Carla Cerati: lo sguardo di Antigone
“Per anni ho sentito parole agitarsi dentro di me: ubbidienza, sacrificio, gratitudine, lavoro, onestà, castità, maldicenza, verginità, educazione”, “ora questa montagna di parole si è condensata ed è esplosa: non sarò mai più la stessa, ma voglio essere me stessa”. È il 1975 e queste sono le parole con cui la fotografa e scrittrice Carla Cerati conclude il suo romanzo Un matrimonio perfetto, appartenente alla trilogia pubblicata con il titolo di Una donna del nostro tempo, ispirata alla sua vita, a cui ne seguiranno molti altri.
La protagonista, archetipo della casalinga disperata, versione anni Sessanta, non ha scampo: è imprigionata in un ruolo di moglie e di madre, senza alcuna via di fuga, nemmeno nelle illusorie scappatelle extraconiugali a cui tenta disperatamente di aggrapparsi. Non esiste alcun universo alternativo, mitico, favoloso, sognante o liberatorio. “Io fedele Penelope stavo a casa”, “e Fabrizio altrove”, dice la protagonista del romanzo. Nessuno spiraglio, nemmeno sulla carta. Ma sin qui domina pur sempre la finzione letteraria. Il passo successivo sarebbe quello di irrompere nella realtà. E Carla Cerati ci riesce: continua a scrivere per tutta la vita, affidando alla scrittura l’analisi del suo passato e con la macchina fotografica si immerge nel presente e nella ricerca del proprio sguardo.
Com’è quello sguardo? Ribelle, libero, anticonformista? Non solo. Si tratta di uno sguardo particolare, affidato a quello di un personaggio femminile che è tuttora di estrema attualità: Antigone, forse nella sua versione più intensa, a cui la fotografa ha dedicato molte delle sue immagini. Questa è la storia della sua genesi.
Carla Cerati, scomparsa in questi giorni, inizia la propria carriera come fotografa di scena. Nel 1960 fissa su pellicola Aspettando Godot di Tullio Pendoli, lavora per la compagnia del regista Franco Enriquez, fotografa il ballerino di flamenco Antonio Gades conosciuto nel 1969 quando era a Milano per uno spettacolo alla Scala, immortala la pièce Wielopole Wielopole di Tadeusz Kantor rappresentata a Firenze nel 1980 e nello stesso anno una performance del gruppo Bread and Puppet di Peter Schumann.
E poi fotografa il Living Theatre, la creatura Off-Broadway, sorta nel 1947 a New York dall’incontro fra Judith Malina e Julian Beck, che rappresentano molti dei loro spettacoli anche in Europa. Gli scatti di Carla Cerati fissano i volti degli attori e le vibrazioni dei loro corpi: dapprima l’Antigone nel 1967 al Teatro Durini di Milano, poi le figurazioni allucinate del Frankenstein nel 1968 a Modena, e nello stesso anno le fotografie di Paradise Now, scattate nell’ambito del Festival del teatro di Avignone due mesi dopo il Maggio francese, le stesse immagini che nel 1970 Franco Quadri include nel suo saggio dedicato al famoso happening.
Ma è l’Antigone ad affascinare in maniera particolare la fotografa. Lo spettacolo che lei immortala nel 1967, scaturisce dallo studio dell’album fotografico e delle note dell’Antigone sofoclea tradotta da Hölderlin, ma rivisitata in chiave politica da Bertolt Brecht nel 1948. Non solo nel 1974 Carla Cerati espone ottanta fotografie di scena dell’Antigone in una mostra alla galleria Primopiano di Torino, ma in seguito riprende le immagini del Living, le scruta, le modifica, le stravolge. Realizza otto fotografie che lei denomina Elaborazioni sull’Antigone. In seguito ne isola alcuni particolari ampliando la drammaticità del dettaglio; nel 1983 ingrandisce nuovamente le fotografie e sperimenta diversi viraggi, ottenendo “ingrandimenti sgranati che paiono sindoni di anime torturate”, scrive Uliano Lucas.
Perché tanta insistenza? Cosa accomuna lo sguardo di Antigone, la giovane fanciulla che disobbedisce alle leggi del tiranno Creonte e decide di seppellire il fratello Polinice, allo sguardo della fotografa? Cosa vuole suggerire Carla Cerati attraverso il volto di Antigone/Judith Malina? Non si tratta forse di quello sguardo sconvolto ma allo stesso tempo lucido e tenace, che oppone la fragilità al dispotismo del potere?
Carla Cerati, Senza titolo, (al centro Judith Malina nell’Antigone, spettacolo del Living Theatre al Teatro Durini di Milano), s.d. (1967)
Ma chi è davvero Antigone? E ancora: “quanto l’Antigone nei nostri anni ci parla dell’Antigone sofoclea e quando invece di noi?”, si chiede Rossana Rossanda in un suo saggio. Antigone è un insieme di doppi: la persona e lo stato, ciò che è legge e ciò che è giusto, l’amore e la morte. Sono questi i dilemmi che ne caratterizzano il destino. Ma un ben moderno destino, scrive ancora la Rossanda, se è vero che Antigone è definita dal Coro “autónomos, come colei che da sola si dà la sua legge”, al massimo della “coscienza di una solitudine a nessuno imputabile se non a sé”.
“Ōmós è il suo carattere, dirà ancora di Antigone il Coro (…) letteralmente al di là dell’umano, un’ostinazione inflessibile”, sino all’estrema conseguenza. Per questo, anche prese la dovute distanze, conclude la studiosa, “ci scopriamo come Antigone nelle sue ultime ore. Come lei non crediamo alla sacralità dei potenti (…), come lei siamo determinati ad affermare, in solitudine, l’io, anche se il suo io non ha molto a che fare col nostro. Ci uniscono il principio d’autonomia e di disobbedienza”.
Così è lo sguardo di Carla Cerati: disobbediente e ostinato perché autonomo. Per lei, madre di due bambini, sposata e casalinga, fotografare ha voluto dire “uscire dalla gabbia”, scoprire l’universo fuori dalla porta di casa, ma anche se stessa: i desideri, le aspirazioni, la possibilità di esprimersi. “Per me fotografare”, racconta Carla Cerati, “ha significato la conquista della libertà e anche la possibilità di trovare risposte a domande semplici e fondamentali: chi sono e come vivono gli altri? Lavorano? E se sì, dove lavorano? Quali sono i mestieri, le professioni e i luoghi in cui le svolgono? Come trascorrono il tempo libero?”.
Un bisogno di indipendenza e “autonomia” che giunge direttamente alle sue immagini in cui essa arriva a creare un’istante ideale, dove riesce a far vivere i soggetti che fotografa in una dimensione di libertà illimitata, un imprescindibile diritto ad esistere, senza rinunciare al suo punto di vista, al bisogno di guardare in modo nuovo il mondo che la circonda.
In questo spazio fluido, vero e proprio luogo di incontro tra diverse soggettività, i volti degli uomini, i corpi, le città – nient’altro che quegli uomini, quei volti, quelle città – vivono unicamente della loro essenza, nel singolo istante fissato dall’obiettivo, e tuttavia incarnano l’idea della fotografa e il suo bisogno di trasmetterla, una pulsione verso il cambiamento e la trasformazione di una data realtà, come se la fotografia (e la scrittura) avessero il potere di spingersi al di là della stessa rappresentazione, per poi tornare al cuore del soggetto rappresentato.
Per questo lo sguardo di Carla Cerati è allo stesso tempo trasparente e bulimico, uno sguardo a cui non può sfuggire nulla, poiché tutto intorno a lei è degno (come per la sua vita) di avere il proprio spazio di libertà e “autonomia”, dato dall’irriducibile autonomia dell’immagine fotografica.
Il mondo intero entra nel suo obiettivo, con l’ostinazione di chi non intende tralasciare alcun dettaglio: l’esperienza sconvolgente e indimenticabile del fotografare i malati dei manicomi con Gianni Berengo Gardin, poi confluita nel celebre volume Morire di classe (1969) curato da Franco Basaglia, che essa considerava come la sua “eredità simbolica”. O ancora l’eccentricità e l’opulenza delle classi protagoniste del boom economico, anticipazione della “Milano da bere”, i cui soggetti sono raffigurati come maschere deformate in Mondo Cocktail (1974), il corpo femminile con le immagini di una scultorea bellezza nel libro intitolato Forma di donna (1978) e quelle a colori di Forma Movimento Colore. Nudo Danza, realizzate nel 1987-1988 con la collaborazione della danzatrice Valeria Magli.
Carla Cerati, Ospedale psichiatrico di Gorizia, 1968, da Morire di classe a cura di Franco Basaglia
Carla Cerati, Senza titolo (Inaugurazione del negozio di arredamento di Nucci Valsecchi e Willy Rizzo a Milano, dalla serie “Mondo Cocktail”), s.d. (1970)
Carla Cerati, Senza titolo, (dalla serie “Nudo di donna”), s.d. (1973)
E poi i foyer della Scala, i mutamenti della città e le sue ferite nel ciclo intitolato Milano Metamorfosi (duecentodiciassette fotografie divise in capitoli come un romanzo), le lotte studentesche, i funerali di Giangiacomo Feltrinelli e degli studenti uccisi negli anni Settanta, il processo Calabresi-Lotta Continua, il mondo della scuola, quello delle balere degli immigrati nella vecchia Milano, i ritratti degli intellettuali: Eugenio Montale, Elio Vittorini, Italo Calvino, Pier Paolo Pasolini.
Carla Cerati, Senza titolo (Processo Calabresi-Lotta Continua. Calabresi in aula, dalla serie “Milano Metamorfosi”) s.d. (1970)
E infine cosa può insegnare oggi il lavoro di Carla Cerati? Il coraggio, il rifiuto di ogni ipocrisia, la forza della propria irrinunciabile unicità. Alle soffocanti convenzioni del mondo borghese, in cui la donna era solo una presenza invisibile e silenziosa, la fotografa/scrittrice oppone nell’unione con il tutto e nel sentirsi parte dell’universo, una conoscenza vissuta come capacità di liberarsi da ogni forma di egoismo, per partecipare, nelle vesti di attrice e spettatrice, al fluire degli eventi.
Una disposizione all’apertura verso la realtà, che fa dell’erranza una condizione necessaria, affinché sia possibile restituire alla cultura e alla politica, come suggeriva Lea Melandri, “quel retroterra di esperienza, confinata nelle case e nel corpo delle donne”, poiché insieme al corpo possa prendere posto “nella polis, la “persona”, vista nell’interezza delle sue molteplici identità e appartenenze, sociali, sessuali, linguistiche, culturali”.
Questo articolo è stato pubblicato originariamente in forma diversa e più estesa sulla rivista “Nuova Prosa”.