Fuggono e se la svignano / Distruggere le statue: una storia antica
Ci sono state fasi del passato in cui si è infierito deliberatamente su affreschi e dipinti: l'Iconoclastia nell’impero bizantino (tra VIII e IX sec.) ed episodi più circoscritti (ad esempio nella Firenze di fine '400, al tempo della predicazione di Girolamo Savonarola). Ma la distruzione delle statue punteggia ancora più fittamente tutta la storia, nel nostro Occidente, e non solo. Vengono in mente filmati recentissimi: le bombe dei Talebani che sbriciolano i Buddha della valle di Bamiyan nel 2001, i martellatori dell’ISIS che frantumano statue nel museo di Mosul in Iraq nel 2015. Rischiamo di vedere solo la superficie di queste scene di distruzione, quasi non ci fosse altro che lo scatenarsi di una violenza insensata. In una situazione rovesciata, nelle vicende seguite all’uccisione di George Floyd – la statua di Edward Colston a Bristol – rischiamo di vedere solo le buone motivazioni (la condanna dello schiavismo e del razzismo). In realtà, questa ricorrente brutalità verso le statue (è violenza anche quella di Bristol o degli USA) è una reazione paradossale alla speciale attrazione che esse continuano ad esercitare su di noi.
Prendiamo alcuni episodi avvenuti nei primi cinquant’anni del V secolo a. C. in Grecia. Un arco di tempo decisivo per la storia dell’arte dei secoli (verrebbe da dire, dei millenni) a venire: è in questi decenni che viene messa a punto quella tecnica – la fusione a cera perduta – che permetterà di realizzare strabilianti opere di scultura come i Bronzi di Riace (e migliaia di statue che abbiamo perso per sempre). Nel 480, i Persiani entrano in Grecia e arrivano ad Atene: l’acropoli viene distrutta e le statue che affollavano il santuario di Atena vengono abbattute. Si trattava di offerte votive alla dea: in particolare, le statue femminili delle korai, alcune statue equestri, altre figure di offerenti. Più tardi, gli Ateniesi seppelliranno queste rovine – in quanto sacre – in uno strato di riempimento sull’acropoli che gli archeologi definirono “colmata persiana” (una grande scoperta della fine dell’Ottocento). Su alcune di queste statue è stato possibile riconoscere segni di martellate e colpi di ascia, in particolare sui volti.
Devastare uno spazio religioso forse rientrava nelle normali operazioni di un esercito invasore e, a quanto riferisce Erodoto, era pratica normale per i Persiani; ma non è altrettanto chiara la ragione che li spinse a non toccare e, anzi, a portar via dall’agorá – la piazza principale di Atene – le statue dei Tirannicidi eseguite da un artista di fama, Antenor; era un monumento con una forte connotazione politica, dato che raffigurava Armodio e Aristogitone, i due amanti che nel 514 avevano ucciso il tiranno Ipparco.
Nello stesso anno in cui i Persiani aggredivano Atene, nel santuario di Olimpia si svolgevano le gare quadriennali in onore di Zeus: nel pugilato vinse Theagenes di Taso, che trionfò anche nel pancrazio (un tipo di lotta) nell’olimpiade successiva. Una forza favolosa, e un singolare rapporto con le statue: si raccontava che a nove anni, tornando da scuola, avesse visto una statua bronzea nella piazza del mercato, l’avesse strappata dal piedistallo e portata a casa; non venne punito, perché qualcuno intuì nel bambino doti eccezionali, ma venne costretto a riportare il bronzo al suo posto. La celebrità ottenuta, grazie a una serie impressionante di vittorie in altre competizioni internazionali, gli aprì la strada alla carriera politica in patria, a Taso, un’isola dell’Egeo settentrionale.
Alcuni scrittori greci di età imperiale – Dione di Prusa e Pausania – raccontano su di lui una storia che spiega in modo straordinario (al di là delle prevedibili coloriture mitiche) quale fosse il rapporto degli antichi con l’oggetto-statua. Theagenes aveva ben meritato e onorato la patria, e per questo i concittadini gli eressero una statua; dopo la sua morte, un avversario politico per più notti di seguito si mise a frustare il bronzo, fino a che, una volta, esso rovinò giù e lo uccise. I parenti del morto intentarono un processo, e ottennero che la statua, in quanto colpevole, venisse gettata in mare. Ma non è finita. Passano gli anni e l’isola viene investita da una carestia; gli abitanti mandano una delegazione al dio di Delfi, che ordina (oscuramente, come al solito) di far rientrare gli esuli. Ma la carestia permane, e dopo una seconda richiesta a Delfi, finalmente si ottiene una risposta chiara: “avete dimenticato il vostro grande Theagenes”. Alcuni pescatori riescono a recuperare la statua, che viene ricollocata al suo posto, dove otterrà onori quasi divini (anche perché aveva il potere di guarire).
Questi sono gli elementi interessanti del racconto (e poco importa se vanno attribuiti alla Grecia classica o all’età imperiale): le sculture sono di per sé affascinanti (se pure un bambino vorrebbe possederne una); le statue incorporano qualcosa della persona vera (percuotere il bronzo era come far male al defunto); le immagini scolpite possiedono un’efficacia speciale (puniscono il violento aggressore, risolvono una crisi climatica).
Il problema della violenza sulle statue non riguarda solo i Persiani o i barbari, gli Altri. Il secolo che si era aperto con la distruzione dell’acropoli, si chiude con un episodio drammatico e tutto interno al mondo greco; una vicenda che risultava misteriosa per gli antichi e ancora interroga gli storici moderni: la mutilazione delle erme – plinti marmorei sormontati da una testa e a volte provvisti di genitali – ad Atene; era il 415 a. C., nel mezzo della Guerra del Peloponneso, la notte prima della partenza dell’esercito ateniese verso la disastrosa spedizione in Sicilia.
In Grecia si diceva che le opere di Dedalo – il mitico scultore – fossero mobili; lo dice per gioco anche Platone, nel Menone: “queste statue, se non sono legate, fuggono e se la svignano, mentre, se sono legate, restano”. Nel dialogo L’amante della menzogna, Luciano di Samosata (II sec. d. C.) parla della statua di un certo Pellico, che scende dal piedistallo e conduce una sorta di vita notturna. Un motivo ricorrente, quello delle statue che si animano (tanto che arriva fino al Novecento). Affiora anche nella Vita di Nerone scritta da Svetonio: la situazione va precipitando e, una notte, l’imperatore ha un incubo, trovarsi circondato dalle statue che ornavano il teatro di Pompeo.
Poi Svetonio parla di statue vere: prima della caduta di Nerone, alcuni appendono scritte contro di lui ad alcune sue immagini scolpite. E poi, alla sua morte segue la damnatio memoriae (curiosamente si tratta di un’espressione coniata dagli studiosi moderni): il suo nome viene eraso dalle iscrizioni, le statue distrutte, i ritratti danneggiati (a volte anche quelli sulle monete). Tutto questo accade – è un dato da sottolineare – non perché la furia popolare si scateni in maniera incontrollata, ma in seguìto a una precisa sanzione legale emessa dal senato. Questa cancellazione della memoria avviene spesso anche senza distruggere le statue, rilavorando i ritratti degli imperatori caduti in disgrazia: un’immagine marmorea di Nerone, ad esempio, viene trasformata in quella di Domiziano e poi in quella del successore Nerva.
Non succede solo alle sculture a tutto tondo. A Roma, nei rilievi dell'Arco degli Argentari – agli inizi del III sec. d. C. – ci sono dei vuoti improvvisi, perché alcune figure (Commodo, Geta, Plautilla, Plauziano) sono scomparse, abrase dallo scalpello per ordine di Caracalla.
Rimaniamo in età imperiale. Dione di Prusa (detto anche Crisostomo, “dalla bocca d’oro”) è uno degli scrittori che hanno ripreso la storia di Theagenes; la inserisce in una lunga orazione rivolta agli abitanti di Rodi, criticati perché i loro governi avevano da tempo adottato una scelta disdicevole: quando volevano onorare un cittadino per i suoi meriti verso lo Stato, invece di far erigere una statua, piazzavano una nuova iscrizione sotto una di quelle già esistenti. Era una consunzione, più che una cancellazione della memoria (possiamo immaginare che la scelta toccasse a persone di cui si era affievolito il ricordo); più che una questione economica, era forse un problema di spazio (secondo Plinio, e non è detto che sia un’iperbole, a Rodi c’erano addirittura 3.000 statue). In ogni caso, questa pratica ci parla ancora una volta della relazione che gli antichi avevano con le immagini statuarie: se per onorare un benefattore civico bastava aggiungere il suo nome e le sue imprese alla scultura di un altro, vuol dire che il vero ruolo della statua era quello di rendere presente il personaggio al di là della somiglianza dei volti, senza ogni preoccupazione per l’imitazione delle fattezze esteriori; una figura umana in scultura è capace di infondere vita a un nome inscritto nella pietra. Vengono in mente le riflessioni di Jean-Pierre Vernant a proposito dell’idea di kolossós nella Grecia arcaica, la presenza reale degli dèi (o dei defunti) nei simulacri di pietra, mediazione tra il mondo visibile e quello invisibile.
Un solo nome, iconoclastia, ben difficilmente può adattarsi a tutti questi episodi e a tanti altri che – vicini o lontani nel tempo, prossimi o distanti nello spazio – riguardano la distruzione delle immagini. Senza contare che esistono situazioni intermedie, in cui l’immagine viene censurata o ne vengono eliminate delle parti. La casistica è talmente ampia e diversificata da disorientare. Chi direbbe, ad esempio, che in Italia è ancora al suo posto il frammento di una grande statua distrutta tre volte per ragioni politiche nel corso del Novecento? Parlo del Monumento all’Alpino di Bruneck-Brunico, eretto la prima volta durante il Fascismo, abbattuto negli anni Quaranta, ricostruito nel 1951 e semidistrutto da una bomba nel 1966, nel pieno del conflitto che opponeva attivisti sudtirolesi allo Stato italiano; di nuovo risistemato pochi anni dopo, e ancora colpito da un’esplosione alla fine degli anni ’70. Della statua rimane oggi poco più del busto, monumento agli alpini e monumento all’atto distruttivo contro le statue.
Nell’innumerevole sequenza di occasioni in cui le immagini vengono prese di mira, le statue fanno insomma una parte del tutto speciale. Nei manuali di storia dell’arte esse vengono presentate sotto la voce “scultura”, accomunate con altri tipi di opere in base al fatto che per le une e per le altre si ricorre alle stesse tecniche e agli stessi materiali. Ma se consideriamo le forme con cui queste opere entrano nella vita quotidiana degli uomini e delle città, tra l’una e l’altra – ad esempio, tra i bassorilievi e le statue – passa una grande distanza. Le statue, infatti, coi loro movimenti, con le loro posture, con le loro stesse dimensioni, interpellano continuamente il passante che le guarda mentre percorre le strade della città, il fedele che le venera all’interno delle chiese, il visitatore che le ammira nei musei. Più di quanto avvenga con le immagini dipinte, le statue ci appaiono come corpi di pietra (o di bronzo) che provocano, chiamano da fuori il nostro corpo.
Salutiamo le statue. Nel I secolo a. C., Lucrezio ricorda le statue di bronzo le cui mani destre andavano assottigliandosi a forza di essere sfiorate da quelli che le salutavano. E così, fino a pochi anni fa, si faceva con la statua di Josip Broz (Tito) eretta a Kumrovec, il suo paese d’origine in Croazia.
Baciamo le statue. Lo fanno da secoli i fedeli con il piede della figura bronzea di san Pietro nella basilica vaticana, ma anche – tradizione ben più recente – con la lastra tombale (ottocentesca o rinascimentale che sia) di Guidarello Guidarelli a Ravenna.
Vestiamo le statue. L’immagine colossale di Atena, all’interno del Partenone, veniva ritualmente ricoperta di un nuovo peplo ogni quattro anni. In tutta Italia, dall’età rinascimentale in poi, è ben testimoniato il fenomeno delle “Madonne vestite”: statue della Vergine ricoperte e abbellite da vesti vere e proprie.
Facciamo parlare le statue: a Roma, dal Rinascimento in poi, sono a loro modo protagoniste della vita politica e culturale urbana le due statue “parlanti” dei cosiddetti Marforio e Pasquino.
Insomma, quando abbiamo a che fare con le statue, accanto al momento della curiosità, dell’apprezzamento estetico, della venerazione religiosa, entrano in gioco altri livelli, ben più profondi. Nel rito di purificazione degli attuali distruttori di statue affiora di nuovo lo schema arcaico che fa coincidere un’immagine con il suo prototipo, come se nella statua continuasse a darsi la presenza dell’uomo da venerare o da odiare. Su ben altra posizione stavano i teologi medioevali che – sto banalizzando al massimo – consideravano impossibile contenere la grandezza divina nell’immagine prodotta da mani umane. Alla fine, quelli che infieriscono oggi sulle statue degli schiavisti assomigliano di più all’avversario di Theagenes, che ne percuoteva tutte le notti la statua convinto di punirlo a dovere.