Thierry Ménissier / Filosofia della corruzione
I media ci aggiornano giorno dopo giorno sugli episodi di corruzione che attirano l'attenzione della magistratura: un inarrestabile saccheggio della cosa pubblica, che suscita indignazione e rabbia. Puntualmente si invocano le “mani pulite”, salvo poi beccare i moralizzatori con le mani nella marmellata, come dimostra l'esemplare parabola della Lega di Umberto Bossi e Matteo Salvini.
Ogni volta ci scandalizziamo come se fosse la prima volta, ma la corruzione e il suo uso strumentale non sono certo una novità. Alessandro Barbero focalizza il suo Dante (Laterza, 2020) sulle ragioni e sulle conseguenze del processo politico che nel 1302 condannò il poeta all'esilio perpetuo per baratteria, “il termine con cui genericamente si indicavano corruzione, concussione e peculato” (p. 155). Commentando Tito Livio, Machiavelli spiegava Quanto facilmente gli uomini possono essere corrotti, anche se sono buoni e ben istruiti, perché sono sempre pronti a “usare la malignità dello animo loro qualunque volta ne abbiano libera occasione”. In Settimo ruba un po' meno (1964) Dario Fo aveva immaginato un giro di mazzette al cimitero: trent'anni dopo, quell’invenzione satirica è diventata realtà nella Milano di Tangentopoli.
Siamo tutti nemici giurati della corruzione e della concussione, soprattutto se i delinquenti sono i nostri avversari politici. Però non riusciamo a estirparla e facciamo molta fatica a limitarne i danni.
Per Thierry Ménissier, studioso di Montaigne e di Machiavelli, facciamo anche fatica a capirla. Se la affrontiamo solo dal punto di vista giuridico o morale, sostiene nel saggio Filosofia della corruzione (Cronopio, Napoli, 2020), usiamo strumenti sbagliati. Per capire la corruzione, la sua distribuzione geografica (più in Italia che in Germania, per esempio) e la sua percezione, è necessario integrare altri saperi, soprattutto storici e sociologici.
Nella sua ricostruzione Ménissier rievoca pratiche che la modernità dovrebbe aver superato e che si basavano su un orizzonte sociale che non era fondato sui “diritti” ma sui “privilegi”: una visione che riemerge quando oggi si parla di “casta”.
Nell'antica Roma, il clientelismo identificava rapporti “di potere informali basati sullo scambio di risorse tra individui o gruppi di status diverso” (p. 84). “Il 'patrono' approfittava dei suoi mezzi per guadagnare influenza, o una autorità, e dispensa benefici a dei 'clienti'”. Viene in mente il mitico archivio di Remo Gaspari, il notabile democristiano abruzzese, dieci volte ministro, che nello scantinato della sua villa avrebbe conservato un mitico schedario con l’esito di migliaia di raccomandazioni: “Le raccomandazioni? Solo un modo per aiutare la povera gente".
L'evergetismo individua un'altra pratica diffusa nell'antichità greco-romana, quando alcuni individui, “grazie alle loro donazioni, contribuivano alla città o all'organizzazione di grandi feste pubbliche”, sulla scia di quanto indicava Aristotele, per il quale la munificenza è una virtù sociale eminente, che richiede però “la capacità di valutare accuratamente una spesa considerevole, e in un certo senso sempre eccessiva, ma senza che essa diventi sproporzionata” (p. 100). E qui vengono in mente sia i presidenti delle grandi squadre (con le loro tifoserie organizzate) sia i miliardari che si dedicano al mecenatismo.
L'Ancien Régime praticava la venalità delle cariche pubbliche: il sovrano vendeva parti del suo potere a un funzionario che pagava una licence, “sia per motivi di guadagno (ciò serve ad ammortizzare il prezzo di acquisto della carica), sia per motivi simbolici e di prestigio personale” (p. 96).
A ispirare l'approccio di Ménissier (che passa anche per l'antropologia del dono di Mauss) a un termine fin troppo ricco di significati e risonanze, sono due consapevolezze. Il primo presupposto è che la corruzione e la concussione, come le pratiche desuete raccontate nel libro, siano rese possibili dalla commistione di ordini che dovrebbero restare distinti: pubblico e privato, individuo e funzione. Oggi ci ispira la presunzione della parità dei diritti tra cittadini consapevoli e responsabili, che riconoscono la reciproca uguaglianza e agiscono in autonomia. Ma la realtà continua a essere fondata su rapporti sociali squilibrati e la libera volontà dei cittadini alla prova dei fatti non è così libera. Il secondo presupposto è che a ispirare questi comportamenti non sia solo e tanto la razionalità economica, ovvero il motore del liberalismo individualista oggi dominante, ma intervengano altre logiche. In contesti di forte disuguaglianza e scarsa mobilità sociale, la corruzione svolge paradossalmente una “funzione sociale latente” di gestione e contenimento dei conflitti: modella i rapporti sociali, genera spinte evolutive (procedendo trasversalmente rispetto alle regole stabilite), assorbe le spinte violente.
Ma è di sicuro un male, e un problema. Per Ménissier, il possibile antidoto alla corruzione risiede nel recupero delle “virtù civiche”, care al pensiero repubblicano, che non considera la società solo un insieme di individui, ma una comunità. Tuttavia in una società aperta, basata sul principio del pluralismo dei valori, non è possibile imporre un codice etico all'intera società, e nemmeno alla sua classe dirigente.
Anche perché oggi la politica si ritrova intrappolata in un doppio legame. Da un lato, nella nostra società i conflitti di interesse sono diventati endemici, come ha dimostrato Guido Rossi in Il conflitto epidemico (Adelphi, Milano, 2003) e inevitabilmente coinvolgono anche la politica. Dall'altro lato la politica si è svuotata di senso e di idealità, dopo che le ideologie sono state travolte dalla logica capitalistica e dal predominio di scienza e tecnica, come ha notato Massimo Cacciari in Il lavoro dello spirito (Adelphi, Milano, 2020). Amputata della “vocazione” e delle sue idealità, la politica si riduce a una funzione tecnica, diventa pura mediazione tra interessi, passioni e istanze contrastanti.
In una società sempre più complessa e interconnessa, i confini tra comportamenti e funzioni si sono fatti sempre più sfumati, in tutti i settori. C'è un continuum che va dalla difesa dei propri legittimi interessi al lobbying fino alla corruzione, dai conflitti di interesse alla concussione (anche senza che un euro passi di mano), dalla raccomandazione clientelare al voto di scambio fino alla gestione dei pacchetti di voti da parte della malavita organizzata. La questione non riguarda solo la politica: sono problematici i confini tra l'informazione e le pubblicità redazionali (passando per i condizionamenti determinati dalla proprietà dei media), tra la remunerazione dei manager (pagati con le azioni dell'azienda che gestiscono) e l'insider trading in Borsa (vedi le recenti vendite di azioni da parte dei manager del biotech Covid-19), tra le campagne umanitario-ambientaliste e il marketing delle aziende che vogliono rinverginare il loro logo, tra l'oggettistica di film e programmi televisivi, il product placement e la pubblicità occulta. Ai tempi di Dante e Lutero, si dibatteva di beneficenza, per guadagnarsi la vita eterna, mercimonio delle indulgenze e simonia.
Un primo antidoto è ovviamente la trasparenza: non a caso il sito che da anni documenta puntualmente i trend della corruzione a livello globale si chiama Transparency International. Sarebbe utile anche un'informazione corretta, e non scandalistica.
Meno efficaci appaiono i codici etici, sempre più diffusi, come quelli imposti dalle multinazionali predatorie a dipendenti e fornitori che non li possono ovviamente nemmeno discutere (e ai quali si chiede di abbassare i prezzi). Questi documenti sospesi tra diritto e morale sono poco più di una foglia di fico, come il mecenatismo con cui si lavano la coscienza gli ultraricchi che sfruttano impietosamente i lavoratori e le risorse del pianeta.
Di recente è stata invocata la mancanza di un codice etico per il nostro Senato della Repubblica, a proposito dell'apparizione (a quanto pare lautamente remunerata) di un rappresentante eletto della Repubblica Italiana (che dunque riceve una sostanziosa indennità grazie alle tasse dei cittadini) alla corte del sultano Mohammed bin Salman (che sarebbe oltretutto responsabile della macellazione di un avversario politico, il giornalista Adnan Kashoggi, nel consolato del suo paese a Istanbul: lo racconta l'agghiacciante documentario The Dissident).
Di fronte a episodi come questo, affiora la nostalgia per termini desueti come quelli rievocati dall'archeologia politica di Ménissier: dignità, prestigio, decoro, convenienza, onore, probità...
Thierry Ménissier, Filosofia della corruzione, a cura di Alessandro Arienzo, Cronopio, Napoli, 2020.