Speciale
Kamala vola sull’onda del pop
È l’estate della luna di miele. Sorretta dal sollievo che ha salutato l’uscita di scena di Biden, Kamala vola nei cuori e prende quota nei sondaggi. La prima donna di colore candidata alla presidenza degli Stati Uniti. La vicepresidente impopolare che ha rianimato in extremis la speranza democratica. La nuova regina della pop culture. Raggiante, sicura, spiritosa. Piaccia o no, è una boccata d’ossigeno – così imprevedibile da mandare in confusione la campagna di Trump. È successo così in fretta da far girare la testa. Un mese. Tanto è passato dall’addio di Biden e l’ingresso in scena di Harris. L’imprimatur del partito è arrivato a tempi record da una votazione virtuale e la Convention democratica che apre a Chicago il 19 agosto sarà un’incoronazione più che un confronto.
È il ritmo isterico dei social e la risposta non si è fatta attendere. Emoji, meme e Gif ispirati a Harris hanno inondato internet. Celebrities del calibro di Beyoncé, Meghan Thee Stallion e Ariana Grande hanno dichiarato il loro sostegno; Shepard Fairey, a cui si deve il celebre manifesto HOPE con Obama, le ha dedicato un ritratto azzurro-blu intitolato FORWARD, stilisti di grido hanno firmato felpe, borse, cappellini destinati a finanziare la campagna.
Il tocco decisivo si deve però alla cantante hyperpop inglese Charlie XCX. “Kamala IS brat” ha proclamato e la definizione ha fatto il giro del mondo. In inglese Brat, titolo del suo ultimo album, sono i bambini che fanno i capricci – marmocchi, mocciosi, fastidiosi. Brat, ha spiegato l’artista, è “quella ragazza un po’ disordinata, che ama divertirsi e che a volte dice cose stupide. Una che si sente bene con se stessa ma può avere un crollo. Però passa facendo festa”. Come si applichi alla candidata presidente degli Stati Uniti, una signora di 59 anni con le perle e la messinpiega già procuratore generale della California, non è chiaro ma non c’entra.
Oggi la politica si fa e disfa così, come conferma un nuovo studio di Harvard. I giovani si fidano poco dei leader, delle istituzioni e dei media tradizionali. Le celebrities sono invece uno strumento prezioso di impegno e mobilitazione civica. Nel 2018 un semplice post di Taylor Swift ha prodotto in tre giorni 250 mila registrazioni al voto e un analogo post di Kylie Jenner ha mandato in tilt il sito a cui faceva riferimento (negli Stati Uniti per votare bisogna iscriversi all’apposito registro). Quanto a Charlie XCX, il messaggio ha totalizzato 54 milioni e mezzo di visualizzazioni e milioni di rielaborazioni solo nei primi giorni. E mentre gli opinionisti disquisiscono sull’attitudine e l’estetica della Brat Summer, le donazioni piovono e l’entusiasmo cresce fra i più giovani che Biden si era perso per strada.
Su un terreno più concreto, il programma di Harris resta da scoprire anche se in vista della convention ogni giorno aggiunge un dettaglio. È entrata in gioco in finale di partita, evitando il tour de force delle primarie che nelle presidenziali 2020 l’avevano vista ritirarsi dopo pochi mesi ma più della politica adesso contano gli umori, il vibe, l’energia. È la stagione dei sorrisi, dei colori e dello storytelling. Il momento magico in cui il mito nascente prende forma e si assesta nel racconto collettivo. L’ottimismo di Kamala contro gli umori neri di Trump. Il sogno dell’America e le sue possibilità contro le visioni apocalittiche. La voglia di futuro contro il ritorno al Medio Evo. Una donna per i diritti delle donne.
Per tornare con i piedi per terra basterà aspettare il primo dibattito fra Harris e Trump. Intanto, una fetta d’America ha voglia di sognare e i media tirano la volata a Harris in quella che Tony Fabrizio, responsabile dei sondaggi per Trump, ha definito la più grande campagna promozionale a costo zero mai vista. A conferma, Time ha dedicato a Harris la copertina, un altro ritratto lusinghiero, questa volta in bianco nero, con tanto di sostenitori che reggono cartelli con il suo nome. All’interno, la giornalista Charlotte Alter paragona l’ultimo rally di Harris a Philadelphia a un concerto di Taylor Swift e Beyoncé: musica, applausi, braccialetti luminosi. Poi, l’interrogativo più urgente: ce la farà quest’ondata a tradursi in un’efficace campagna elettorale?
Il vantaggio di Kamala è che non ha bisogno di presentazioni. Naviga la scena politica da trent’anni, è stata procuratore della California, senatrice degli Stati Uniti e infine vicepresidente. Se n’è già detto e scritto tutto e a raccontarsi è stata lei stessa nel memoir Le nostre verità (384 pp, trad. Giovanni Agnoloni) pubblicato in italiano da La nave di Teseo nel 2021. Sono le pagine che consacrano la versione ripresa, parafrasata e trascritta all’infinito. L’infanzia sulla linea di confine fra Oakland e Berkeley, a mezz’ora da San Francisco; i genitori attivisti civili, l’amata madre Shyamala Gopalan, ricercatrice sul cancro immigrata dall’India e il padre Donald economista giamaicano. La comunità nera che fin dal suo arrivo accoglie Syhamala e diventa “il fondamento della sua nuova vita americana”. L’autobus che, in un esperimento nazionale di desegregazione, porta Kamala a scuola in un quartiere a maggioranza bianca. E poi il lavoro come procuratore distrettuale e generale, l’elezione al Senato, il matrimonio con Doug Emhoff, il rapporto affettuoso con i figli di lui che, come ormai sa l’intero pianeta, la chiamano Momala (il perché l’ha spiegato all’attrice Drew Barrymore in una delle interviste più imbarazzanti nella storia dei media).
Uscito negli Stati Uniti nel 2019, in occasione della sua prima corsa alla presidenza, come molti libri che accompagnano una campagna elettorale è innanzi tutto uno strumento di marketing, il genere di lavoro dove nulla è lasciato al caso. Il risultato è una narrazione che talvolta va in affanno: la storia personale vira sull’edificante, le enunciazioni politiche si sprecano e certe omissioni si notano – a partire dal nome di Obama che spicca per la sua assenza quando Harris descrive la sua frustrazione per le politiche sull’immigrazione nel 2014. Eppure è un libro da leggere. Il ritratto di una donna forte, decisa, preparata. Soprattutto, è il racconto di una passione politica radicata negli ideali che hanno fatto grande l’America – libertà, eguaglianza, opportunità. Più che sulla sua love story con Doug Emhoff, vale dunque la pena soffermarsi sugli anni formativi dell’infanzia, sul rapporto con la comunità, sulla scelta di entrare in Procura.
L’ex procuratore generale della California descrive così la sua prima udienza: “Quando venne il mio turno, mi alzai dalla mia sedia al banco della pubblica accusa e mi feci avanti per raggiungere il podio, pronunciando le parole che ogni procuratore a questo punto recita: Kamala Harris, per il popolo”.
È la formula di prammatica che negli anni devastanti delle incarcerazioni di massa, dalla crisi economica e dell’epidemia di oppioidi proverà con tutte le sue forze a tradurre in pratica. “Sapevo di essere lì per le vittime: sia quelle dei crimini commessi, sia quelle di un sistema di giustizia criminale che non funzionava affatto. Per me, essere un procuratore progressista significa capire e intervenire su questa dicotomia”.
Parlare di ideali in questi anni di svilimento del discorso pubblico, sempre più rabbioso e partigiano, suona quasi fuori posto. E basta tornare alle dense pagine dell’autobiografia di Barack Obama, Una terra promessa (Garzanti, 2020, 816 pp.), per misurare quanta acqua è da allora passata sotto i ponti. Valori, idee, un progetto di futuro. La tensione verso un’America più giusta e solidale. Era la promessa del primo presidente afroamericano della Storia e molti oggi considerano Kamala Harris la sua erede. Gli Obama hanno espresso il loro sostegno alla sua candidatura e il potenziale nesso storico è evidente. Ma Kamala Harris non è Obama come non è Hillary Clinton, l’altro termine di paragone scontato.
Come la Clinton, prova a dare l’ultima spallata alla barriera che separa le donne d’America da una piena eguaglianza. “Anche se questa volta non siamo riusciti a infrangere quel soffitto di cristallo così alto e resistente, grazie a voi, ora è pieno di circa 18 milioni di crepe," aveva detto Hillary ai suoi sostenitori dopo la sconfitta alle primarie democratiche nel 2008. "La prossima volta il cammino sarà più facile", aveva assicurato. Otto anni dopo, doveva diventare la prima donna a guidare il ticket presidenziale di un grande partito e la vincitrice del voto popolare.
La nomination di Harris sembra darle ragione: una donna candidata alla presidenza degli Stati Uniti non è più un tabù. La domanda non è però se l’America sia pronta a eleggere un presidente donna – ma se sia pronta a eleggere una donna nera e asiatica seppure affiancata da Tim Walz, un vicepresidente che più bianco non si può. Trump l’ha già definita un candidato DEI (Diversity, Equity, Inclusion) ma forse il colore si rivelerà la carta vincente, suggerisce Tressie Mc Millan Cottom sul New York Times. “L’idea che le donne nere siano mascoline potrebbe contrastare l’aspettativa che le candidate femminili debbano essere gradevoli". E che un presidente così non si sia mai visto prima potrebbe essere un altro punto a favore. “Sotto molti punti di vista, – conclude – solo una donna di colore avrebbe potuto farlo. Poiché non l'abbiamo mai immaginata, può ridefinire come sarà il futuro del potere per tutti noi."
Più che delle suggestioni della Storia, dicono però i sondaggi, gli elettori si preoccupano dei prezzi alle stelle, dei posti di lavoro e dell’immigrazione. La campagna di Harris maneggia dunque con cura i temi del genere e del colore, cavalca gli entusiasmi e schiva i giornalisti, interviste e conferenze stampa sarebbero previste solo a fine agosto – un aspetto che le ha già attirato gli strali dei repubblicani. La luna di miele è agli sgoccioli e va sfruttata fino all’ultima goccia.
Fra poco si capirà se la metamorfosi di Kamala regge l’urto della realtà. La vicepresidente famosa per le gaffe, le risate a sproposito e l’inconcludenza si è davvero trasformata nella candidata che oggi infiamma le folle? Il primo riferimento dopo la candidatura non sono state né Beyoncé né Taylor Swift ma Veep, la serie tv in cui Julia Louis-Dreyfus interpreta una vicepresidente incapace e ambiziosissima che naviga senza scrupoli i corridoi di Washington. E allora, cos’è successo? È maturata, cambiata, cresciuta? O, come sostiene qualcuno, è tutta una macchinazione e dietro c’è la mano di Obama? Chi vivrà vedrà. Intanto, è la Summer Brat. È il momento di essere sexy, bere vodka e fregarsene di quello che pensano gli altri: domani è un altro giorno.