Cercare il tempo fra le colline
Un paesaggio collinare con la varietà dei suoi colori e le sue forme ondulate è già di per sé un invito al racconto. Carezzando con lo sguardo i rigonfiamenti della terra e percorrendo la curva morbida delle colline, l’animo dell’osservatore sperimenta una curiosa inclinazione che dispone a una fantasticheria libera, alla rêverie. I solchi che poi s’intrecciano lungo i pendii sono la scrittura di secoli, da leggersi come profonda commistione tra ambiente e attività umana. L’alternarsi di zone boschive, ordinate coltivazioni e terrazzamenti, castelli medievali e paesi arroccati lambiti dal vento suggerisce una visione non lineare del tempo storico: i piani si confondono, così come le molte epoche, in un intreccio affascinante. La collina concentra dunque su di sé, molteplici aspetti, divenendo quasi uno scrigno fiabesco, una cupola letteraria, uno sfondo pittorico a cui consegnare i propri sogni, le proprie speranze.
Nel nostro caso sono i ‘ricordi di un’estate’ che affiorano a tinte pastello sulla scenografia di Vignale Monferrato nell’ultimo lavoro di Andrea Ferraris, Temporale (Oblomov edizioni, 2024, pagg.134). L’andamento a balzi, fatto di salite e discese e improvvise aperture (stilistiche ed emotive) del fumetto rende appieno la profonda adesione alla vita-in-collina che si voleva raccontare – un modo di pensare la sceneggiatura e il disegno che trova la sua cifra stilistica proprio nel seguire la ‘sinusoide’ dei colli –. Un ritmo coinvolgente che ha permesso all’autore di raccogliere entro un'unica cornice paesaggistica, diversi episodi a sé stanti, dal forte sapore letterario (quasi fossero dei racconti brevi), che però si uniscono in alcuni punti mentre in altri conducono altrove, verso svolte inaspettate. In fondo, questo aspetto è anche coerente con quella che potremmo qui definire come ‘l’ambivalenza dell’altura’: così come scorgiamo il crinale a noi favorevole, del colle non vediamo l’altra parte, cosicché in collina c’è sempre un lato nascosto, in ombra. Dante, all’uscita dalla selva oscura, racconta di essersi trovato improvvisamente alle «spalle» di un colle, illuminato dai raggi del sole (giusto per riallacciarci alla tradizione letteraria che fa del paesaggio collinare un suo celebre spunto). Inoltre, ci è utile ricordare la facilità con cui ci si può perdere in collina, il ripetersi delle gobbe continue che si stagliano all’orizzonte rende infatti difficile orientarsi, specialmente di notte. Le ambientazioni notturne di Temporale sembrano suggerire una certa vocazione dei personaggi allo smarrimento, là dove mancano riferimenti (culturali, relazionali). La vita-in-collina – che è il perno intorno a cui ruotano di volta in volta i vari protagonisti – fa il paio con la vita-in-provincia, lontano quindi dalla città, e spesso più dura e solitaria, dove si incontrano persone che con gli anni e le fatiche si sono come paralizzate, divenendo l’ombra di loro stesse. La sensibilità con cui Ferraris osserva e partecipa (essendo l’opera in parte autobiografica) alle dinamiche di paese, inquadrando con cura quei tratti umani e quei vissuti che hanno nella loro semplicità un cuore condiviso, è toccante e sempre accompagnata da una sottile ironia – che è quella poi che ci insegnano personaggi come Ufo, Vollo, Pongo, Tabacco. Dovremo esplorare, fra poco, il tema dei soprannomi.
Le storie di Temporale si aprono con un breve prologo, Estate: l’accordo iniziale di una ballata alla Tom Waits, struggente e carica di poesia. Da qui, comincia a dipanarsi il gioco degli incontri, degli sguardi, dei luoghi che a poco a poco ci appaiono riconoscibili, andando a impreziosire il vivace inventario di paese che si rivela sotto ai nostri occhi in forma di fumetto. Non dobbiamo infatti dimenticare che questo raccontare-in-collina è disegnato. Le matite grasse con cui Ferraris ha scelto di lavorare segnano i contorni delle cose in modo deciso, marcato: più morbide nei paesaggi – dove lasciano intravedere, spandendosi sulla carta, il tremolio dell’aria che si addensa in prossimità del suolo –; il respiro della collina è lungo, sonnolento, rallenta tutto ciò che vi sta intorno. I colori, meravigliosi, sono di Daniela Mastrorilli: una tecnica mista (pastello e acquarello) ora grave e cupa, ora più lieve e avvolgente, ricca di gamme cromatiche, di profumi; mentre le fisionomie dei personaggi sono rese con linee più geometriche, essenziali, ben calibrate, a imprimere sulla pagina il modo d’essere di ciascun individuo. Pur nelle loro diversissime vicende umane, dagli esiti non sempre felici, ognuno di loro condivide con gli altri una particolare corporeità che fa tutt’uno con l’ambiente lunare nel quale si trovano a vivere. Come se anche a Vignale la gravità fosse circa un sesto di quella terrestre, costringendo a movimenti lenti, perennemente sospesi tra poli opposti (il cielo e la terra, la collina e la pianura, la città e il paese, la nobiltà dei sentimenti e la bassezza degli intenti). Qui non è però alleggerito il carico della vita, come se si potesse volare via da un momento all’altro, anzi. Il peso dell’esistenza si avverte tutto, solo che c’è più spazio, più tempo – per un caffè «alla Pesa», per una partita di carte nella catapecchia giù nella valle.
Ci si incontra, ci si riconosce e si viene ribattezzati con un soprannome: quando? Da subito, non appena ci si sintonizza con la frequenza emessa in un dato momento da quella persona. Allora si cerca di cristallizzare quel segnale sotto forma di suono onomatopeico (una specie di stampo), creando una crasi ad hoc, oppure ricorrendo a qualche assonanza, giocando sulle caratteristiche fisiche… i metodi sono molti ed è difficile stabilire una regola generale. Nel giro di poco tempo il nomignolo andrà a costituire una seconda pelle per la persona che lo ha ricevuto in sorte, un vero e proprio rifugio: l’occasione (condivisa) per dimenticarsi del proprio nome di battesimo, per uscire dal perimetro della propria discendenza familiare ed entrare nel corpo sociale – quello di una ristretta cerchia di tuoi consimili che ti conosce non per ciò che sei, ma per quello che fai. Troviamo più volte raccontata nel fumetto la genesi di un soprannome. Sono sufficienti poche battute, un richiamo veloce a un passato indefinito dove ha potuto formarsi la cellula di una nuova identità, a cui spesso viene data la precedenza (prima il soprannome, poi il nome ‘vero’). Fin dal primo racconto, L’ultima cascina (Spok), il protagonista, Roberto all’anagrafe, si presenta da subito alla bella Monica, una turista capitata lì per caso, con il suo appellativo – Spok, appunto, per via delle orecchie leggermente a punta come quelle del celebre secondo della Enterprise, il vulcaniano rigoroso, tutto logica e riflessione che fa da contraltare all’impulsivo capitano Kirk (istintuale, americano e mascellone). Il surrogato del nome apre a uno spazio imprevisto, assoluto, sciolto cioè da ogni vincolo identitario, immediatamente colto dalla turista in visita (che è ‘solo’ Monica, come si usa in città), bionda e con un piercing al naso che luccica al sole, la quale stamperà a Spok un ben mirato bacio sulla bocca prima di proseguire il suo giro.
Più complessa invece è l’origine del soprannome ‘Vollo’, che affonda le sue origini in una circostanza particolare ricordata dal nostro narratore, che è poi lo stesso Spok, alias Roberto, alias Ferraris. Qui il soprannome è tutto un programma e si rivela nel suo pieno significato solo dopo aver conosciuto quell’episodio da cui trae origine (che ovviamente, adesso, non anticipiamo). Ma è Onda, nel suo richiamo alle onde del mare, a costituire uno degli appellativi che offre lo spunto per un capitolo a sé – forse uno dei racconti più belli del fumetto, sicuramente quello più toccante, anche se è difficile stilare una classifica. Di Onda non conosciamo il nome ‘vero’. Sappiamo che ha sempre vissuto lì, a Vignale, che ha sin da giovanissimo lavorato come muratore e che da sempre possiede una folta chioma di capelli ben assestati sulla testa, raccolti in un imponente ciuffo a onda. Una volta una ragazza, Silvia, lì di passaggio per le vacanze estive, era rimasta colpita da quella capigliatura così particolare: «Sono come le onde del mare!» aveva esclamato. Ironia della sorte, Onda il mare non l’ha mai visto. Soltanto quella sera, la parola vibrante sulle labbra di Silvia e l’associazione con i suoi capelli, hanno per lui significato quella estesa massa d’acqua baluginante di una miriade di riflessi, carica di promesse e di avventura.
Di qui anche il portato sociale del lavoro di Ferraris: non tutti, specialmente figli di lavoratori sempre vissuti in collina, potevano permettersi il lusso di viaggiare tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta (periodo in cui verosimilmente possiamo collocare i racconti). Il contesto socioeconomico del passato recente appare puntellato da una diseguaglianza solo illusoriamente molto più accentuata rispetto a quella di oggi (dove l’occhio viene presto appagato dalle fotografie che giungono da paradisi esotici che fanno da sfondo alle vacanze di qualche vip, o influencer di moda). Di recente, passeggiando in città mi è capitato di sentire questa conversazione: «Ma come, non sei mai stata a New York?». Dal tono della voce ho potuto constatare una sincera apprensione. La ragazza era veramente stupita nell’apprendere che l’amica non aveva mai intrapreso un viaggio intercontinentale. In fondo New York è forse una delle metropoli più fotografate al mondo, l’abbiamo vista al cinema in tutte le salse eppure «la follia autoptica dell’occidente», come la chiamava Benjamin, continua imperterrita. Ma queste divagazioni ci porterebbero lontano. Onda, impugnato il volante della sua Panda, arriverà al mare dopo una lunga notte di viaggio, il giorno del suo quarantesimo compleanno.
La dimensione, raccolta, marginale della provincia genera anche una tipologia particolare di assistenzialismo. Ogni paese ha i suoi ‘perdigiorno’, i suoi freaks, coloro che non hanno potuto o saputo inserirsi in un contesto lavorativo, in quel «continuo regime di scambio con la gente» che spesso avvilisce e umilia i più sensibili, i più sofferenti. In Hai visto il Bomba? Tabacco – magro, andatura dinoccolata, sempre con la sigaretta in bocca, il volto scavato – è alla ricerca del Bomba. Si reca al caffè, all’Osteria Luna, tutti (i personaggi che già conosciamo) si rivolgono a lui cordialmente, dicono di non aver ancora visto il Bomba e gli offrono qualcosa da bere, o da mangiare. E così Tabacco passa tutta la sua giornata, trovando sempre una forma, potremmo dire rituale, di accoglienza. Alle periferie delle città questo uso non è nuovo, e forse nemmeno del tutto scomparso – è reso possibile da un’esperienza di prossimità che non riduce l’altro a mero esito delle proprie scelte e dunque non rende possibile arrogarsi il diritto di giudicare quella vita, quella condotta. Tabacco sembra essere insofferente nei confronti di ogni parametro di giudizio, che può efficacemente essere applicato laddove vige un’uniformità di comportamento. Quando qualcuno prova a fargli notare che dentro al locale non si può fumare, subito viene zittito da un altro cliente. Tabacco lo guarda con la coda dell’occhio, si lancia curvo e rabbuiato verso il bancone; non appena ha modo di formulare la sua fatidica domanda e sente che giunge prontamente una risposta, si rasserena. Sara, la barista, gli offre una birretta fresca. Quello che Tabacco cerca è il fondamento dell’etica: il riconoscimento di uno stato di bisogno a cui segue una risposta e nulla più. Un delinquente potrebbe facilmente simulare, per un tornaconto esclusivamente personale, una dinamica simile (io fumo in sprezzo delle regole, perché sono al di sopra delle regole e posso fare quello che voglio). Ma Tabacco non finge, non spera di elevarsi con la furbizia o la violenza sopra gli altri e contro gli altri, la sua condotta è a danno unicamente di sé stesso.
La storia d’amore fra Spok e Sara fa da collante che unisce i volti che abbiamo visto entrare e uscire dalla Pesa, alla Luna, o per le vie del paese. Love, meteorite – questo il titolo dell’episodio (forse un richiamo al famoso brano di Lou Reed, Satellite of love) – è di nuovo un racconto che ha come protagonista il tempo, o meglio il tempismo: il prodursi improvviso e insperato di circostanze favorevoli, quella possibilità su un milione che spesso fa incontrare fra loro due esseri umani. E qui la vicenda ha veramente dell’incredibile, e si tratta di una storia vera (assicura l’autore). Sopra il caminetto a casa di Sara c’è una strana pietra, dalla forma irregolare, tutta bucherellata. Si tratta di un meteorite che colpì la nave mercantile guidata dal suo bisnonno, mentre transitava nel bel mezzo dell’oceano. Una pietra celeste, salvata miracolosamente dall’equipaggio della nave che non ha subito danni rilevanti a seguito dell’impatto… quante possibilità c’erano? Forse nessuna. Cade allora a pennello la frase posta in esergo al volume, che ben si accorda con il senso complessivo dell’opera, con il suo indagare e cercare fra i sussulti delle colline: «… Ma il tempo è spesso un fatto che si apprezza sempre dopo» Vinicio Capossela.