Speciale
Alta Leventina. La roccia e il ferro
Venticinque, forse trent’anni più tardi: un collega, insegnante di disegno, riordina un’antica aula, svuota qualche armadio, getta cartacce. E trova un mio modestissimo disegno a carboncino, fatto proprio lì, tanti anni prima, quando ero un ragazzo, durante lunghe ore di scuola. Un ragazzo: a cui avevano spiegato con grande chiarezza che il disegno non faceva per lui, bisogna anche dire; un ragazzo – e, prima, un bambino – assolutamente negato in disegno.
E allora, da dove saltava fuori, quel foglio A4 granulato con le sue immagini? Da una parte, in basso a sinistra, la facciata di una basilica, tronfia, imponente e geometrica, poggiata sul suolo sabbioso. A destra, sopra un alto promontorio roccioso, una croce, alta nel cielo del foglio. Basilica e croce dovevano essere reminiscenze di qualche pagina del Vangelo, confuse metafore. Ma le rocce, quel groviglio di rocce: da dove venivano? Quale paesaggio le aveva ispirate?
Le rocce, in quegli anni, cominciavano ad apparire un po’ prima di Biasca, sul versante destro della Riviera, per chi stava salendo in treno verso nord. Io lo facevo ogni estate, quel viaggio: da Chiasso – e a Chiasso, non distante dalla stazione, si trova la Chiesa di San Vitale, che forse aveva ispirato quella del mio disegno – verso Ambrì, da dove si sarebbe poi saliti più in alto, con il postale, verso Catto, il luogo delle settimane di vacanze: il luogo dell’“Altro mondo”.
Ma fino a Lugano, e poi oltre, fino a Bellinzona, il paesaggio non mi interessava molto; lo conoscevo, non vedevo in quei boschi collinari, in quelle pianure, niente di molto diverso dal paesaggio in cui vivevo per tutto l’anno, tra i pianori di Chiasso e Novazzano e le colline boscose del Penz, proprio dietro i binari. Ma dopo Bellinzona, dopo la confluenza della Moesa con il Ticino, dopo lo scolastico cono di deiezione di Claro, con il suo convento di clausura alto verso il Pizzo, dopo l’ampia curva che portava il convoglio verso il grande Nord: lì cominciavano a scorgersi le pareti di roccia, quasi verticali sulla destra, tese verso il mistero delle montagne.
ph. Giovanna Silva
Se da poco era piovuto, quelle rocce si animavano d’acque, rivoli, cascate, pareti nere di umidità, fino allo stupore della Santa Petronilla; e intanto a sinistra anche i paesi cambiavano, si facevano più isolati e pietrosi, circondati da grandi distese, in un fondovalle ampio e leggermente inquietante, leggermente desolato: Preonzo, Moleno, Lodrino, Iragna, luoghi appena intravisti dall’altra parte della valle, nell’ombra dei boschi e tra le ferite di granito, vecchie cave a cielo aperto, solcate d’autocarri.
Tutto cominciava a farsi più grande, più rude e avventuroso.
E poi Biasca: di cui non guardavo particolarmente le case o le chiese, ma dietro la quale cercavo il fondale di rocce, come ammonticchiate in ere geologiche trascorse ai piedi del Matro, a spartire due valli, una che sale verso il Lucomagno, e che allora conoscevo soprattutto per la leggendaria “Buzza”, e l’altra che avrei percorso di lì a poco, verso le gole del fiume e le cime più alte, come promesse di escursioni.
Da lì in poi, la pietra e la roccia non avrebbero più smesso di accompagnare il viaggio e di attirare lo sguardo, popolando il pensiero e la memoria. Stavano sui fianchi enormi delle montagne, certo, appena alternate a lingue di bosco, entro il quale anche il verde si faceva più cupo, dominato dai pini e dai larici, con le loro radici affioranti; si vedevano altissime, nello spalancarsi di qualche valle a prima vista inaccessibile, a destra come a sinistra, ormai, in mille forme sulle creste superiori, oppure appiattite in grumi o lame minacciose; ma stavano anche, dopo un po’, verso il basso, poiché mentre il treno saliva, nell’odore estivo di rotaia e di galleria elicolidale, sotto di noi si apriva come uno squarcio il solco magro del fiume, scavato tra i massi, ora guizzante in scivoli d’acqua ora quasi immobile e luminoso nel mozzafiato delle pozze verdi.
La pietra era ovunque nel paesaggio, e insieme in ciò che del paesaggio aveva fatto la storia umana: muri, rossastri o cupi, attorno, sopra e sotto i binari; muri di un colore appena diverso a delimitare ronchi, prati, porzioni di terra un tempo coltivabile, confini.
Muri anneriti di case come prostrate sotto quell’incombere della montagna: i tetti neri di Bodio, e dietro i tetti il fumo e il clangore della Monteforno, che allora pareva mostruosa e gigantesca, invincibile.
E poi il trionfo di pietra di Giornico, quel grigio uniforme, quasi musicale, ovunque: chiese come castelli, come fortezze, un linguaggio improvvisamente alto e lontano, la forza del romanico, e il senso di una tangibile, rassicurante densità del mondo, della terra, del tempo. E, insieme, il presentimento quasi opposto, o complementare, di una minaccia costante, a stento tenuta a freno da quei paesi incassati, da quelle case addossate le une alle altre, appoggiate ai grandi massi, quasi prolungamento della roccia naturale, portata lì dai movimenti dei ghiacci o rotolata dai costoni franosi.
ph. Giovanna Silva
Una vita difficile, circondata da una natura possente e temibile: lunghe nevi, animali non sempre innocui, catastrofi in agguato, spiriti maligni; e, sopra o sotto ogni altra cosa, miseria, focolari modesti, fumo nei camini. Più su, molto più su: giganti di pietra, e lingue di neve, che neppure l’estate riesce a ridurre al silenzio. Argéman, si chiamano nel dialetto di un’altra valle; ma questo l’avrei scoperto molti anni più tardi, grazie a un amico mesolcinese. Quella parola, argéman, porta con sé la luce e l’orrore di quelle lingue di neve: speranza di un oltre, certezza di una frana o slavina avvenuta: tutto il nostro precario esistere, forse.
Giganti di pietra, si diceva.
Ne arriveranno molti, da qui in avanti, fino alle cime frastagliate del Gottardo. Ma prima, ad annunciarsi negli scorci tra le gole – con i loro nomi un po’ enigmatici, sui libri di scuola: Biaschina, Piottino, Stalvedro – viene a sinistra una delle vette più maestose e superbe, persino nel nome: il Pizzo Forno, regno di nebbie e minerali, di strapiombi e rifugi.
Da lassù, dopo ore di salita, si vedrebbero le cime più arretrate e nascoste, il Tencia, il Penca, il Barone; e sui massi dell’Alpe Sponda si rinverrebbero facilmente cristalli azzurrini di cianite, o i più bruni granati, fitti dentro gli scisti e i micascisti delle pietraie.
Il Pizzo Forno, allora, come un custode meridionale di qualcosa. Più in là, oltre le sue creste laterali, oltre l’ampio catino dell’alta Piumogna e i contrafforti del Campolungo, sotto le bianche dolomie del Passo Venett, si aprirebbe la “perla” del Tremorgio – così la chiama Giorgio Orelli, il grande poeta che da queste parti è cresciuto e si è riconosciuto, in una splendida poesia.
Ma intanto il treno ha superato le ferruginose officine elettriche di Lavorgo, e si sta avvicinando a Faido, con la sua aria di borghesia alpestre e la sua cascata. Sull’altro versante, sopra le chiese candide quasi a picco e come sospese, comincia a essere riconoscibile il profilo di un’altra montagna, forse meno aspra a prima vista, e a sua volta inconfondibile: il Pizzo Pettine, che preannuncia e difende la dolcezza della Val Piora, incastonata dietro i suoi costoni.
Chi vuole salire lassù potrebbe scendere appunto a Faido, raggiungere poi le case sparute di Carì, e montare ancora verso i laghetti di Chièra, per attaccare infine l’ultima rampa scoscesa. Ma per noi il sentiero era un altro, e chiedeva di pazientare; bisognava raggiungere Ambrì, con il suo aereoporto militare.
Sopra Ambrì, molte possibilità si schiudono verso est: si potrebbe salire oltre il vecchio sanatorio, a piedi o con la funicolare più ripida d’Europa – così ci insegnavano a scuola –, verso le frescure di Altanca, verso i laghi d’altura dolcissimi; oppure, sopra il grido romanico del campanile di Quinto, dirigersi come avremmo fatto noi verso Catto e Lurengo, isole sospese tra prati, macchie boschive e grandi massi. Ancora più su, sopra Cassin di Deggio sarebbe cominciata, di lì a qualche giorno, la vera salita verso il Pettine. Ci si andava di notte, per lo più, fermandosi a fingere di dormire per qualche ora in un rifugio di pastori, abbandonato da tempo, per affrontare il tratto finale all’alba, e arrivare alla croce della vetta con il sorgere del sole.
Il sentiero, in quell’ultima ora di cammino, sale a zig-zag tra la pietra viva della montagna e i suoi scoscendimenti laterali; sale duro, cattivo, fino alla cima, da dove, muovendo pochi passi, ci si sporge sui dirupi oltre i quali sale un’altra cima di poco maggiore e molto più difficile da raggiungere.
Nulla in comune, certo, con il Mont Ventoux del Petrarca, che svetta solitario nelle pianure di Provenza; eppure, quando rileggo la lettera in cui Petrarca rievoca la sua ascensione, non posso non ripensare al sentiero del Pettine, ai suoi sassi inospitali, e ai ricordi che salgono su da quegli anni, quando ragazzi si saliva lungo quegli sbricchi come se la salita non fosse né un semplice svago né, tanto meno, un puro gesto atletico o sportivo, ma un itinerario interiore, di scoperta.
Dalla vetta, non so, non sono sicuro; ma appena più sotto sì: guardando verso il basso verso la vasca della valle, si possono sentire e vedere i treni che passano, a volte contarne i vagoni, come facevamo noi nei lunghi pomeriggi di riposo. E il treno, come la pietra, era per noi il tratto distintivo di questo territorio. (Oggi, forse, l’avventura del treno è offuscata dalla miseria quotidiana del traffico autostradale, dalle code dei turisti e dei tir). Il treno e la pietra; la roccia e il ferro.
E la croce sulla vetta del Pettine? Sarà stata lei a essersi depositata nel mio disegno? Non è impossibile. Le croci, come le minuscole piramidi di sasso, i cippi, i segni sui sassi che si incontrano camminando sui sentieri alti: dicono qualcosa di umano e commovente. Qualcuno è passato di qui, e ci indica la via.