supermercato delle utopie”, osserva Zargani con disincanto. E Aldo e Dlilah hanno scelto la loro. “Era sufficiente ‘tornare’ in Israele, lavorare la terra, ‘tornare’ operai, divenir collettivisti, e non solo sarebbe stata esorcizzata la Shoah ma sarebbero spariti per sempre i lividi e i tagli delle anime che invecchiano come succedeva ai nostri poveri genitori, Dorian Gray senza ritratto”. Come tanti giovani ebrei italiani, Aldo fa parte del movimento giovanile dei pionieri. Il suo racconto del campeggio in una fattoria in Toscana, dove si tiene la Colonia collettiva ebraica di rieducazione agricola, è memorabile.
Fra l’incredulità dei paesani, quel gruppo di ragazzi di città con le divise cachi e i cappelloni (le ragazze in scandalosi pantaloncini corti) lavora al rincalzo delle viti, cura le mucche, i campi: “Era un punto d’onore insegnarci il lavoro fisico che redime, la nuova preghiera laica del giudaismo”. A sera, stanchi e indolenziti, quei “miti profeti di un mondo migliore che non sarebbe mai arrivato”, leggono i giornali e discutono del kibbutz, il luogo sognato della vita futura: una società senza denaro e senza gerarchie.
Per i giovani scampati agli anni delle persecuzioni razziste, è il sogno di farsi protagonisti della propria Storia – per la prima volta artefici del proprio destino. Per i più anziani è uno strappo al cuore e al retaggio della tradizione. In queste pagine, gli ideali di Aldo e Dlilah trovano il loro contrappunto nella figura straordinaria del padre Giula. Estroso e colto, collerico e fanatico, il dottor Szécheny regna come un despota sulla sua piccola famiglia alternando, a seconda degli umori, ungherese, tedesco e un italiano che spesso scivola nella cantilena del dialetto triestino. Zargani ricostruisce con gusto quell’altalena linguistica che ancora oggi accomuna tante famiglie ebraiche, le puntate alla Sinagoga ortodossa di via del Monte, l’erta cantata da Umberto Saba, la bellezza del Sabato in casa Szécheny.
Giula è un ebreo ortodosso, è antisionista (come del resto il padre di Aldo) e non ne fa mistero. “Sì, in Italia i pochi sognatori come noi bambini del quarantacinque erano considerati insolenti bolscevichi da qualcuno, ignorati dai più e temuti dai genitori che tremavano al pensiero di vederci persi nei deserti d’Oriente anziché nei corridoi delle Università. Eravamo una piccola minoranza perseguitata, all’interno di una piccola minoranza disprezzata, confortati in questa non invidiabile condizione da certezze assolute, destinate a dissolversi prima che divenissimo adulti e ci mancava poco”.
L’ingresso nella vita adulta arriverà per entrambi i ragazzi fin troppo presto. E mentre Dlilah sfuma nella nebbia dorata del ricordo, Aldo si troverà a fare i conti con un progressivo distacco dagli ideali che hanno segnato la sua adolescenza e che in queste pagine si rivelano in tutto il loro carico di energie e speranze.
Certe promesse d’amore torna al lettore in una nuova edizione che è a sua volta una promessa. Pubblicato nel 1997, il libro era caduto nel disinteresse malgrado il notevole successo di Per violino solo, uscito due anni prima. Aldo Zargani e la moglie Elena Magoia, affermata attrice e doppiatrice da poco scomparsa, però non si rassegnano e nel 2020, mentre la pandemia infuria, decidono di rivederlo. “Valeva la pena tentare di far emergere questo delizioso racconto di un’adolescenza infettata sì da un’infanzia troppo adulta, ma anche e perciò ricca di interessi, di impegno, di amore, di illusioni destinate a infrangersi contro la realtà”, scrive Elena Magoia nell’introduzione. Quando Aldo muore la notte del 19 ottobre, lei, ormai quasi cieca, decide di portare a termine il lavoro. È il suo tributo al compagno di una vita, un’ultima promessa d’amore.
Sembra un’impresa impossibile ma, scrive la figlia Lina nella postfazione, “Mia madre, la titanica se pur minuta metà della mela rimasta in rappresentanza, aveva le idee chiarissime su cosa potare e dove fare gli innesti, quasi tutte sacrosante: quel libro, anzi, tutti i libri, li scrivevano insieme: lui dalla sua James Longue Chair metteva in scena la dettatura, seguendo sul tablet quello che lei scriveva al computer, e i due alternavano liti furibonde a scrosci di risate, quanto si sono divertiti! Mia madre sapeva, per consonanza e per conoscenza, quali fossero le intenzioni di papà e le aveva sapute realizzare con sapiente rispetto, altroché”. Il risultato sono queste pagine poetiche, anche se a tratti diseguali, dove, come nota Luigi Grazioli, “se il discorso è non di rado scanzonato e amabilmente irriverente, è però anche pervaso da una partecipazione insieme dolente e disincantata e da una costante attenzione al dettaglio umano”. E fino all’ultimo Zargani si conferma uomo e scrittore capace di interrogarsi con lucida curiosità sull’amore, il mondo e il destino delle idee.
In copertina: Aldo Zargani ritratto da Dino Ignani.
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