Carmelo Bene, il corpo della poesia
Imberbe, consideravo sublimi i seguenti versi di Eugenio Montale (Nobel per la letteratura 1975): “Nuvole in viaggio, chiari / reami di lassù! / D’alti Eldoradi / malchiuse porte!”. Oggi, nonostante la perdurante incontestata grandezza dell’autore, provo disagio a quel ricordo. “Chiari reami... alti Eldoradi...” e con l’esclamativo, mah. Io stesso, oltre a voler fare l’attore, scrivevo poesie che rilette poi altro che disagio, persino il fuoco in cui sono state bruciate crepitava infastidito. Penso di essere stato tutt’altro che un’eccezione nel mio inesprimibile mal d’essere e nella precoce anemia culturale, allora curata con dosi massicce di Editori Riuniti (dover essere marxisti), con gli Oscar Mondadori, i primi libri in edicola (scoperta e godimento della grande letteratura), con alcuni Einaudi (i gioielli della corona) e infine alcuni rivelatori Adelphi (René Daumal su tutti). Era il fecondo disordine degli anni sessanta, per chi galoppava verso i vent’anni.
Per questo, a chi volesse incontrare Carmelo Bene, e mi sentirei di giurare che ne vale la pena, consiglierei anzitutto di leggere qualcuna delle note che diversi autori hanno dedicato alla sua vita antilogica e di farlo prestando attenzione a come ha attraversato quei decenni cruciali della storia italiana, sempre osservandolo sullo sfondo variegato della sua generazione (era nato nel 1937) e rimarcando quale fosse il suo atteggiamento rispetto alla travolgente mutazione antropologica che stava conoscendo l’Italia. In molti casi, la differenza di cui era portatore emerge vistosamente, basti pensare a come si differenziava dai suoi coetanei, soprattutto nel fatidico 1968: gli altri, per lo più capi di varie sigle e istanze rivoluzionarie, lui che leggeva quel movimento come una inesorabile e volgare regressione. In Nostra Signora dei Turchi (1968), secondo me il più bel film italiano del dopoguerra, un CB (così voleva essere chiamato per spersonalizzare ciò che rappresentava) trentenne parla dei propri “vent’anni”, del taglio con le radici familiari e dell’attrazione fatale per un’arte dissacrante (o risacralizzante); lo fa con il senno di poi di un artista ormai affermato, mentre i ventenni del ’68 erano per lo più entusiasti e ciechi soldatini. Lui la vedeva così: “Se si vuole davvero cambiare qualcosa, bisogna cominciare a cambiare sé stessi, andare contro sé stessi fino in fondo. Il massimo impegno civile è l’autocontestazione […] ogni rivoluzione è volgare se non è diretta contro sé stessi […] è il padrone che è in noi che bisogna uccidere”. Come dire che la crudeltà (Artaud) è da riservare anzitutto alla prima persona singolare. Sembrano le parole di un Buddha, sono soltanto quelle di un materialista dalla vista lunga. Per ogni eccezione come CB c’erano migliaia di capi e capetti, non di rado ‘carismatici’, ai quali della poesia e di uno stile grottesco come il suo non poteva fregare di meno, anzi lo ignoravano, quando non lo schifavano in nome dei loro realismi rivoluzionari.
Come milioni di suoi coetanei, anche il ragazzo salentino, prima di salire diciottenne a Roma per farsi la propria vita, aveva scritto poesie. Ora sappiamo che era un genio, ma ciò non toglie che quelle poesie non siano un granché, il che significa che non è grave scrivere brutte poesie a quell’età, il peccato mortale è ostinarsi a crederle cose degne di culto, il peccato è non cambiare. E cambiare, nel suo caso, ha significato esattamente sviluppare un’altra idea di poesia.
CB ha frequentato Montale negli anni sessanta e in un capitolo della sua prima autobiografia, Sono apparso alla Madonna (1983) lo cita per esteso, non i suoi versi però, soltanto per un passaggio da inserire in una delle proprie grandiose tirate contro il teatro del tempo. Il Montale citato: “Il tempo si fa più veloce; opere di pochi anni fa sembrano ‘datate’ e il bisogno che l’artista ha di farsi ascoltare, prima o poi diventa bisogno spasmodico dell’attuale, dell’immediato”. Il poeta laureato non sta parlando di sé, sta fiancheggiando l’uomo di teatro che ammira e che si servirà di questa premessa per discettare sulla regia (inane sudditanza dai testi e solipsismo interpretativo) e così conclude: “C’è una grande sterilità in tutto questo, un’immensa sfiducia nella vita”. CB, uomo di teatro anzi artista a tutto campo e quindi anche regista, dimostrava la propria fertilità e fiducia nella vita (o abbandono) invocando la partitura in vece del copione, dunque un teatro da intendersi come musica, non illustrazione dei testi ma “ricreazione originale”, soprattutto dei cosiddetti classici. L’ex poetastro adolescente aveva preso la mira, la poesia era diventata per lui qualcosa di coincidente con la creazione scenica, creazione che in quegli anni aveva una chiara dominante grottesca.
Eppure, chi potrebbe negare che alcune delle cause che allora lo ponevano all’avanguardia non siano divenute la norma? La maggior parte dei registi di oggi mettono in scena Shakespeare, Čechov, Goldoni e compagni non più nel culto dell’autore ma proprio con la motivazione di una ricreazione originale basata su un confronto con l’‘attualità’ dei suoi interpreti. C’è stato dunque un indiscutibile progresso storico: i più reputati spettacoli di oggi sono in effetti saggi registici sui testi e i rispettivi autori. Ma altrettanto innegabile è che questo progresso sia soltanto una più o meno audace riforma rispetto alla rivoluzione proposta da Bene, basata invece su un attore-autore-poeta della scena e su una nozione di musica come corpo scenico composto con i materiali e le tecniche del teatro, quindi naturalmente orientato da una diversa idea della sua funzione: non più illustrazione di idee ma ‘vissuto pubblico’ e meditazione condivisa sul perché siamo qui.
E questo spiega, tra l’altro, perché la maggior parte dei registi di oggi se la cava meglio con il teatro d’opera, la cui natura musicale esiste già ed è interpretata dal direttore d’orchestra e i cantanti. Lì casca l’asino-regista, ma casca sempre in piedi perché l’esito dello spettacolo operistico non dipende da lui; mentre nell’arte drammatica di ‘prosa’ registi e attori devono comporre una musica nuova a partire da una partitura che sta tra la indecifrabilità dell’originale e i motivi per i quali è riproposta oggi in scena.
Ecco perché a chi si dispone a leggere o rileggere CB consiglierei, prima di affrontare la sterminata bibliografia dedicata, di cominciare con la sua vita, applicando anche a lui l’esercizio di distinguere i diversi aspetti della sua opera-azione dentro la storia, contro la storia e oltre la storia. E poiché la lettura è l’opera del lettore, conferimento di potenza a testi altrimenti inerti, nessun lettore potrà esimersi dal confrontarsi con quelle idee rivoluzionarie per trovare la propria misura, magari decidere la propria strada anziché percorrerne una già tracciata dal ‘progresso’. Confrontarsi con Bene come lui si confrontava con Shakespeare sarebbe utile soprattutto a chi non lo abbia già incasellato, ai più giovani, i quali hanno oltretutto la fortuna di disporre di un enorme patrimonio di scritti e materiale audiovisivo (come purtroppo non accade con altre divinità della scena contemporanea come Leo de Berardinis).
Bene! Quattro diversi modi di morire in versi
Con la non innocente intenzione di sollecitare nuovi incontri personali con le opere di Bene e quindi senza la presunzione di dire cose nuove e tantomeno di restituire il senso complessivo di ciò che ha fatto, sempre segnalando che si tratta di opinioni e non di sapienza, vorrei limitarmi a tentare di delineare soltanto un tema-strumento utilizzabile per addentrarsi nel vivo deserto beniano, deserto nel quale ognuno è destinato a perdersi per incontrare sé stesso o almeno scorgere il proprio cammino, perché il proprio cammino si decide presto, nei primi passi è iscritta tutta la vita futura poiché con essi ci si muove comunque soltanto in una direzione tra le mille possibili. In una breve nota del 1964, neppure compresa nel volumone delle proprie Opere, il futuro CB dice già tutto. Vale la pena di rileggerla:
Spettacolo di poesia non è mai avvenimento anti-teatrale, ma tragedia essenziale. La presente messinscena ha voluto sperimentare: 1) Un modo teatrale che finalmente tenda a chiarire la differenza tra crudeltà e guignol. 2) Il cannibalismo come dimensione estrema in un rapporto d’amore fino all’assorbimento del prossimo e finalmente redenta in solitudine noumenica, non mai come ferocia patologica, equivale teatralmente a chiarire il concetto di crudeltà. 3) La poesia non conclusa, non finita del testo, ma continuamente proposta di poesia corrisponde a un tappeto ideale per un teatro di pretesto come discorso continuo e non interpretazione di un fatto specifico. 4) Il trucco facciale dei due amanti, lungi dal rapportarli a un ambiente e identificarli, attraverso l’irriconoscibile, come orrore teatrale, li trascinerà alla maschera sulle cui labbra il discorso non finisce mai. 5) Una rappresentazione attraverso la quale ci si convinca che la poesia è irrappresentabile in senso positivo, cioè teatrale e quindi sola grande possibilità drammatica: “non esiste teatro se non teatro irrappresentabile”. 6) Una scena dove l’azione discute il testo, mai sottolineandolo, mai rappresentandolo. Un testo di monologhi, ma che rimbalza in un dannato alterco critico tra l’azione, la parola e la luce.
Tralasciamo ora di notare che CB leggeva Antonin Artaud quando in Italia era praticamente sconosciuto, o quella “crudeltà” da manifestare “teatralmente”, oppure ancora l’accenno al “trucco” e all’“alterco critico tra l’azione, la parola e la luce”, motivi che preannunciano un nastro visivo lontano da ogni realismo e appunto grottesco. Limitiamoci a notare che l’identificazione tra poesia e teatro è la premessa della sua vita. Il testo inteso come “proposta di poesia”, partitura di una musica da comporre, è secondo lui la sola possibilità di fronteggiare l’irrappresentabile – e l’arte drammatica nel suo complesso è un “testo di monologhi” diversi che s’incontrano.
Prima di riprendere il tema dell’azione poetante (in lui “atto poetico”) è utile riflettere un momento sul suo modo di essere giovane di fronte all’Italia e al teatro del tempo. Walter Benjamin lo aveva detto così: “Il carattere distruttivo è giovane e allegro [...] Il carattere distruttivo ha poca immaginazione, ha poche esigenze e la prima è: sapere che cosa subentra a ciò che è distrutto. [...] E poiché scorge vie d’uscita ovunque, si trova sempre a un bivio”. Da tale premessa Georges Didi-Huberman deduce oggi la necessità di “porre nuovamente la questione del poeta nella polis, non soltanto come ‘creatore’ ma come ‘distruttore’ e non soltanto come distruttore ma come ‘produttore’”. Produttore di teatro, mai impiegato delle istituzioni o interinale al servizio del regista, attore senza maestri in carne e ossa, CB capisce da subito che per fare l’attore “occorre essere già bravo e insieme bello, sano e ricco”. La sua è una pro-vocazione magistrale perché in effetti una scuola può soltanto consentire a un bravo attore di riconoscersi come tale; per bellezza si deve intendere non corrispondenza agli stereotipi ma luce individuale, luce che è probabilmente un dono naturale, ma soltanto la scena può rivelarla o smentirla; non si può intraprendere la professione della scena se si è soggiogati dai propri malesseri e limiti fisici e bisogna semmai essere capaci di utilizzarli; e infine perché la ricchezza è quel modo di essere per cui mai si invocano le difficoltà materiali per non fare ciò che si deve. Una scuola o un insegnante servono soltanto a un “pre-attore” di questo tipo per permettergli di capire definitivamente se quella è davvero la sua strada. Invece oggi accade tutto il contrario, la stragrande maggioranza delle palestrine teatrali promettono a chiunque, in cambio di una retta, di conferire abilità creative e professionali. Una vera scuola di teatro sarebbe quella che, oltre a selezionare rigorosamente i propri allievi, poi li mantiene fino alla professione. Comunque sia, dice CB che vere scuole non ha incontrato, ce la fa soltanto chi inventa il teatro ex novo, producendolo, mai facendosi ‘dipendenti’, seppur creativi. Si tratta di affrontare da poeti e non da ragionieri la vita nel suo complesso. Jerzy Grotowski diceva: “Gardening, not engineering”.
Dopo una indiscutibile affermazione, di fronte al CB maturo e differente, ecco che qualcuno cominciava a definire la sua invenzione del teatro “poesia”. CB fiuta subito la trappola, non accetta di essere un eccentrico con simpatizzanti e antipatizzanti e rimette le cose a posto. Nel breve capitolo intitolato Della poesia a teatro (sempre in Sono apparso alla Madonna) affronta chi lo aveva definito “poeta della scena” intendendo con ciò un “diminutivo alla grandeur dell’attore”, sorta di specializzato nella dizione poetica, e risponde rovesciando il tavolo, con lo stesso piglio di quando lo avevano accusato, con il suo teatro, di sfondare una porta aperta e lui aveva risposto andando nella redazione del giornale a dimostrare concretamente quanto sia difficile sfondare una porta aperta.
Al “bizantinismo crapulone” con il quale credevano di prenderlo in giro, al “teatralismo impoetico” di quelli che recitano i classici ripiegando sul “verso descrittivo” e cantilenante, CB oppone “il gioco sovrano del suono (l’abbandono) in quanto testo del dire che la voce scrive in pieno mercato di scena” (ma iscrive sarebbe stato più preciso) e deride coloro che riducono “la poesia (rappresentazione) [...] a una “servetta della ‘prosa’”. Qualche riga dopo si assiste al salto quantico: “Non si dà attore che non sia di là del raccontare altro dire che scrive. Di-scrive”. Ciò che non avevano compreso i suoi detrattori e che a tutt’oggi manca alla cultura teatrale è appunto l’idea che “attore e poeta son tutt’uno” e non “uno dei due un travestimento dell’altro a turno”, vale a dire che “Chi sulla scena non è poeta non è attore” [enfasi sua].
Dopo questo passaggio e pensando ai suoi ultimi anni, caratterizzati da melologhi solitari fino all’ultima Achilleide (1989-2000), qualche pensatore frettoloso potrebbe pensare alla poesia in scena come suo personale approdo, sia pure teorizzato nello stile apodittico e superomistico che adottava quando si trattava di confutare consolidate sciocchezze. Ma CB distingueva tra la poesia come matrice e al tempo stesso progenie del teatro e il Poema che in scena o sulla pagina (‘l mal de’ fiori) costituiva il proprio compimento individuale. In un caso e nell’altro abbiamo a che fare con l’istanza poetica finalmente intesa, con una poesia fisica, in azione, destinata non a ridire “la ciarla quotidiana” ma a far risuonare proprio ciò che dire non si può: affetti-canto e non concetti-parola. Questa operazione sembra(va) la sua personale scoperta soltanto perché il teatro moderno si era dimenticato della propria origine.
Una delle conseguenze che, se non sbaglio, la critica beniana ha trascurato di evidenziare è che, una volta stabilito il fondamento comune di ogni teatro dell’universo-mondo, ogni compimento è però diverso dagli altri. Perciò da una parte CB è inimitabile e dall’altra la sua scoperta fa la storia. L’essere integrale di poesia reclamato da Antonin Artaud è premessa antitetica al diventare tutti uguali. A partire dal riconoscimento della regola e nella sua rigorosa applicazione, nell’accettare la sfida a sé stessi richiesta dal lavoro teatrale, ogni esito non può che essere unico, come unica è stata la personale evoluzione di CB dalla fine degli anni cinquanta in poi, dai pirotecnici varietà grotteschi (in scena, nei film, persino nella produzione letteraria e saggistica) ai canti solitari di un’agonia postrema con i quali celebrava la propria grandiosa sconfitta.
Sembrava che CB parlasse per sé, ma era il portatore di una novità antica, anche se a quel tempo mancavano le evidenze che ora cominciano a emergere e in base alle quali coloro che si occupano di teatro farebbero bene a trarre qualche conclusione per sé stessi. Parlando di evidenze mi riferisco soprattutto alla rilettura di Platone, Aristotele e compagnia cantante che dobbiamo a Gregory L. Scott, grecista americano estraneo ai ranghi accademici più paludati, rilettura ora sintetizzata per i lettori italiani in un articolo che appare sull’ultimo numero della rivista “Culture Teatrali”.
L’argomento di Scott (sviluppato in diversi ponderosi volumi) può essere riassunto brevemente con le sue stesse parole: “Ciò che è stato ignorato per secoli anche dai classicisti i quali, si suppone, dovrebbero comprendere e interpretare il suo discorso, è il modo in cui Diotima spiega a Socrate cosa sia la poièsis e come questa spiegazione ci inviti a rivedere la teoria artistica occidentale [enfasi mia]”. Scott sottolinea come Platone utilizzi il termine poièsis “in senso lato, [come] il ‘fare’ o la ‘creazione’ oppure, in senso stretto, come ‘musica’ e ‘versi (mousiké kai metra)’, come Diotima chiarisce nel Simposio (205c). Lo stesso accade con Aristotele, anche se egli aggiunge ‘trama’ al senso stretto di Diotima, rendendolo un termine tecnico nel suo Arte drammatica, il testo finora noto come Poetica. Con ciò si dissolvono molti paradossi rimasti insoluti per secoli”. A ciò consegue che poeta è da intendere “come ‘creatore’ (in senso lato) o ‘compositore’ (in senso stretto), secondo le due accezioni platoniche ragionevolmente autentiche in accordo con la spiegazione di Diotima”.
Fino dagli albori della nostra civiltà storica era dunque chiaro che poeta non è colui che scrive poesie, ma il compositore e l’esecutore di una performance che fa ricorso in tutto o in parte al canto, alle azioni fisiche e alla musica; e ciò non per rappresentare i significati, che pure costituiscono lo sfondo della rappresentazione, ma il flusso vitale dell’indicibile, letteralmente dell’osceno. Questa è esattamente la rivendicazione di CB. La sua è una reinvenzione dell’arte e del corpo teatro, come dovrebbe essere quella di ognuno, almeno nell’arte drammatica. La questione è trovare il proprio inizio, il luogo da cui si diparte la propria strada. Quando invece si intende il progresso dell’arte drammatica come un’applicazione delle modeste riforme che scimmiottano queste idee per non realizzarle, si precipita nell’entropia propria di uno ‘spettacolo’ eticamente disseccato e artisticamente inane.
I temi qui appena abbozzati sono riferibili alle relazioni dinamiche tra molteplici energie attive nel campo ‘artistico’, energie alle quali anticamente si dava il nome di dèi. Il politeismo è sicuramente più vicino alla complessità della realtà materiale di quanto lo siano i monoteismi (dove per raffigurare questa consapevolezza non razionale si ricorre al catalogo dei santi).
Una persona che è stata vicina all’ultimo CB fino a essere incaricato di prefare ‘l mal de’ fiori è Sergio Fava, intellettuale estraneo ai grandi giri della critica. Fava ricorda come CB fosse folgorato dall’introduzione di Carlo Sini a La voce e il fenomeno di Jacques Derrida e dalla sua idea di “scrivere il nulla”, cosa molto diversa dalla rassegnazione derridiana al “nulla da scrivere”. L’incontro pur mancato tra i due dimostra che i “transiti della verità” (Carlo Sini) sono alla portata di tutti, e che in un mondo che “non è né vero né reale, ma vivente” (Gilles Deleuze) “ogni cosa è là dove viene interpretata” (Charles S. Peirce). La verità della scena.
Testi citati:
C. Bene, Della poesia a teatro, ora in Opere con l’Autografia di un ritratto, Bompiani, Milano 1995.
C. Bene, La prima rappresentazione, in Roberto Lerici, La storia di Sawney Bean, Lerici, Milano 1964, pp. 55-56.
W. Benjamin, Il carattere distruttivo, in Opere complete, vol. IV, a c. di E. Ganni, Einaudi, Torino 2001-2014.
G. Didi-Huberman, Quando le immagini prendono posizione – L’occhio della storia I, a c. di Francesco Agnellini, Mimesis, Milano 2018.
S. Fava, Carmelo Bene e Carlo Sini: la resa dei conti con il linguaggio. Cosmologia e semiologia, relazione al convegno “Le arti del ‘900 e Carmelo Bene”, a cura di Edoardo Fadini, Torino, 24-26 ottobre 2002, ora in «Mimesis Journal», 6, 2 (dicembre 2017).
G. Scott, Lo Ione di Platone e poièsis come “musica-danza e versi”, “Culture Teatrali”, n. s.,31-32, annale 2022-2023.