Clemenza: chi perdona chi?
Che cos’è la clemenza? A quale registro morale appartiene e in quali pratiche empiriche si realizza? È, a tutti gli effetti, una virtù? E in cosa si distingue dalla bontà e dalla misericordia?
Ci troviamo in quel vasto campo semantico che dice in molti modi l’intreccio della colpa, della “pena” e del perdono: un corteo di concetti correlati che viene da lontano e che nelle traversie del tempo storico si lascia indietro alcune parole, le dimentica, le sostituisce, le dirotta o le confina ad ambiti specifici. Parole che l’attenzione filosofica sente talvolta l’urgenza di recuperare “controtempo” per risignificarle nel futuro come piste di riorientamento etico e politico.
È il caso del libro di Francesca Rigotti, Clemenza (Il Mulino, 2023) in cui la filosofa attua un esame storico-concettuale di questa supposta virtù, oggi “dotata di pregnanza quasi esclusivamente giuridica”: per riportarne alla luce alcune implicazioni morali, pedagogiche e politiche e per non smettere di interrogarsi attorno alle vicissitudini del potere e delle sue maschere.
In premessa alla densa trattazione, che pure si snoda agile attraverso una galleria di immagini e metafore antiche e moderne, l’autrice sottolinea che la clemenza è la “virtù gerarchica per eccellenza, è la disposizione benevola del superiore verso l’inferiore (…) è virtù dei potenti” (p.10). Un incipit che non fa sconti alle connotazioni meno gloriose della clemenza perché se da un lato essa “evoca magnanimità e umanità in chi la concede” dall’altro sottolinea “la sottomissione e umiliazione, se non prostituzione in chi la richiede” (p.16). Non a caso, prosegue Rigotti, “la storia della clemenza nasce e si sviluppa prevalentemente nel mondo romano, dove appartiene al vocabolario bellico prima che a quello giuridico” (p.22). Scrive infatti Cicerone, nel De officiis, che vanno risparmiati in guerra soprattutto “coloro che, deposte le armi, si rifugeranno ai piedi dei comandanti nemici” (p.23). È proprio “con tale postura”, commenta la filosofa, che il corpo sottomesso dei vinti può appellarsi alla clemenza dei vincitori. E la decisione di questi ultimi a “perdonare”, sulla scia di Giulio Cesare, segue un preciso e principale obiettivo politico: “la ricerca del consenso popolare”. Qualcosa che Seneca, precettore di Nerone, ribadisce all’inizio del suo trattato De clementia per far subito risaltare, agli occhi del giovane principe, i vantaggi che questa virtù gli assicurerebbe in termini di sicurezza, consenso e fama regale (p.30).
Nondimeno alla clemenza dei Cesari si ispireranno, con l’ausilio di scrittori e compositori, i sovrani della seconda metà del secolo XVIII, “alle prese con i problemi militari e politici che si presentavano nel governare i loro vasti imperi” (p.53). Esemplare, in tal senso, è l’opera La clemenza di Tito, completata da Mozart poco prima di morire, nel 1791, da cui traspare che la qualità morale dell’imperatore vacilla clamorosamente se esercitata “per il valore della propaganda più che per una vittoria del cuore e degli intenti umanitari” (p.57). “Io tutto so, tutti assolvo e tutto oblio”, dichiara il Tito del libretto di Metastasio modernizzato da Mazzolà, a fronte di un triangolo di tradimenti – cospirazione omicida e infedeltà passionale – che avrebbe potuto farlo optare per una strage crudele e vendicativa. D’altra parte leggiamo che Tito, definito da Svetonio “delizia del genere umano”, “aveva fatto distruggere la città santa provocando la morte di più di un milione di ebrei e la cattura di centomila prigionieri resi schiavi o destinati a decorare il trionfo” dell’imperatore (p.60).
Eccoci, dunque, alle prese con una messa in scena della clemenza che esaltando lo splendore morale del potente viene di fatto utilizzata per opacizzarne le efferatezze. È la deriva perversa della clemenza che tanto codardamente può insinuarsi anche nelle istituzioni pedagogiche e religiose. Come mostra Marco Bellocchio nel suo ultimo film, Rapito (2023), ricostruzione della vicenda storica del bambino Edgardo Mortara, strappato con violenza ai genitori ebrei, nel 1854, e piegato a una “volontaria” conversione al cattolicesimo; inevitabilmente obbediente agli ordini dei suoi pomposi “rapitori adottivi” il ragazzo, divenuto adolescente, si scaglia un giorno contro il papa Pio IX in un impeto di patetica ribellione e il pontefice non manca la ghiotta occasione per umiliarlo teatralmente e per, altrettanto teatralmente, perdonarlo. È una scena magistrale del film in cui Bellocchio riesce a smascherare la contraffazione malvagia della magnanimità, la manovra maligna e tipica della “pedagogia nera” (Alice Miller) e dell’“auto-affermazione inospitale” (Pavel Florenskij) di tutti i tiranni: quella “fredda e ragionata sospensione del diritto di punire il reo” che riesce, osserva Rigotti, “a trasformare l’abuso di potere in estremo e sottile piacere” corroborato dallo sfoggio compiaciuto della propria superiorità (p.57). Sono scenari sociali in cui l’insidiosa clemenza dei potenti esige passività assoluta e in cui la mansuetudine autoimposta degli oppressi “si avvicina alle pratiche forzate di disciplinamento sulle quali ci aprì gli occhi Michel Foucault” (p.41). Non meno ambivalenti si rivelano le forme economiche e giuridiche della “grazia”, concetto polisemico che negli ambiti del commercio e della giustizia combina significati vertiginosi perché paradossali e insolubili: obbligo e gratuità, libertà e legame, autonomia e vincolo, beneficium e dovere di contraccambio (pp.77-99).
Altrettanto incerti, rispetto alla pace che pretenderebbero di stabilizzare, sono gli effetti dell’amnistia e della prescrizione, forme istituite di un ricorso all’oblio e alla cancellazione della memoria dei delitti di diritto comune e dei crimini contro l’umanità. Molte sono le critiche radicali alla politica dell’oblio, dalla “morte del perdono” affermata da Jankélévitch in riferimento all’Olocausto alla differenza tra imprescrittibile e imperdonabile, introdotta da Derrida. Ci troviamo, infatti, sul crinale impervio che prova ad alleare il perdono allo scorrere del tempo e che si radica nell’antica pratica ebraica del giubileo “una pratica di clemenza dell’anno di remissione dei debiti accuratamente descritta nel libro veterotestamentario del Levitico (…). Debiti che diverranno simbolicamente peccati e che verranno ciclicamente perdonati a partire dal 1300, quando il papa Bonifacio VIII introdusse l’Anno Santo” (p. 71-72). Un tentativo che esalta il principio spirituale del perdono ma che si collega, commenta Rigotti, “alla tradizione di atti di clemenza in occasione della Pasqua cristiana, di remissione parziale o totale delle condanne inseritasi in seguito nelle pratiche di giustizia ecclesiastiche e temporali”. Risoluzioni che causarono, “con la pratica delle indulgenze che ancora una volta mischiavano denaro e perdono, la ribellione del monaco Lutero” (p.72).
A quali condizioni, dunque, la clemenza potrebbe rientrare nel novero delle qualità morali desiderabili nell’umana convivenza? Attraversare il disvalore di ogni valore sembra il passaggio obbligato di un cammino etico credibile, cioè capace di inverare, attraverso l’elaborazione del negativo, l’esercizio costante di un’anima protesa verso la misericordia. Clemenza, allora, se illuminata nelle sue intrinseche potenzialità oscure, può rivelarsi anche come una esperienza di saggezza e di cura. “Clementia est inclinatio animi ad lenitatem”, ricorda Rigotti citando la seconda parte del trattatello di Seneca e indicando nel verbo greco klino – piegare verso, appoggiare, inclinare – una delle radici etimologiche della clemenza autenticamente generosa. “Che l’inclinazione, lo scarto della verticalità, sia una posizione creatrice lo mostra il gesto della madre che si china, pende, si inclina verso il bambino”. Un’attitudine femminile che appartiene, o non appartiene, a donne e uomini, “un’inclinazione per tutti, raccomandabile, se ha da esserlo, per ognuno, e un modo per uscire da stereotipi, schemi, posizioni e inclinazioni obbligate” (pp. 18-20).
Interessante e originale, a tale proposito, il capitolo che Rigotti dedica alla metafora corporea del “ginocchio piegato” (pp.103-117). Perché già a partire dall’antichità il ginocchio rappresenta un “centro di forza” fisica e di generazione ma anche un simbolo dei differenti destini relazionali che quello “snodo” di forze può “articolare”: “il motivo del ginocchio scoperto, sul quale non ricade il manto del dio, del sovrano, di Cristo o del santo, è ricorrente nella tradizione iconografica, dalle immagini degli imperatori romani della dinastia giulio-claudia alle figure della maestà di Cristo su portali e absidi” (p.104). Se volta a mostrare la flessibilità reciproca del potente e del supplice “la giustizia del ginocchio rientra a pieno titolo nell’immagine della giustizia di Simone Weil” perché rappresenta la possibilità, per lo sventurato, a sua volta inginocchiato, di “richiamare su di sé l’attenzione e mettere in moto l’azione del giusto” (p. 109). Il ginocchio, allora, diviene “simbolo della giustizia accettabile”, giacché per Weil “la discesa, l’abbassarsi ad ascoltare lo sventurato guardandolo negli occhi è condizione dell’ascesa” (p.110). A chiarire ulteriormente l’immagine della clemenza del ginocchio Rigotti rammenta le parole di Adriano Prosperi: “un potere che si piega benefico verso umiliati e offesi” (p.110). “Benefico”, allora, diviene il campo della clemenza se l’Io di chi si inchina verso il supplice non si identifica in modalità autocelebrativa con il proprio gesto magnanimo ma se ne rende veicolo impersonale in spirito di gratuità. È il sentimento quasi estatico della clemenza che troviamo nel Mercante di Venezia di Shakespeare:
La clemenza ha natura non forzata
cade dal cielo come pioggia gentile
sulla terra sottostante; è due volte benedetta,
benedice chi la offre e chi la riceve;
(…) sta al di sopra del potere dello scettro,
ha il suo trono nel cuore dei re,
è un attributo di Dio stesso”.
Puntuali, in questa area di significazioni eticamente lavorate, sono i riferimenti etimologici dei vocaboli greci che Rigotti giustappone alla romana clementia: “paos, dolce, senza violenza, atteggiamento di persona paziente, umile, modesta con una sfumatura di mansuetudine, e soprattutto epiéikeia, epikia” che “non rientrava nell’ambito giuridico (…) era più una forma generica di indulgenza e comprensione, umanità, generosità, bontà, carità” (p.21).
In quest’ottica il gesto dell’inchinarsi-inclinarsi conferisce simultaneamente un balsamo a chi concede clemenza e a chi la ottiene. Qualcosa di commovente di cui si può fare esperienza osservando certi animali come l’asino, il bue, il cavallo: poderosi erbivori che presuntuosamente definiamo “addomesticati” ma che, a ben vedere, concedono al bipede parlante, nano e vanaglorioso, il dono e il per-dono della loro fatica. Quale uomo è così mite, infatti, da rendersi degno della mitezza di queste creature? Il Christus patiens simboleggiato, appunto, dall’asino, l’animale di straordinaria intelligenza e bontà in groppa al quale “Gesù entra a Gerusalemme la domenica delle Palme, uomo/dio mansueto sul dorso di un animale mansueto, sovrano pacifico su una bestia pacifica” (p.40).
Un equivoco millenario, del resto, induce gli umani a compiacersi del potere e a vergognarsi della pietà: è l’equivoco implicato dalla superbia che sempre teme di scoprirsi quale è, ovvero contagiata dall’esperienza della fragilità e del dolore; commentando Seneca quando riscatta il valore animico, e non blandamente esteriore, della clemenza, Rigotti osserva che la figura del sapiente “sostituisce qui quella del re” e “compie gesti di soccorso in nome della dignità” (p. 32). E sarà ancora una filosofa, Maria Zambrano, che pure aveva amato in Seneca la speciale debolezza di “cadere sconfitti senza serbare rancore” e con essa la capacità di trascendenza rispetto a se stessi (M. Zambrano, Seneca, Bruno Mondadori, Milano, 2000, p.47) a sottoporre il tema della pietà all’urgenza del discernimento giacché “pietà è saper trattare adeguatamente con l’altro” e partecipare “di tutto ciò che nell’essere umano è passività, sofferenza e alterazione” (M. Zambrano, L’uomo e il divino, Edizioni Lavoro, 2008, pp.173-205). Qui, come in ogni opera della pensatrice spagnola, per “altro” si intende certamente il prossimo, vicino e lontano, esule e misconosciuto, ma anche, in senso psicodinamico, l’altro interno, intimo e inconscio cioè “le cose mute e schiave della nostra anima” meritevoli tutte di pietà e compassione. Nomi di una disposizione umana che può assimilare a sé anche il “soffio della clemenza invincibile” qualora essa si fondi sulla “capacità di anonimato, di infondersi per vie infrastoriche e persistere senza nome e quasi senza tradizione scritta, dato che ci riferiamo alle venerande culture analfabete, limite estremo della pietà dell’intelligenza che discende verso chi non può affannarsi a perseguirla, sotto forma di poesia e di grazia” (ibidem).
Non diversamente, agli inizi del Novecento, il pensatore socialista divenuto poi fervente cattolico, Charles Péguy, è ricordato da Rigotti come colui che fu capace di individuare, nel supplice, “qualcuno che si piega, ma non davanti a un altro, quanto alla disgrazia” (p.129). Péguy aveva intercettato un inedito parallelo tra i supplici tebani che imploravano Edipo di trovare un rimedio contro la peste e l’immensa folla di operai convenuti al palazzo dello zar Nicola II, a San Pietroburgo, nel gennaio del 1905, supplicando condizioni di lavoro e di vita più umane. “Le osservazioni di Péguy sono piene di idee e rivelazioni, di visioni e ispirazioni”, osserva l’autrice. “Invisibilmente le posizioni del supplice e del supplicato si invertono. Così il supplicante sta sopra, è superiore a colui cui la supplica è rivolta. (…) Il supplice ha una potenza superiore perché rappresenta qualcuno (…) cittadino senza città, ventre senza pane, testa senza un letto per posarsi, è il rappresentante degli dei”. Charles Péguy “ha sottolineato i legami tra la folla slava a San Pietroburgo e la folla ellenica a Tebe, tracciando una scorciatoia attraverso i secoli. Forse potremmo provare a seguirla anche noi” conclude Rigotti, dato che “l’idea e la pratica della clemenza si intrecciano con il dramma della guerra e della migrazione, spingendosi nel nostro presente” (p.130).