Camminare nella Roma di Pasolini
Una passeggiata lungo il Parco degli Acquedotti può raccontare molto dell’antico legame tra la città e il territorio circostante. Partendo dallo storico quartiere del Quadraro vecchio ed entrando nel Parco all’altezza di Tor Fiscale – limitrofa anche al Parco della Caffarella – quindi seguendo le monumentali rovine in direzione di Frascati e dei Colli Albani.
Un lungo tragitto, in cui si costeggiano imponenti vestigia architettoniche, diventa un viaggio nelle profondità della storia antica e recente. Per chilometri le alte arcate degli acquedotti romani (Acquedotti Iulia, Vetus, Claudio, Marcio), frammenti o larghe parti di esse si alternano a quelle più basse e tardo rinascimentali dell’Acquedotto Felice. È un paesaggio immobile e straordinariamente abbracciato a un tempo che non è presente, non è passato ma che sembra contenerli entrambi: tutto intorno testimonianze di quello che deve essere stato nei secoli il destino del luogo.
Di lato al sentiero, giovani ulivi messi a dimora in memoria della vita di qualcuno, crescono di fronte alle antiche rovine; larghe balle di fieno sono adagiate sulle falde di una campagna apparentemente deserta, siepi in fuga verso i loro confini, talvolta la rara presenza di un gregge di pecore bianche.
Una quotidiana normalità e la pressoché completa assenza dei turisti restituisce la percezione di come questi luoghi potessero essere sempre stati, giù, lungo il tempo della società preindustriale. Un tempo che qui miracolosamente, ancora oggi, non sembra estraneo al nostro. Appena più in là, alcune linee ferroviarie da e per la città mentre dall’altro lato corre il caos vitale di Via Tuscolana che è già la Roma di oggi e di ieri.
Immaginando la scena in bianco e nero sembra di potervi ancora intravedere Vittorio Gassman in I soliti Ignoti, che negli anni Cinquanta apostrofa un pastore (ah pecorà che ore so?) che con il gregge attraversa di notte la strada all’altezza di Don Bosco. Dall’altro estremo, nei pressi di Tor Fiscale, è possibile trovare tracce delle prese abusive della luce e l’intonaco di calce bianca come segno residuo di misere casupole addossate sulle arcate di pietra. Sono quelle che Pier Paolo Pasolini nei suoi primi anni romani vedeva nel tragitto quotidiano che lo portava alla scuola di Ciampino dove insegnava: “…sui muraglioni dell’acquedotto ricoperto da casette piccole come canili e strade buttate lì, abbandonate al solo uso di quella povera gente “
Camminare dentro e tra Via Tuscolana e Il Parco degli Acquedotti è un’esperienza per certi versi unica a cavallo tra il presente e un passato che riesce ancora ad abbracciare i nostri giorni, qui nell’“alito” di una città come Roma, qui in uno dei suoi municipi e delle aree più popolate a livello europeo. È uno stretto “confine” quello tra via Tuscolana e il Parco degli Acquedotti dove contemporaneità e il tempo delle generazioni sembra sovrapporsi senza contraddizioni.
Sceglievo spesso questa camminata quando per qualche mese ho abitato a Roma, lavorando nello staff dell’allora ministro Lorenzo Fioramonti.
Ma è stato un paio di anni dopo che la lettura di un piccolo libro di Francesco Aliberti e Roberto Villa – Pasolini a scuola, Compagnia editoriale Aliberti 2022 – mi ha fatto ritrovare quei paesaggi attraverso immagini dello scrittore, all’alba della sua vita romana. Nell’ultimo capitolo del libro La scuola di Pasolini non è infatti quella di lui studente ma quella di lui giovane professore a Roma tra il 1951 e il 1954.
Partiva da casa nella zona di Rebibbia in autobus e poi dopo un cambio a Portonaccio andava a Termini; da lì in treno fino a Capannelle e quindi a Ciampino; questo agli inizi della sua nuova vita a Roma. È anche in quei lunghi viaggi quotidiani che deve aver conosciuto la sfolgorante bellezza della città e insieme le evidenti contraddizioni di quei tempi. “Finalmente, dunque, avevo trovato un lavoro, che mi veniva pagato venticinquemila lire al mese: io, felice, disperato, ogni mattina affrontavo il lungo viaggio che si concludeva a pomeriggio avanzato sotto il sole che oramai cominciava a declinare sulle infinite tremende periferie” (Il treno di Casarza, in Un paese di Temporali e di primule, a cura di Nico Naldini, Guanda).
Oppure a proposito dei luoghi dove quei viaggi quotidiani cominciavano “ …c’era un palmo di polvere d’estate e la palude d’inverno. Ma era l’Italia, l’Italia nuda e formicolante, con i suoi ragazzi, le sue donne, i suoi odori di gelsomini e di povere minestre, i tramonti sull’Aniene…e quanto a me i miei sogni integri di poesia”.
Allora, agli inizi degli anni Cinquanta quell’Italia formicolante stava andando, anche se in maniera non ancora evidente, verso l’ormai prossima società dei consumi, verso quella trasformazione antropologica delle sue genti che Pasolini visse in prima persona e che seppe vedere, raccontare, criticare, “distillare” in molte sue opere.
C’è un filmato del 1949, disponibile negli archivi Rai e anche in rete che racconta bene il periodo agli albori della vita romana di Pasolini; sono immagini che ancora possono parlarci più di ogni trattato, sorta di simbolico inizio.
Solo nel 1954, in un’Italia ancora stracciona, Alberto Sordi sarà “Un americano a Roma” ma già nel 1949, sempre a Roma. accade qualcosa per certi versi rivelatore, sorta di rito di passaggio tra due epoche diverse.
Nel 1949 Pasolini dunque non è ancora in città. Ci sarà di lì a poco, ad inizio1950, fuggito con sua madre dallo scandalo di Ramuscello e dal processo che ne seguì. Ma il periodo è quello, è da quegli anni che dapprima la sua vita e poi la sua opera cominciano a essere intrise costantemente della presenza di Roma, della sua bellezza, della brulicante vita delle borgate, delle sue contraddizioni,
Nel 1949 Tyrone Power sposa Linda Christian: il “secondo matrimonio del secolo”, secondo la stampa del tempo: per sfondo c’è la città più di ogni altra indifferente ai secoli e che pur appare scossa da quell’evento.
Il matrimonio in chiesa è in realtà un set cinematografico; i luccichii dello star system scendono dagli schermi e si confondono alla realtà mentre questa sta cambiando pelle: Tyrone Power e Linda Christian sono divi del cinema in technicolor, nella vecchia pellicola in bianco nero del cinegiornale, appaiono come echi viventi dai tratti rinascimentali, angeli di una modernità sfavillante che attraversa la città.
La limousine si muove tra una folla sciamante poi verso San Pietro dove li aspetta Papa Pio XII. Nella città eterna si celebra un matrimonio tra star ma si assiste anche a una rottura, a un improvviso strappo di modernità su di un ordine millenario; sembra già l’incresparsi frivolo e irresistibile della superficialità del vivere nel ventre della tradizione dentro cui tutti fino ad allora erano vissuti. Nella benedizione del papa c’è anche il rovesciarsi del tempo e delle regole; il sacro sembra omaggiare l’incalzante modernità, l’eternità che s’inchina alla finzione.
Il presente freme e non si sa dove porterà ma non sembra possibile resistergli. Un nuovo avvenire era alle porte e sembrava potesse essere solo meraviglioso.
Poco più di dieci anni e ormai Pasolini conosce tutto di Roma o quasi; le periferie della città dove le vestigia del passato si mescolano al caos disordinato del progresso sono il teatro di molto della sua vita e della sua opera. Come nel film Mamma Roma (1962) dove le rovine degli acquedotti e ì palazzoni del nuovo Quadraro sono lo sfondo e il contrasto le une degli altri. Nella realtà quotidiana è quella la campagna residuale tra prati, casolari, asfalto e strade polverose, con i primi enormi edifici anonimi a sfiorare il profilo di acquedotti secolari… con i ragazzi incontrati da qualche parte quando fuori si fa scuro.
Oppure nel film La ricotta dell’anno successivo, dove nel Parco della Caffarella, è raccontata l’apparente stralunata storia di un giorno di riprese su un set cinematografico mentre vengono girate scene relative alla passione di Cristo. Stracci, comparsa nella finzione e protagonista del film, è un povero popolano nelle veste di uno dei ladroni. Sullo sfondo i nuovi palazzi di una città che cresce disordinatamente si alternano ai resti di imponenti rovine.
Nelle pause delle riprese le comparse ballano il twist, il ballo americano di quegli anni, colonna musicale dei tempi nuovi.
Quel twist sembra il contraltare del presente sulla finzione cinematografica della passione che ha nei figuranti le forme dei quadri del Pontormo e di Rosso Fiorentino, con le loro figure inquietanti, carnee prima di essere spirituali. Quelle figure nel film hanno le facce e i corpi del popolino romano. L’epilogo è che Stracci muore sulla croce – davanti al produttore con tutto il suo codazzo – per l’indigestione degli avanzi della scena dell’ultima cena.
Poco prima, la campagna con i nobili ruderi sullo sfondo, resta indifferente a ogni modernità mentre sul set irrompe la musica: una comparsa, travestita da cherubino, balla ancora il twist.
Il film è anche una metafora del sovrapporsi dei tempi che sono sempre stati e quelli della travolgente contemporaneità, la sua invadenza destabilizzatrice.
Tra i casermoni in costruzione e le rovine del Parco della Caffarella, tra Via Tuscolana e il Parco degli Acquedotti tutto questo era avvertibile, era insieme contemporaneità e il tempo sacro e profondo della storia.
Quella sovrapposizione veniva raccontata per immagini in un film o attraverso le parole in una poesia.
“Un solo rudere, sogno di un arco,
di una volta romana o romanica,
in un prato dove schiumeggia il sole
…il rudere è solo: liturgia
e uso, ora profondamente estinti
vivono nel suo stile – e nel sole …
Fai pochi passi, e sei sull’Appia
o sulla Tuscolana: lì tutto è vita,
per tutti. Anzi, meglio è complice
di quella vita chi non ne sa stile
e storia. I suoi significati
si scambiano nella sordida pace
insofferenza e violenza. Migliaia,
migliaia di persone, pulcinella
di una modernità di fuoco, nel sole…
(Poesia 10 Giugno, 1962)
In una mattinata festiva di Luglio del 2021, a metà di via Tuscolana, con una mia amica, diretti verso gli acquedotti. Andavamo dunque verso “…un solo rudere, sogno di un arco, di una volta romana… in un prato dove schiumeggia il sole”.
Erano i giorni della fase finale degli Europei di calcio, nei bar venivano montati all’esterno gli schermi televisivi per sere di birra e di calcio; ancora pochi giorni e l’abbraccio tra Vialli e Mancini sarebbe stata una delle immagini più belle dell’estate. Attraversiamo Via della Tuscolana mentre un rumore di clacson ci distrae; dalla direzione del centro la coda di automobili è già lunghissima e si sta formando anche in direzione opposta, proveniente da Don Bosco. Risaliamo la coda e scopriamo la ragione: una BMW scura e vistosa, in sosta in doppia fila non lontano da un bar pizzeria, impedisce all’autobus di invertire la direzione di marcia. Qualcuno entra nel locale ma non sembra accadere niente. Solo dopo esce uno, lentamente; indifferente, esibendo tutta la calma del mondo ma non va verso l’auto come ci immaginiamo; cammina verso l’autobus dove il conducente è restato sempre fermo al suo posto, le porte chiuse: il tipo si avvicina al vetro con tutta la calma del mondo; con l’avambraccio proteso, la mano a forma di pistola, abbassa il pollice nell’atto di sparargli, Si gira, sale in auto, riparte con calma verso Don Bosco e Cinecittà, fine della scena.
Io e Giovanna ci guardiamo e restiamo lì, lì su quella strada, “…lì tutto è vita per tutti… I suoi significati si scambiano nella sordida pace insofferenza e violenza… Migliaia, migliaia di persone, pulcinella di una modernità di fuoco, nel sole