Ottant'anni / Bossi: la solitudine del vitellone
Nel 1991 Umberto Bossi è stato eletto da quattro anni senatore della Repubblica quando oltre Manica, forse memori dell’indipendentismo irlandese, s’accorgono di questo cinquantenne che si è già fatto notare per i suoi modi inusuali e per le sue espressioni verbali accese in comizi vari. Così un giornale inglese chiede al fotografo della Magnum Ferdinando Scianna di realizzare un servizio sul Senatùr di Varese. Scianna va nella città lombarda per incontrarlo nella sede del movimento autonomista. È nato a Bagheria e da anni vive in Lombardia, a Milano. Niente di più lontano dalla sua cultura di questo esagitato politico dai toni irriguardosi e provocatori: “Roma ladrona”, “Forza Etna” scrivono i militanti leghisti sui viadotti e sui piloni delle autostrade e superstrade. Allora la Lega, che poi cambierà più volte nome, ma non pelle, non è ancora ricca come diventerà in seguito e si fa pubblicità con pennelli intinti di vernice bianca e manifesti dalla grafica inconsueta, che ricorda quella degli anni Quaranta e Cinquanta della Democrazia Cristiana anticomunista. Bossi si dichiara all’epoca un antifascista; non è ancora nata l’alleanza governativa con gli ex-fascisti del Movimento sociale trasformato in Alleanza Nazionale.
La prima cosa che Bossi chiede al fotografo è: da dove viene? E aggiunge: per caso lei è calabrese? Scianna gli risponde che è siciliano del Nord, perché, aggiunge con una battuta, da lui ci sono anche i siciliani del Sud, reputati degli scansafatiche. Il Senatùr sorride e gli dice che sua moglie è di origine siciliana. Un po’ di Sud anche a casa sua. Scianna ha confessato a distanza di tempo che Bossi non gli era piaciuto e che provava a metterlo in cattiva luce, forse cercando tratti negativi nel suo volto mentre lo guardava in macchina. Scatta molti primi piani con una luce che mostra ombre sinistre sul viso del Senatùr. Poi gli chiede di uscire per strada, per fare degli scatti in città. Bossi passeggia; si ferma da un mendicante e gli fa l’elemosina; molte persone lo fermano e chiedono al fotografo di ritrarle con lui: una foto ricordo con il loro idolo. Prende anche un fiore da una fioraia e si fa ritrarre col fiore in mano. Ma la foto più bella, e probabilmente emblematica, è quella che Scianna gli scatta in un bar. Prima seduto al tavolino: Bossi si mette in posa in modo naturale, prende in mano un giornale. Quindi si alza e va al banco per bere un caffè. Scianna intanto ha cambiato opinione su di lui, forse è un lampo o una intuizione. Non vede più nel Senatùr il razzista del Nord, l’odiatore dei meridionali, il capo di un nuovo e possibile Ku Klux Klan.
Dentro l’obiettivo della macchina Umberto Bossi gli appare qualcosa di diverso dal folcloristico capo dei separatisti lumbard, degli xenofobi delle valli varesine, comasche, lecchesi e bergamasche. La foto che racconta quello che è Bossi, e cosa sarà, lo ritrae a quel bancone del caffè con la tazzina in mano. Ha ancora i capelli tutti neri, è magro e non è l’uomo consunto e provato delle foto di oggi, l’ottantenne che ha subito un ictus nel 2004, che è sopravvissuto, e che nel 2012 ha dovuto cedere lo scettro del suo movimento, di cui resta il Presidente a vita – come se fosse il presidente nordcoreano, il fu Kim Il-sung –, ai suoi luogotenenti, fino a che non è arrivato nelle mani di Matteo Salvini, il comunista-leghista, o meglio fascio-comunista, come recita il titolo di un libro, il quale sta consumando gran parte della eredità lumbard del suo partito essendoselo intestato con la dicitura: “Lega per Salvini” o “Salvini Premier”, a seconda dell’impiego elettorale. Chi è Umberto Bossi messo a fuoco da Scianna? Un uomo solo. Un giovanotto in impermeabile. Altro ancora? Il punctum della foto, per dirla con Roland Barthes, la cosa che ancora punge di quel lontano scatto, è la postura del giovanotto cinquantenne, il suo apparire come un vitellone, uno di quegli eterni ragazzi di provincia – dimostra dieci anni di meno –, senza arte né parte, che si arrabattano tra un mestiere e l’altro, lavorano poco e vivono di notte.
Insomma il personaggio fissato nel suo memorabile film da Federico Fellini. Scianna probabilmente non sa che, prima di diventare un separatista e un politico locale, Bossi ha fatto il cantante, ha inciso un disco, si è iscritto a medicina e per anni ha fatto credere alla prima moglie di essersi quasi laureato, e comunque di lavorare come tale nella sanità. Esce ogni giorno di casa, dicono le biografie, con la sua borsa professionale, ma in ospedale non va. Non somiglia ovviamente a Jean-Claude Romand, il protagonista del romanzo-verità di Carrère, L’avversario, che uscirà nove anni dopo per raccontare una storia di bugie finita tragicamente. Umberto non seguirà il destino folle di Jean-Claude, ma anche il suo sarà un destino particolare, perché ha segnato non un libro di narrativa bensì la storia di un intero paese, deviandone il fiume con un piccolo muretto di pietre prese dalle Prealpi. Se non altro Romand, che ha fatto del male alla sua famiglia e non solo, è un piccolo personaggio trasformato in “grande personaggio” dallo scrittore francese, mentre Umberto Bossi è stato un grande personaggio di dimensioni più grandi per gli effetti che ha provocato, per quanto il giudizio su di lui è ancora sospeso. Solo nel futuro potremo capire cosa è stata la Lega con lui e da lui a Matteo Salvini. Ora, forse, è presto per il giudizio storico, per quanto esistono già biblioteche intere su questo movimento – non un partito, perché la democrazia interna nel carismatico movimento nordista non esiste – e molte biografie dedicate ai suoi discussi, e da molti vituperati, leader. Ma è proprio quella foto che a me pare così importante e sorprendente.
Il potere dell’immagine è quella di rivelare qualcosa di nascosto, qualcosa che è in potenza, come accade al personaggio di Blow-Up, il film di Michelangelo Antonioni del 1966, tratto da un racconto di Cortazar. Qualcosa che c’è, ma che subito non si vede. In questo caso non è un dettaglio; è piuttosto qualcosa che è diventato evidente col passare del tempo, ma che a ben vedere c’era già – è quello che Aristotele chiamava l’unione di potenza e atto: il sinolo. Ovviamente nessuno l’aveva visto quel quid nello scatto, anche perché, salvo in Gran Bretagna, il servizio fotografico di Scianna non è stato pubblicato in Italia. Ma, a distanza di tempo, abbiamo la possibilità di capire chi era già in quel giorno del 1991 Umberto Bossi, e quello che sarebbe stato in seguito fino al giorno in cui è stato colpito dall’ictus e a quello in cui è stato detronizzato per uno scandalo legato ai soldi del movimento usati da lui e dalla sua famiglia. Si tratta, lo voglio evidenziare, di un atto letterario, non di una previsione da ottenere con la sfera magica degli indovini e delle indovine, tuttavia la fotografia, fissando per sempre un istante prelevandolo dal tempo, ha un valore quasi profetico. Ma servono sempre gli occhi per vedere come accade al fotografo di Blow-Up. La prima cosa che Scianna aveva visto allora era proprio la solitudine, quella che il potere genera in chi lo detiene. Italo Calvino in una serie di scritti giornalistici e letterari ha messo ben in luce come ogni uomo di potere sia solo con sé stesso.
Vive vicino agli altri, ha la sua corte – il “cerchio magico” –, eppure è sempre da solo. L’esercizio del potere, non solo quello politico ovviamente, il potere che si istruisce sugli altri, su molti altri, richiede un distacco. Per quanto la riflessione sia nel caso di alcuni politici un fatto fulmineo, la decisione di un istante, lo svolgimento irriflesso di un’intuizione – e Bossi lo ha ben evidenziato inventando formule ed epiteti e prendendo decisioni improvvise, come l’abbandono della coalizione con Berlusconi nel 1994 –, l’uomo di potere, il vero politico, è solo in ogni decisione, meditata o improvvisa che sia. In quel 1991 Bossi non lo è ancora, tuttavia in quello scatto, nello sguardo che l’uomo con la tazzina possiede, c’è questo. Ora che le immagini del Bossi ottantenne vengono divulgate per il suo compleanno, vediamo in lui un re deposto, l’uomo consumato dalla malattia che ne ha colpito le forze e la prestanza, annichilendo per sempre l’uomo baldanzoso e provocatorio che eravamo abituati a vedere nei raduni di Pontida. Il Senatùr non ha mai lesinato di diffondere queste fotografie dal giorno della malattia, quando non era più l’uomo di prima, dal 2004, perché la fisicità è sempre stato il marchio della sua identità politica. Più ancora delle cose che diceva, Bossi era quello che appariva: il corpo, la voce, la postura, i toni. Tutto quello che diceva scaturiva da questa forma d’essere, un’identità che si vede in potenza nella immagine catturata dalla macchina fotografica del reporter di Bagheria.
C’è un altro uomo di potere, un grande potente, che ha consumato come Bossi il rito della solitudine dei potenti, il suo opposto e simmetrico: Aldo Moro. Moro, il più importante politico del dopoguerra, più ancora di Togliatti e De Gasperi, è stato prima di tutto l’uomo della solitudine, prima che le Brigate Rosse fissassero, anche per lui, il rito degradante della deposizione regale, cui poi è seguita una ingiusta e tremenda messa a morte. Non sembri sacrilego paragonare Moro a Bossi. Li separano secoli di cultura politica e non solo, ma in qualcosa sono parenti: sono diventati in vita dei re deposti dopo aver conosciuto la solitudine del potere, quel sentimento di separazione che Moro comunicava con i suoi indecifrabili e faticosi discorsi, mentre Bossi riempiva con lo stile di cantante rock: la voce rauca, l’invettiva e la provocazione sul palco, la firma degli autografi, pratiche che erano assolutamente impensabili per Aldo Moro, così come per Enrico Berlinguer, un altro politico che ha conosciuto la solitudine. La solitudine è stata nei secoli passati propria dei santi, dei taumaturghi, dei profeti, mentre oggi lo è degli homeless, dei senzatetto, degli uomini e delle donne che vivono per strada spesso senza chiedere l’elemosina, che esprimono non solo la condizione della povertà incipiente e diffusa delle nostre città occidentali, ma la condizione propria di noi tutti in questa epoca così sociale e comunicativa. La loro santità disperata e irredimibile di sommersi è l’icona della nostra di salvati.
Con questo non voglio dire che gli uomini politici sono dei santi, anzi. Tuttavia nella loro forma, almeno in quella tradizionale, c’è sia l’elemento della solitudine come quello della disperazione e del dubbio, che ogni esercizio di potere porta con sé, ovvero l’intima convinzione che siamo nulla anche se siamo tanto, e a volte persino tutto. I re lo scettro lo ricevano direttamente da Dio stesso, o almeno così si credeva. Che cosa ci racconta il vitellone di Fellini se non una forma simile di solitudine e anche di fallimento, quella malinconia che traspare da ogni vita così vissuta vanamente e senza scopo, consumata in un niente quotidiano? L’idea del vitellone che trasmette Bossi in questo scatto, che continuo a guardare da quasi un decennio a intervalli più o meno regolari, non è ovviamente solo questa. C’è qualcosa di innocente, di edenico. Nonostante sia già il Senatùr, l’uomo del turpiloquio, possiede qualcosa di immacolato, di non “sporcato”. Scianna lo ha visto, e lo ha fissato. Prima che diventasse l’uomo dell’insulto quotidiano, l’esagitato politico che arringava i propri fedeli usando una voce profonda e cavernosa, che parlava alle viscere più che alla ragione, il creatore di uno stile verbale e politico che ha preceduto l’esplosione dei social – tutti bossiani alla tastiera del computer o a quella dello smartphone –, oltre che il leader di un partito che ha reso difficile la convivenza tra Nord e Sud, tra immigrati in cerca di una terra sicura e di lavoro e gli abitanti del Nord leghista. Ferdinando Scianna ha colto con quello scatto, e con gli altri mai pubblicati, l’identità del “bosìtt”, il contadino del varesotto, angariato e sfruttato dai suoi padroni, i nobili milanesi in villa, che entra a vele spiegate nel Parlamento della Repubblica e ne sconvolge via via equilibri consolidati nei decenni.
Lynda Dematteo in un suo libro, L’idiota in politica (Feltrinelli), ha cercato di spiegare quanto è accaduto. Non solo la vittoria di Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno, identificati in un solo e unico personaggio, Umberto Bossi, ma la rivincita di una parte dell’Italia che era rimasta tagliata fuori dalla modernità pur avendola vissuta e quindi patita. L’enigma-Lega, che si identifica con l’enigma-Bossi, si spiega con un rovesciamento che è accaduto varie volte nella storia italiana passata e recente: il ribaltare il proprio complesso d’inferiorità trasformandolo in un’arma impropria contro gli altri. I valligiani del Nord, sentendosi disprezzati da gran parte del paese, hanno disprezzato gli altri a loro volta. Hanno istituito attraverso Bossi col suo sigaro all’angolo della bocca, col parlare “sporco”, col “celodurismo” (persino delle donne), con l’invettiva e lo slogan-insulto, i segni dell’aristocrazia nordista. Un atteggiamento che riguarda anche i tifosi di un altro “politico”, anche lui un vitellone seriale, Donald Trump: maschilismo ed eterno fascismo. In quella fotografia di Scianna Bossi non è altro che il fratello minore di Alberto, il personaggio ritratto da Fellini, l’uomo del gesto del braccio e dell’epiteto rivolto a chi sta lavorando sulla strada: “Lavoratori, pppprrrrrrrr!”.
La pernacchia c’è già in quella foto? Forse no. Ma c’è comunque qualcosa che la può spiegare. Sarà un po’ di lombrosismo questo, che non è del tutto sbagliato avere ogni tanto, senza però cadere nell’atavismo del criminologo torinese, ma nelle labbra carnose, nel viso lungo e smunto, in quel gesto di reggere la tazzina, nello sguardo rivolto altrove, nei Ray-Ban a goccia degli anni ottanta e novanta, nel trench da personaggio da telefilm, c’è già il futuro di questo ex-perdigiorno, ex-studente fuori corso, provinciale. Come mi è già capitato di scrivere in un libretto dedicato alla “canottiera di Bossi”, resta ancora da spiegare il successo di Bossi, come il successo di ogni leader che esorbita da ogni sistema di razionalità, per quanto la politica sia la più irrazionale e imprevedibile delle attività umane. Fatte le dovute proporzioni, e senza nessuna intenzione denigratoria, molto in piccolo in quanto a risultati ed esiti – per nostra fortuna –, il successo di Umberto Bossi, il suo passaggio da vitellone a capo politico nazionale, ricorda il successo di personalità come quelle di Benito Mussolini e Adolf Hitler. Non per il contenuto dei loro messaggi politici, bensì per un carisma che deriva da qualcosa di imponderabile che riguarda la voce, l’uso del corpo, i gesti. Sono personalità imparagonabili, anche dal punto di vista umano, però una riflessione sull’uso della loro voce è imprescindibile.
Chi ascolta la voce del capo del nazismo, anche se non conosce il tedesco, e perciò con minor intensità, sente vibrare qualcosa di seducente, un elemento isterico, isteria prettamente maschile, un grido e insieme un elemento tattile che tocca le orecchie e agita il cuore, che diventa qualcosa che si insinua nello stomaco e lo colpisce con forza come un pugno che alleggerisce da tutte le frustrazioni subite. Non meno significativa è la voce di Mussolini, così come i suoi gesti esagerati, propri di un politico che ha imparato ad arringare le folle in epoca precedente l’amplificazione elettrica, una voce assertiva, con pause cadenzate, militaresca, che comanda ed esalta, che invita all’identificazione e la ottiene in quel contesto delle folle che Canetti ha ben descritto in Masse e potere. Nei due leader del fascismo che ha condotto l’Europa al disastro e alla catastrofe è implicito qualcosa che attiene a epoche lontane dell’umanità, qualcosa di magico e insieme di religioso, perché la sacralità, per quanto laicizzata e combattuta dalla modernità, continua ad esistere e ad agire nelle folle e nei singoli, nelle piazze come nel web, nella realtà materica come in quella virtuale. Il sacro ora è altrove; c’è ancora. Bossi molto più modestamente, e solo agendo in una parte limitata del nostro Paese, ha incarnato ancora questa sacralità delle voci che i creatori del digitale auditivo ed espressivo tentano di imitare con risultati per il momento insufficienti. La voce del Senatùr possiede, o almeno possedeva al suo culmine, una animalità indefinibile: profonda, ruvida, strascicata, e prima di tutto roca.
Voce maschile sensuale che seda dopo aver eccitato. Una voce a doppia azione: fomenta e rassicura. Lynda Dematteo con un orecchio femminile sensibile ha individuato nella voce di Bossi un tratto importante della sua personalità politica. Ha scritto: “Il fascino che esercita va oltre le parole, passa per il timbro di voce e la cadenza”. Vibra, e come un diapason fa vibrare le corde degli altri che, come tutti noi abbiamo verificato di persona, si trovano negli anfratti più segreti dei suoi ascoltatori. La voce della rabbia, la più incontrollabile e inafferrabile delle emozioni umane. La rabbia nasce da un sentimento di inferiorità, dalla convinzione di essere stato sminuito o insultato dagli atteggiamenti degli altri o di un altro, al singolare. La rabbia non ha colorazione politica, è pre-politica, non ha colore se non quello rosso dell’ira, del sangue che affluisce al viso. Seneca la definisce la più breve follia, quella che si accende e si spegne in un breve istante. L’ira lungamente compressa della piccola borghesia del Nord, di parte della classe operaia dimenticata, e non più esaltata dopo la fine del comunismo, la rabbia senza ideologia o con troppa ideologia invece, parlava dentro quella voce, e ha parlato a lungo fino a che il destino non ha deposto il re della Lega e lo ha consegnato a una vecchiaia quasi silente e appartata, mentre un’altra rabbia e altre voci si alzavano per prenderne il posto. Bisognerà ascoltarle queste voci, in profondità, e guardare con più attenzione le immagini per capire quello che è accaduto e accadrà d’ora in poi. In un libro esemplare e inquietante, Il corpo del Capitano (Cesura Publish) due fotografi, Luca Santese e Marco P. Valli hanno scandagliato il corpo di Matteo Salvini.
Si tratta di un libro che contiene il vaticinio su quanto sta accadendo anche in queste settimane. Una storia tutta diversa, quella di Salvini, e con esiti differenti da Bossi, ma non per questo meno allarmante, anche se ora qualcosa sembra cambiare anche per lui, proprio lui che ha combattuto la solitudine del leader politico con tutti i mezzi comunicativi a sua disposizione, dai social alle felpe, ai segni e segnali del corpo. Salvini sta veleggiando verso una zona dell’esistenza individuale dove il potere consuma chi lo incarna giorno dopo giorno. La saggezza non è certo uno dei tratti distintivi dei leader leghisti di ogni tempo ed epoca. Dai vitelloni ai vitellini? Chissà.