Amori e morte (e soldi) nel romanzo francese
Per alcune letterature europee – meno, a dire il vero, per quella italiana – l’Ottocento è stato il secolo del romanzo. Favorito da una prospettiva filosofica che consentiva di leggere nel destino di un personaggio lo sviluppo dell’intera realtà, questo genere si è diffuso in misura così ampia da assorbire progressivamente le altre forme narrative. In termini quantitativi ha davvero conosciuto pochi rivali; di qui gli esercizi della critica novecentesca prima sulle teorie, poi sulle poetiche del romanzo fino alle prospettive minoritarie – meno seguite, ma non meno interessanti – per cui quella stagione si è rivelata l’esito di un impoverimento delle possibilità formali del genere. Nell’Ottocento, almeno in prevalenza, il romanzo è stato interpretato come l’espressione seria del quotidiano, leggibile in vista di un fine da raggiungere dopo lo scontro con la società: l’amore, la consapevolezza della propria vocazione, l’ascesa sociale, scopi e mete che tuttavia dipendono, oltre che dall’immagine che ci facciamo del mondo, anche dal modo con cui impariamo a desiderare imitando i desideri degli altri.
Spesso l’attenzione degli studiosi per gli aspetti strutturali del romanzo ha spinto a trascurare non tanto i nuclei tematici, quanto il loro intreccio, indagato invece con dedizione pressoché ossessiva da chi ha studiato la disseminazione dei significati. Ma per scendere (o salire) verso la pratica narrativa, è cercando di riflettere in termini letterari sulle finalità citate qui sopra che il romanzo torna a porsi come esigenza e che trova poi, secondo le più varie necessità di chi scrive, la forma adeguata, che non viene in luce assecondando le indicazioni critiche o le tendenze del momento e che si può scoprire anche affrontando o aggirando i divieti più in voga.
Su questi temi centrali si interroga un libro denso ed estremamente documentato, Il secolo del romanzo. Amori, guerre, soldi e altre invenzioni nella narrativa francese dell’Ottocento (Carocci, 2023) di Alberto Beretta Anguissola, francesista, studioso proustiano e autore con Daria Galateria del celebrato commento alla Recherche – uscito nell’edizione dei Meridiani tradotta da Raboni –, oltre che di altri volumi dedicati al romanzo di Proust.
Nell’Introduzione l’autore mette subito in chiaro i propositi: l’analisi si concentrerà umilmente non tanto sulla dispositio o sull’elocutio di questi romanzi, ma semplicemente «sull’inventio», ossia su ciò che è stato trovato dagli autori, sulle «incarnazioni narrative di questi temi centrali», sulle attitudini dei personaggi e sulla trama in cui si muovono. Un’impresa non priva di rischi perché «questa impostazione comporta una certa attenuazione della gerarchia dei valori estetici». Dal punto di vista dei fatti narrati, infatti, libri grandi e meno grandi «tendono a porsi sullo stesso piano» (p. 9).
Così l’autore ripercorre in altrettanti capitoli: amori, infiniti, guerre, vittime, Dio, soldi, morte, scienza e immagini dell’Italia nel romanzo francese dell’Ottocento. Per ciascun capitolo, dopo una rapida introduzione, propone e discute in brevi riassunti le strategie narrative adottate dagli scrittori; segue i protagonisti degli intrecci nelle loro avventure con attenzione al dettaglio irrinunciabile fino a formare un minuziosissimo racconto composto di tante microstorie diverse, saldamente collegate fra loro. La corposa documentazione del libro porta con sé anche qualche difficoltà di lettura, dovuta non tanto allo stile – agile e preciso nel passare da un contesto all’altro, che l’autore padroneggia con riconosciuta competenza – ma proprio dalla concatenazione di tante trame, che talvolta sembrano presentare l’insieme come un repertorio generale ragionato del romanzo francese dell’Ottocento, un’«immaginaria biblioteca tematica», come scrive lo stesso autore.
Il primo capitolo, dedicato agli amori, occupa circa un terzo del volume. In apertura Beretta Anguissola elenca i titoli dei romanzi che sono stati presi in esame. Li ho contati: sono ottantuno. I vari aspetti delle vicende amorose vengono ripercorsi in diversi paragrafi, a cominciare da quello dedicato all’opposizione fra amore celeste e amore carnale. Afrodite celeste, dunque, e Afrodite terrena da Volupté di Sainte-Beuve a Le Lys dans la vallée di Balzac, dall’interessante Les Lauriers sont coupés di Dujardin, che non va ricordato solo per il monologo interiore poi fatto proprio da Joyce, ai romanzi di Musset, Nerval, Maupassant, Dumas figlio, George Sand, Zola, Chateaubriand, i Goncourt, Champfleury, di nuovo George Sand. Ancor più interessante il secondo paragrafo, che tratta dei colpi di fulmine, in contrasto con il processo di innamoramento per fasi successive che con il termine di Stendhal l’autore chiama «cristallizzazione» e che è presentato subito dopo.
Se il colpo di fulmine più dirompente è quello dell’Educazione sentimentale tra Frédéric e Madame Arnoux – a libro chiuso sappiamo congetturare intorno alla reciprocità a lungo dissimulata –, l’autore dedica largo spazio alla prima volta in cui Madame de Rênal vede Julien Sorel nel Rosso e il Nero di Stendhal, specificando come le ambizioni di Julien in questo caso siano altre, complicate dalla necessità di sentirsi all’altezza del modello napoleonico. Ed è, più prevedibilmente, sempre di Stendhal anche il miglior esempio di “cristallizzazione”, quello tra Fabrizio del Dongo e Clelia nella Certosa di Parma, ammirata da Balzac e forse da lui imitata (Ursule Mirouët). Qui Beretta Anguissola amplifica le considerazioni: «Uno dei meccanismi psicologici che possono attivare la cristallizzazione è percepire il/la proprio/a partner come un essere in fuga» arrivando in breve a una sintetica trattazione del tema attraverso l’esempio definitivo del Narratore e di Albertine nel romanzo proustiano. Queste note a margine che a volte si aprono fino a diventare quasi degli abbozzi di saggi – sconfinando in questo caso nel Novecento – sono fra i punti più brillanti del libro.
Ad esempio, parlando della Signora delle camelie di Dumas figlio, l’autore si chiede se, visto il contesto dell’epoca in cui era una «cosa perfettamente normale» per un giovane avere un’amante, non fosse più «disonorevole vivere castamente», contravvenendo alla scissione obbligatoria fra «il piacere e l’amore integrale» e «il matrimonio e la famiglia». Se questa osservazione non suona così singolare, ciò che scrive nella pagina successiva, parlando di Zola e di Balzac, induce a qualche riflessione:
È come se la povertà e il fatto di essere quotidianamente esposti al rischio di qualche incidente mortale comportasse, per compensazione, un riconosciuto diritto a concedersi maggiore libertà nella sfera affettiva ed erotica. (p. 20)
Negli ambienti più poveri dell’Ottocento – e potremmo dire: non solo di quell’epoca – la maggiore esposizione quotidiana alla violenza, da cui deriva la consapevolezza del rischio di morire, imprime al tempo della coscienza un ritmo più sostenuto incoraggiando l’impeto di alcune scelte sentimentali, che in contesti più sereni arrivano invece a estenuarsi fra i corridoi e le anticamere dei palazzi cittadini. Le incarnazioni dei grandi temi dell’Ottocento romanzesco si muovono spesso nello scontro più o meno esplicito di personaggi che con la loro volontà riescono a influenzare in misura quasi inverosimile lo sviluppo delle relazioni, provocando non solo pene d’amore, ma talvolta delle persecuzioni che travolgono la vita dei personaggi. I romanzi dell’Ottocento sono pieni di vittime e «sono proprio queste dinamiche persecutorie che rendono la lettura inquietante, coinvolgente e a volte molto dolorosa oppure invece gradevolmente liberatoria» (p.147)
Analizzando le ragioni della presenza di tante vittime, l’autore rinvia da una parte a una rivincita post-rivoluzionaria del cristianesimo, inteso non tanto in termini di fede ma come orientamento filosofico: la sofferenza del giusto risulta così pedagogica e assume una funzione salvifica perché, enigmaticamente, «le sofferenze del giusto costituiscono un mistero fondamentale, sono il vero noumeno, il vero mondo come Volontà, il livello più profondo e quindi più alto di esperienza possibile» (p. 141). Si pensi ai Miserabili, ma l’elenco è lunghissimo:
«Il cugino Pons, Eugénie Grandet, Fantine, Quasimodo, il padre di Marius, Gwynplaine, Edmond Dantès, il ragazzino che chiede pane nell’Educazione sentimentale, Mâtho in Salammbô, l’insegnante ebreo in Vérité di Zola, l’innocente Cabuche condannato ai lavori forzati a vita per due omicidi nella Bête humaine e così via [...]» (p. 141).
Dall’altra parte, in questo fenomeno l’autore sospetta un’adesione culturale più profonda, perché non si abbraccia una fede religiosa solo «per far dispetto a Voltaire, a d’Holbach o a Robespierre». Si potrebbe osservare che l’orizzonte che unisce queste due tendenze è forse quello di una concezione meno schematica, più complessa e profonda dell’interiorità umana. Questa ambivalenza non è presente nei soli romanzi e personaggi francesi dell’epoca: l’innocenza nella perdizione, l’espiazione volontaria e incolpevole, il riscatto e la rinascita spirituale sono temi centrali nei romanzi di Dostoevskij; e come per Proust in Madame de Sevigné c’era un lato-Dostoevskij, possiamo dire che questo lato è sicuramente presente anche in Proust, e forse non solo in lui.
Restando su questo tema, Beretta Anguissola discute di scorcio anche i saggi di René Girard:
La “verità romanzesca” che Girard contrappone alla “menzogna romantica” non la troviamo nelle opere di tutti i romanzieri, così come non troviamo solo “menzogne” nei libri di scrittori o poeti romantici. Non è né una questione di appartenenza a questa o a quella corrente letteraria né un problema di generi (romanzo contro poesia o contro il teatro), è semmai una questione di concezione antropologica e soprattutto di come dai diversi scrittori viene inteso il rapporto tra l’individuo e la società: l’io contro il resto del mondo? Oppure l’io è uno dei tanti elementi di un insieme in cui l’interdipendenza prevale? (p. 145)
L’autore ricorda che, nel contesto italiano in cui uscì in traduzione (nel 1965), il saggio Menzogna romantica e verità romanzesca di Girard appariva così provocatorio che l’editore Bompiani ne addomesticò il titolo presentandolo, in omaggio allo strutturalismo, come Struttura e personaggi nel romanzo moderno.
Quanto agli intrecci inestricabili degli affetti – e dei dolori che provocano – per mettere un po’ d’ordine e trovare uno modello interpretativo Beretta Anguissola rinvia di nuovo a Proust, alla famosa pagina del Tempo ritrovato in cui il Narratore e sua madre, tornando in treno da Venezia, leggono le lettere che che annunciano due matrimoni, quello di Gilberte Swann con Robert de Saint-Loup e quello della nipote di Jupien con il figlio del Marchese di Cambremer. Incroci sociali creduti inconciliabili (la discussa famiglia borghese di Swann e l’inarrivabile famiglia Guermantes di Saint-Loup; Cambremer nobile; Jupien, un umile farsettaio) e incroci di orientamento sessuale: dei due mariti, il giovane Cambremer è omosessuale; Saint-Loup, bisessuale. L’umile promessa sposa di Cambremer è d’un tratto divenuta nobile dopo essere stata adottata dal formidabile barone di Charlus, amante di Jupien; ma è stata a lungo l’amante del violinista Morel, amato da Charlus (e da Saint-Loup). Commentando il matrimonio Jupien-Cambremer, la madre osserva «È un matrimonio da finale d’un romanzo della Sand», mentre il narratore [che conosce molti più dettagli] pensa invece tra sé: «E il prezzo del vizio, è un matrimonio da finale d’un romanzo di Balzac». (p.147) In un caso la giustizia poetica trionfa; nel secondo, trionfano i rapporti di forza. Su questa dicotomia Beretta Anguissola passa in rassegna i romanzi di Hugo e il nutrito «reparto Balzac», a partire dal dittico La cugina Bette, Il cugino Pons per poi passare a Pierrette.
Questa è solo una delle tante traiettorie del libro che nei capitoli dedicati a guerre, soldi e morte illumina la scena dei conflitti in modo diverso: la morte, ad esempio, assume un’importanza prospettica che non aveva nei romanzi del Settecento, e che non avrebbe assunto in quelli del Novecento secondo un’esigenza teatrale che l’autore trova quasi da tragedia classica – ma potremmo dire anche da melodramma – a coronamento sublime di un’esistenza. E fra le morti dichiara di preferire quelle di Lucien de Rubempré, di Marguerite Gautier, di Jean Valjean e quella di San Giuliano l’Ospitaliere (nel secondo dei Tre racconti di Flaubert).
Il pregio e il limite del libro risultano dallo stesso intento programmatico. Ripercorrere le trame evidenzia la loro differenza specifica in termini di inventio, ma tende ad annullarla sotto gli altri profili, rendendo ancora più manifesto ciò che oggi appare lontano nel tempo, ossia la forza dell’azione, il modo in cui la volontà dei personaggi ambigui (complessi, ma non tridimensionali) trova compimento: nel male, la brutalità dei rapporti di forza si traveste da comprensione (o meno) senza cambiare il suo effetto; l’ospitalità si tramuta in sevizia. Anche in romanzi dove i movimenti di massa non mancano, alcune coincidenze risolvono l’azione secondo i canoni del melodramma, dove i buoni e i cattivi sulla scena si incontrano sempre.
Questa sintesi appassionata degli intrecci francesi dell’Ottocento sembra fondarsi sulla considerazione che dobbiamo ai rapporti umani visti attraverso il filtro dei personaggi e conferma la necessità di avere a disposizione nel nostro corredo narrativo una serie di racconti complessi – non riducibili a un breve indice tematico, o a due o tre precetti da seguire – perché il riuso mentale di questi esempi arricchisce la nostra interpretazione delle relazioni, la realtà più sfuggente e ambigua a cui ci troviamo di fronte. In altre parole, ne favorisce la comprensione rendendo le nostre azioni più misurate e partecipi della sorte degli altri, certo molto più di quanto non faccia una letteratura didascalica, programmaticamente rivolta al bene.