Francesco d’Assisi e il corpo teatro
Ogni cosa ha inizio e vive in mezzo a mille altre cose. L’incontro con Francesco negli splendidi libri di Chiara Frugoni, nei primi novanta, è coinciso con un viaggio in Tibet alla scoperta di quella che era forse l’ultima civiltà teatrale sconosciuta agli studi e con l’inizio dell’insegnamento universitario. Tre diverse folgorazioni che hanno determinato tutto il seguito della mia vita, rendendo impossibile una singola e rigorosa specializzazione accademica e imponendo di cercare un modo nuovo di stare nell’università e nel teatro, sollecitando una transdisciplinarità tanto necessaria quanto difficile da realizzare. Di fronte all’impossibile, o forse soltanto a qualcosa che non era alla mia portata, senza mai scoprire la soluzione definitiva di un problema che mi faceva sentire sempre più estraneo al mondo cui pure appartenevo, ho fatto ciò che ho fatto senza sapere come si fa. Da allora, il confronto costante con lo straordinario passaggio nel mondo di Francesco è stato fondamentale.
Un legame particolare si è subito stabilito tra il Tibet e Francesco per il fatto che la fondazione dello ache lhamo, com’è chiamato il teatro sul Tetto del Mondo, è strettamente connessa con il “santo folle” Thangtong Gyalpo, vissuto tra il tredicesimo e il quattordicesimo secolo e unanimemente considerato, in aperta contraddizione con la storiografia documentaria, il fondatore di quel teatro. La vicenda e il modus operandi di Francesco mi sono apparsi per certi versi assai simili, con la differenza che la teatralità del nostro “giullare di Dio”, invece di essere riconosciuta in quanto nuova tradizione culturale e religiosa e dare vita a una peculiarità rappresentativa, non ha avuto alcuna influenza su ciò che nella cultura occidentale moderna sarebbe diventato il teatro, salvo riproporsi oggi come una sorprendente novità.
Due sono i temi francescani che mi sembrano oggi particolarmente cogenti e necessitanti una riflessione collettiva: la povertà necessaria, povertà come forma di vita; e l’azione poetante come cammino.
Punto di partenza inaggirabile è ritrovare la povertà nell’accezione liberatoria che ha per Francesco e opporla all’equivoco tutt’ora dominante che la assimila alla miseria, all’indigenza e all’afflizione. Secondo Sergio Givone quella povertà è “l’assoluta passività, in forza della quale non si è titolari neppure del luogo in cui Dio agisce in noi e per noi” e perciò “rappresenta il punto di svolta e l’apice della conversione dal non volere al volere, dalla dipendenza totale dall’altro alla piena assunzione di responsabilità, insomma dall’essere necessario alla libertà” [corsivo nostro]. È una definizione precisa e utile, da sottrarre però al rischio di assegnare l’azione di Francesco a un passato lontano e così chiudere il caso. Lo scatto ulteriore consiste nel comprendere che la povertà francescana non consiste in una precisa condizione materiale e morale; essa è piuttosto un fare, un’azione sempre storicamente circostanziata il cui esito è un cammino, un modo di camminare, di transitare nel mondo direbbe Carlo Sini, un’azione il cui compimento è potenzialmente presente in ogni momento vissuto e in un certo senso non arriva mai.
Anzitutto, a proposito di questo fare la povertà, è interessante guardare alla scansione biografica di Francesco distinguendo le tre fasi che la contraddistinguono: autopoiesis (stacco dalle proprie origini, inizio del lavoro su sé stessi, costituzione di un proprio laboratorio individuale); poiesis (fare poetico in quanto processo e composizione), conoscenza attraverso l’azione; e infine costruzione di un sapere comune, una co-scienza (che per Francesco doveva essere “nella vita”, non nell’osservanza di una Regola). Ciò perché ogni vicenda umana non è mai una ma un discontinuo infinito di situazioni e frammenti nell’ambito del quale formarsi significa imparare a fare ad arte (farsi un sapere che può essere persino non saputo ma è comunque operante, singolare e transeunte). Fare ad arte è dunque un imperativo vitale, non un lusso o un cedimento all’estetismo: occorre trovare continuamente l’inizio del cammino, che di conseguenza è sempre nuovo. Certamente la giustizia sociale è una precondizione di questa felicità. Francesco pone il problema in termini esistenziali di comunità: i suoi “frati minori” non si pensano come governo della società o modello dogmatico, ma come libera associazione di uomini e donne impegnati in ciò che si può concretamente fare subito, in una prospettiva di trascendimento psicofisico più che di trascendenza metafisica.
La povertà, oltre che con le cose, istituisce anche un rapporto radicalmente diverso con il tempo, dedicato alla cura delle forme di vita in cui provvisoriamente si dimora. Senza distinguere tra preparazione ed esecuzione, le azioni del povero-ricco si svolgono senza limiti di tempo prestabiliti, prima ricavando nello spazio fisico e sociale un luogo precisamente connotato in senso simbolico, una scena, e quindi creando un tempo speciale. Orientata in base a pochi e scarni princìpi, l’azione della povertà sembra ambire a conquistare un sapere superiore, più che analitico intuitivo. In questo senso in Francesco non troviamo modelli ma un’applicazione di principi che devono essere creativamente resi operativi nelle più diverse circostanze storico sociali, come dire che attualizzare non significa imitare forme preesistenti bensì declinare, o coniugare se si preferisce, quei princìpi (i cui fondamenti, ripeto, sono di natura etica) nella propria biografia.
Altra caratteristica dell’operato di Francesco è che ogni azione vitale comporta un distruggere che precede e accompagna il costruire. L’azione della povertà non può avere che un preambolo distruttivo. Ricordiamo in proposito le parole di Walter Benjamin: “Il carattere distruttivo conosce una sola parola d’ordine: creare spazio; una sola attività: far pulizia. [...] Ha poche esigenze, e la minima è: sapere che cosa subentra ciò che è distrutto. [...] Il carattere distruttivo non vede alcunché di duraturo. [...] Riduce l’esistenza in macerie non per amor delle macerie ma della via d’uscita che le attraversa”. Ciò implica diverse cose, tra l’altro che il povero, l’uomo d’azione, sia anche un poeta. Georges Didi-Huberman lo dice così: “Si tratta di porre nuovamente la questione del poeta nella polis, non soltanto come ‘creatore’ ma come ‘distruttore’ e non soltanto come distruttore ma come ‘produttore’”. Ciò significa che innanzitutto bisogna scegliere un modo di essere giovani diverso da quello a cui sembravamo fatalmente destinati. Ancora Benjamin: “Il carattere distruttivo è giovane e allegro [...] ha poca immaginazione, ha poche esigenze e la prima è: sapere che cosa subentra a ciò che è distrutto. [...] E poiché scorge vie d’uscita ovunque, si trova sempre a un bivio”.
Veniamo ora a un altro aspetto dell’azione francescana, ovvero alla sua ‘messa in opera’ del corpo teatro. Quando si dice che il cammino della povertà significa fare storia invece di raccontare storie, nel campo della rappresentazione si apre un varco decisivo in direzione dell’evento. Come ricordava Gilles Deleuze, “fare un evento, per quanto piccolo sia, è la cosa più delicata del mondo, il contrario di fare un dramma o una storia”. Secondo Michel Foucault l’attuante di quel “fare” era il filosofo, colui per il quale il pensiero è il paesaggio da cui trae i propri soggetti, trasformandoli in personaggi e maschere di un teatro. Le sue parole: “È la filosofia non come pensiero, ma come teatro: teatro di mimi dalle scene multiple, fuggevoli e istantanee dove i gesti, senza vedersi, si fanno segno”. Se la filosofia è teatro, il teatro è (anche) filosofia, e se il filosofo è un giullare (performer), il giullare è un filosofo, ovviamente quando si intendano queste figure secondo la definizione ‘restaurata’ che qui si propone. Non stiamo dicendo niente di nuovo, i riscontri offerti dalla filosofia e dalla teoresi teatrale in questo senso abbondano; la questione nuova, cioè da porre continuamente, è quella dell’inizio: come iniziare nuovamente rapportandosi a una figura che ispira, in questo caso il giullare o performer o attore di Dio che è stato Francesco Bernardone di Assisi. Ma una definizione gratificante è poca cosa, bisogna rendersi conto che l’evento non è un prodotto di ingegneria ma qualcosa di indescrivibile, non esiste manuale per realizzarlo e non esiste neppure in sé: colui o colei che l’hanno vissuto possono soltanto parlarne. Se ciò che precede e segue un evento non può essere altro che un discorso, per decidere cosa fare oggi è fondamentale emendare l’affermazione di Deleuze.
In questo senso è utile un ultimo esempio che consenta di comprendere come (in Francesco) si configuri il rapporto tra evento ineffabile e rappresentazione, vale a dire come avvenga l’eterno principiare del teatro nuovo. Tra le sue ultime azioni poetanti abbiamo la cosiddetta “invenzione del presepe” nel villaggio di Greccio, dove l’intera comunità è coinvolta in quello che all’apparenza è un dramma didattico. Il pio cittadino Giovanni è chiamato da Francesco a preparare il set che avrebbe portato i partecipanti, scrive Tommaso da Celano, a “vedere con gli occhi del corpo i disagi in cui si è trovato [Gesù] per la mancanza delle cose necessarie a un neonato”. È la sera della Vigilia, la gente del villaggio accorre portando ceri e fiaccole, seguendo le istruzioni di Francesco vengono apportati gli ultimi ritocchi alla scena. Si celebra l’Eucaristia. Francesco in veste di diacono canta “con voce sonora il santo Vangelo” la sua voce “forte e dolce, limpida e sonora [che] rapisce tutti in desideri di cielo”, ma – attenzione – poi passa a parlare del Bambino e lo fa non con un discorso di parole bensì “riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto, producendo un suono come belato di pecora”. L’accenno è sufficiente a farci comprendere che i presenti avevano assistito a un’espressione performativa che andava oltre non soltanto la parola ma persino il canto (diventato suono) e la mimica (diventata immagine, geroglifico da decifrare che si imprime nella psyché degli spettatori).
Francesco però sa che abolire gli organi di senso è impossibile e parte dalla rivelazione a sé stesso che nella ricchezza materiale (uno dei sommi ideali del moderno) è il corpo esteriore a dominare, ovvero si vive di organi senza corpo (in un certo senso senz’anima). La sua strada, il suo modo di compiere la missione che si è assegnato esclude sia un’idea di misticismo come estraniazione dal mondo sia la predicazione asseverativa e la scrittura: la sua scelta è quella dell’azione poetante, performance della persona nella propria interezza storica e psicofisica, insieme di parola, musica, canto, coreografia e creazione di immagini, in sostanza una estetica, ma non – come avveniva e avviene nella perdurante tradizione aristotelica – una estetica confinata in un quartiere delimitato della polis, bensì concepita come un nuovo modo di abitare il mondo. La sua è una scelta radicalmente diversa da quella moderna del dire, del persuadere e della illustrazione delle idee, come invece sembra accaduto alla funzione e ai protocolli della rappresentazione teatrale. Proprio questo suo essere una pietra d’inciampo nella storia culturale dell’Occidente lo rende oggi straordinariamente attuale, ma prima ancora ci consente di ‘vederlo’ e osservarlo da diversi punti di vista. E ciò in un momento di passaggio culturale nel quale si sta rivalutando il canto, la danza e in generale la composizione performata dai suoi stessi autori, vale a dire una mousiké riposizionata a fondamento di tutte le arti: creazione artistica come ‘anima’ del cammino umano. Sono tutte mozioni che sollecitano a porre la creatività al centro del divenire umano e dunque, per cominciare, del processo formativo.
Ogni volta, nelle condizioni date, Francesco inventa un nuovo teatro. In questo caso allestisce un evento comunitario che è al tempo stesso liturgia e rituale, così affermando implicitamente che la liturgia senza rituale, com’è quella di una chiesa decadente, è soltanto un miraggio. La rappresentazione, alla quale assistono tutti quanti con gli occhi del corpo, è la condizione necessaria affinché l’evento possa verificarsi, naturalmente soltanto per coloro che lo percepiscono con occhi dell’anima, mentre l’“attore santo” va in estasi. Ed eccoci a un passaggio cruciale dell’esegetica francescana, ovvero all’idea che l’estasi debba essere seguita dall’enstasi: il ‘lavoro’ è un andare e venire, una relazione tra lo ‘spirituale’ e il ‘materiale’, per dirla nel modo più semplice. L’agire poetico (di Francesco) stabilisce questa relazione tra i due aspetti che non va subìta passivamente ma accortamente governata. Meister Eckhart e Jerzy Grotowski precisano che l’uomo esteriore muore, mentre l’uomo interiore vive. Questo vivere non è la conquista della vita eterna ma la capacità di abitare, durante il proprio passaggio anagrafico, nell’eternità della vita anziché nella paura della morte.
L’estasi è seguita dall’enstasi, dunque in qualche modo controllata. Questo ritorno, questo rientro è il valore aggiunto del teatro. Grotowski lo chiama “sfondamento”, Marco Vannini utilizza il termine “irruzione”: si tratta comunque di una trasformazione, piccola o grande che sia, della vita precedente. Ciò che conta è il tornare cambiati, in un certo senso rinnovati, al punto di partenza, vale a dire alla vita ‘esteriore’ e alla relazione con il mondo. È il moto della rivoluzione. Una uscita e un rientro che non sono né un semplice intervallo di intrattenimento né la pausa dedicata a un apprendimento. I corpi cambiano, i due corpi-in-uno di prima diventano, secondo il Grotowski di Performer, uno solo, il “corpo dell’essenza”, compimento della cosiddetta santità.
La composizione teatrale nel suo complesso agisce sugli attuanti e gli spettatori. A essi, molto diversi tra loro, è offerta un’opera unitaria, una rappresentazione narrativa che contiene un possibile evento al quale si assiste sia con gli occhi del corpo sia con gli occhi dell’anima; mentre nella cornice della rappresentazione “l’attore santo” vive l’estasi senza perdersi in essa e muovendo così alla conquista del corpo dell’essenza, che, di nuovo, non è uno stato ma un’azione compiendo la quale si è passivi in quanto attori e attivi come testimoni. Ne consegue che l’esperienza estatica è qualcosa di molto diverso dalla testimonianza di un evento: anche Francesco in estasi vede con gli occhi dell’anima, ma percepisce qualcosa di diverso dagli altri. Giovanni e forse qualcun altro con lui vedono il Bambino, mentre Francesco vede il nulla, come spiega Eckhart leggendo Paolo di Tasso: “Paolo si alzò da terra e, con gli occhi aperti, vide il nulla [...] e questo nulla era Dio”. Una sola conclusione è possibile: vede colui che sa diventare spettatore, che sa e può spectare e spectare è nient’altro che l’amore del vivente: “Ubi amor ibi oculus”, “Dove è l’amore è lo sguardo” (Riccardo di San Vittore). È l’amore a permettere di vedere e produrre conoscenza, ognuno vede dall’interno del proprio amore e ogni atto d’amore è diverso dall’altro per intensità e durata.
Ma se esistono diversi modi di spectare e diversi modi di poetare fisicamente, la teatralità francescana non deve essere presentata come un modello universale, bensì come scelta possibile, alternativa soprattutto all’opzione dimostrativa. Grotowski proponeva di distinguere tra espressione intenzionale e non intenzionale, la seconda sopravvivente per lo più fuori del modello teatrale più comune, ovvero nelle rappresentazioni etnografiche. Pensando al teatro vero e proprio, ciò significa che vi possono essere diversi tipi di attuanti, attuanti che fanno e attuanti che dimostrano, e che i professionisti della scena possono o meno mettere quella che Grotowski chiama “tecnica personale” al servizio del rituale comunitario.
Per concludere, cerco di sintetizzare questa riflessione con le parole incerte di una lingua che ancora non esiste. La precondizione imprescindibile di ogni poiein è una precisa definizione della propria povertà, ossia delle condizioni materiali entro le quali si esercita la libertà individuale. Colui che dimostra vuole far vedere, mentre colui che fa vede, ovvero rappresenta la propria vita interiore. Il suo non è un semplice “tenere un discorso”, è piuttosto un cantare, o meglio un farsi cantare dall’universo. Il testo drammaturgico e il cosiddetto personaggio altro non sono che le sponde entro le quali scorre il flusso di un’esperienza individuale e collettiva della conoscenza. La relazione tra rappresentazione, evento ed estasi (l’attore fuori di sé) diventa nella povertà conquistata un flusso organico unitario.
Come si è visto, nel tredicesimo secolo Francesco e nel ventesimo Grotowski hanno proposto qualcosa di molto diverso dal teatro inteso nell’accezione oggi largamente dominante. Entrambi erano impegnati a ritrovare nel corpo teatro una origine, o forse un principio, da intendere come nuova fondazione (ontogenesi) dell’arte rappresentativa. Sulla questione è bene tenere presente la puntualizzazione di Walter Benjamin: “Per ‘origine’ non si intende il divenire di ciò che scaturisce, bensì al contrario ciò che scaturisce dal divenire e dal trapassare”. Di Francesco si dice che non abbia a che vedere con il teatro, di Grotowski si dice che abbia abbandonato il teatro, mentre i due, il primo con istinto messianico e profetico e il secondo con una inedita consapevolezza culturale, erano alla ricerca dell’essenza dell’azione poetante, per Francesco essenza da scoprire e per Grotowski essenza della quale si è persa la memoria. Di conseguenza, l’accertamento del legame tra queste due figure e le relative poetiche riveste un significato storico universale, ovvero invita a riflettere sul fatto che nel tredicesimo secolo – e non soltanto attraverso Francesco, come emerge dalla storiografia più avvertita – si manifestano concezioni del corpo-coscienza che allora il modello di sviluppo sociale prevalente non poteva recepire; e che oggi, quando tale modello richiede sostanziali emendamenti, andrebbero prese seriamente in considerazione e aggiornate.
Nel processo di trascendimento teatrale governato occorre realizzare il passaggio a un tipo specifico di organicità che consiste nell’essere passivi nell’azione e attivi nell’osservazione. In Francesco troviamo istanze che avrebbero caratterizzato alcune avanguardie del pensiero e dell’arte contemporanei, avanguardie che ambivano a essere portatrici di nuovi o riscoperti ‘universali’. Riflettere sulla sua vicenda aiuta a pensare e forse realizzare un’altra storia possibile, dove la vera povertà è la vera ricchezza e si è consapevoli che soltanto su questa base è possibile l’azione poetante, unico modo di vivere sulla strada della pienezza emotiva e della felicità possibile nei diversi ‘luoghi’ della storia e nelle anagrafi individuali. Come definire – ammesso che serva – questo fare ad arte della co-scienza? Nella tarda modernità lo si è fatto in tanti modi, ma potremmo limitarci a Dante, la cui invenzione linguistica e filosofica ha anticipato tutti e ci sta ancora davanti: trasumanar.
Opere consultate:
Fonti francescane – Editio Minor – Scritti e biografie di San Francesco d’Assisi, Cronache e altre testimonianze del primo secolo francescano, Scritti e biografie di santa Chiara d’Assisi, Editrici francescane, Assisi 1986.
W. Benjamin, Il carattere distruttivo, in Opere complete, vol. IV, a c. di E. Ganni, Einaudi, Torino 2001-2014 e Id. Il dramma barocco tedesco, nuova edizione, trad. it. di F. Cuninberto, Introduzione di G. Schiavoni, Einaudi, Torino 1999.
G. Deleuze, Conversazioni, Ombre corte, Verona 1988.
G. Didi-Huberman, Quando le immagini prendono posizione – L’occhio della storia I, a c. di F. Agnellini, Mimesis, Milano 2018.
M. Foucault, «Theatrum Philosophicum», in G. Deleuze, Differenza e ripetizione, (1968), Il Mulino, Bologna 1971.
C. Frugoni, Francesco un’altra storia, Marietti, Genova 1988, e Id., Vita di un uomo: Francesco d’Assisi, Einaudi, Torino 1995.
S. Givone, Storia del nulla, Laterza, Bari 1995.
Meister Eckhart, Sermoni tedeschi, a c. di Marco Vannini, Adelphi, Milano 1985.
In copertina, Tavola Bardi, Francesco rinuncia ai beni del padre.