Come sopravvivere nell’era della disinformazione
Il “Manuale di sopravvivenza nell’era della disinformazione” dell’astronomo David J. Helfand è un libro divertente. Sicuramente l’autore si è divertito a scriverlo così come sembra fare quando invita i suoi studenti della Columbia University di New York a seguirlo in una passeggiata nel parco, in luogo della lezione prevista sulla nucleosintesi delle stelle. Esperienza più che piacevole, specialmente in un primo vero giorno di primavera, con una temperatura di 20 C°, sotto un limpido cielo azzurro e una brezza appena percettibile che spira dal fiume Hudson. Anche passeggiando in un parco, però, le domande di un professore possono essere insidiose: “Ditemi, cosa sentite sul viso?”, risposta di uno degli studenti, “Una sensazione piacevole.” Vero, ma per un astrofisico può non essere sufficiente, ha sempre bisogno di un “perché”: “Il motivo per cui è piacevole è perché oggi le molecole dell’aria (azoto, ossigeno e altre componenti in tracce) si stanno muovendo ad una velocità di circa 450 metri al secondo, ed entrano in collisione con le molecole della vostra pelle miliardi di volte al secondo.
Queste collisioni scatenano interazioni proteiche nei termo recettori della vostra pelle e questi, a loro volta, inviano un segnale elettrico al vostro talamo per informare la corteccia prefrontale del fatto che questo è un ambiente perfetto in cui stare. Come a dire: c’è un bel calduccio qui”. Se a qualcuno è tornato alla mente l’incipit di L’uomo senza qualità, ricorderà anche che Robert Musil, di formazione, era un ingegnere meccanico.
Così ragionano gli scienziati. Non tutto il giorno, magari, non ogni giorno ma sempre, quotidianamente coltivando “la buona abitudine al ragionamento scientifico”. Che è anche il titolo di un breve testo di Helfand, disponibile on-line per il corso “Frontiere della scienza” che, dal 2013, è obbligatorio per chiunque s’iscriva al primo anno del Columbia College, indipendentemente dalla Facoltà prescelta, con lo scopo di rendere chiaro cosa sia la scienza e come contribuisce alla nostra comprensione dell’universo materiale.
Eventualità oggi ancor più raccomandabile. Non a caso, infatti, l’edizione italiana del libro di Helfand (pubblicata da Scienza Express, nel Marzo 2022), attualizza l’originale del 2016 con una necessaria prefazione nell’era del Covid-19: quante ovvietà avremmo potuto evitare di discutere se fossimo abituati al ragionamento scientifico? E sì perché, pur contando molti giovani che, fin dalle scuole secondarie, seguono corsi di calcolo matematico, pure “la loro capacità di servirsi dei numeri, di leggere grafici, di comprendere le regole di base del calcolo delle probabilità e quindi discernere ciò che ha senso da ciò che non ne ha si è molto assottigliata. In genere le competenze nel ragionamento quantitativo della popolazione (politici, giornalisti, medici, burocrati ed elettori) sono in gran parte svanite. E la cosa fa paura”. Ce ne siamo accorti. Abbiamo avuto paura.
Un’ultima premessa. Il titolo originale è diverso e, mi permetterei di dire, più corretto: “A servival guide to the misinformation age”. Quale sia la differenza tra disinformazione, misinformazione e mala-informazione lo anticipa l’autore nell’introduzione, non casualmente accompagnata da una nota traduttiva al titolo e che rimanda anche a un’ulteriore riflessione, nella Nota linguistica di Vera Gheno – sempre puntuale – in chiusura del volume: la lingua inglese distingue tra misinformation, ovvero l’atto involontario di produrre informazione scorretta e la disinformation nella quale la volontarietà è manifesta. Più nello specifico Vera Gheno riporta le risultanze del rapporto al Consiglio d’Europa di Claire Wardle e Hossein Derakhshan che mettono in guardia da un più generale information disorder.
C’è infatti disinformazione quando notizie completamente inventate sono messe in giro con l’intenzione di nuocere a qualcuno; per misinformazione si intende, invece, il caso in cui un’informazione falsa viene immessa nel circolo della comunicazione in buona fede, magari anche pensando di fare qualcosa di buono; ciò che sicuramente non accade con la mala-informazione che consiste nella condivisione pubblica di contenuti privati, con le fughe di notizie e i cosiddetti hate-speech. Il libro di Helfand si occupa principalmente di “misinformazione”, per dirla con un gergo oggi molto frequentato, di “bufale” o “fake news” fatte circolare con l’errata convinzione che siano invece buone e vere: e che sia una parola nuova per le nostre abitudini linguistiche lo si capisce anche da come il correttore automatico del mio pc continua a riscriverla “disinformazione”, obbligandomi a una puntuale rilettura.
Dopo il primo capitolo sulla “passeggiata nel parco”, la trattazione rimane curiosa e a tratti anche divertente per il lettore medio cui è destinata, un po’ meno per chi di testi del genere ne ha già incrociati parecchi. Il catalogo degli esempi, delle citazioni, delle controintuitive verità della scienza – la sua “naturale innnaturalità”, di cui scriveva brillantemente un campione come Lewis Wolpert… ma già sono trent’anni – è prevedibile e ripetitivo. Dalla definizione di “cos’è la scienza”, un sistema disegnato per cercare modelli falsificabili della Natura, con ovvio corollario popperiano, al capitolo su “il senso delle proporzioni” – per un astronomo, imprescindibile –, ai consigli su come fare calcoli apparentemente difficilissimi su un foglietto di carta, alle spiegazioni su come si leggono i grafici. Capitoli, box, esercizi in appendice fanno da guida per orientare il lettore, almeno un minimo, tra probabilità, statistica e il significato di “correlazione”.
Il tutto, poi, riassunto brillantemente nel capitolo 10, utilizzando buona parte dei termini e delle concettualizzazioni riproposte così da spiegare in cosa effettivamente consista il riscaldamento globale, come definirlo, con quali strumenti lo si debba leggere, come si costruiscono i modelli, che fare. E siccome l’autore era partito dalle suggestioni di due pellicole cinematografiche, chiude con una vignetta del Christian Science Monitor, dove si vedono due insegne teatrali annunciare al botteghino altrettante rappresentazioni, una dal titolo “Una scomoda verità”, come già il film di Al Gore, l’altra “Una bugia rassicurante”, registrando la fila di aspiranti spettatori per la seconda e la solitudine del bigliettaio per la verità scomoda da considerare. Non manca il capitolo su ciò che la scienza non è – astrologia, omeopatia, agopuntura, creazionismo – e quello sulle vere e proprie frodi, come la tristemente famosa e oggi più che mai attuale di Andrew Wakefield, sulla correlazione tra la somministrazione del vaccino MPR (morbillo, parotite e rosolia) e l’autismo.
Che per qualcuno non ci sia nulla di straordinariamente nuovo, poco male, anzi: si tratta di concetti, riflessioni, trappole cognitive, suggerimenti che vanno continuamente pubblicati e riproposti, ché in ogni casa ci sono librerie diversamente assortite, e ciò che può sembrare un doppione per altri può essere un’assoluta e necessaria novità per me. Fosse la discutibile ripetitività il criterio, dovremmo tutti attenerci all’implicito consiglio suggerito nel celebre aforisma di Alfred North Whitehead, il co-autore dei Principia Mathematica di Bertrand Russell, quel “tutta la storia della filosofia occidentale non è che una serie di note a margine su Platone”, limitandoci alla ristampa e alla lettura dell’opera omnia del filosofo ateniese, allievo di Socrate e maestro di Aristotele (dove s’intende che Whitehead qualche ragione pure ce l’aveva).
Ma la lettura di questo manuale permette, invece, di mettere in comune qualche ulteriore riflessione, forse utile per chi si occupa di comunicazione della scienza. Una disciplina e per molti una vocazione, oltre a un mestiere, che recentemente ha trovato l’occasione – non voluta, va da sé – di celebrarsi all’annuncio della morte di Piero Angela, in Italia l’indiscusso campione di un genere che qualcun altro aveva già provato a imporre in precedenza (per chi ha l’età di ricordarli, Orizzonti della scienza e della tecnica di Giulio Macchi) ma che Angela ha portato al successo, conquistando meritoriamente la collocazione in prima serata per programmi di intrattenimento colto, in precedenza relegati negli orari tardi o comunque di minor appeal pubblicitario.
E non è un caso, infatti, che di molti degli esempi e degli argomenti che Helfand propone nel suo manuale, Angela si sia occupato a più riprese nei suoi molteplici “Viaggio nel…” (sul “viaggio” ci torniamo in chiusura), in Quark, prima, e Superquark, poi. Non credo di interpretare malamente il pensiero di Piero Angela se dico che avrebbe approvato la fiducia con la quale David Helfand introduce alla lettura del suo Dizionario: “La mia speranza è che, utilizzando alcune tecniche qui descritte, i miei lettori riescano a cucirsi addosso quell’abito mentale necessario a combattere la misinformazione favorendo così lo sviluppo di un mondo più razionale in cui le meravigliose abilità del cervello umano siano indirizzate alla soluzione dei problemi planetari che incombono, piuttosto che alla creazione di teorie complottistiche o di fatti alternativi”. Letto e sottoscritto.
C’è però un però. Nel chiudere il volume, Helfand distingue tra Verità, Significato e Comprensione, esemplificando a partire da una domanda: “perché il cielo sta facendo tanto rumore?”. Secondo l’autore, la risposta “antropocentrica” di chi è alla ricerca della Verità assoluta è, “perché Dio è arrabbiato con i peccatori…”; la risposta “antropomorfa” di chi insegue il Significato, sarebbe “perché gli spiriti del cielo stanno lottando tra loro lanciandosi addosso delle grosse pietre”; la riposta “antropometrica”, quella giusta va da sé, è “a causa dell’interazione tra aria, acqua e ghiaccio all’interno di una nuvola, la parte inferiore di questa tende ad assumere una carica negativa, etc. etc.”: così risponde chi ambisce alla Comprensione.
Che la terza risposta sia quella scientificamente corretta non c’è dubbio, mentre la distinzione tra Verità, Significato e Comprensione appare, a dir poco, grossolana. Il problema, almeno a parere di chi scrive, è che nel nominare l’attività della “comunicazione della scienza”, si dà per ovvia la necessità di studiare la seconda – o più propriamente “le” scienze – mentre la “comunicazione” la si dà per scontata, prevalentemente in forma di mestiere acquisito, di “praticaccia” esercitata negli anni. Più volte mi è capitato di sottolineare come la definizione “scienza della comunicazione”, con riferimento ai corsi di laurea, sia inappropriata: se per scienza s’intende qualsiasi disciplina che adotta il metodo inaugurato da Galileo, è evidente che di scientifico nello studio dei fatti della comunicazione non c’è molto.
Ma definizioni, magari comode, a parte, questo vuol dire che c’è poco o nulla da studiare? Sul significato non è così ovvio dire cose sensate, come ammoniva Algirdas J. Greimas, il semiologo forse più influente del secolo scorso, nelle prime pagine del suo “Del senso”: la definizione di “significato” di Helfand farebbe inorridire chi alla semiotica e alla linguistica ha dedicato e sta dedicando anni di studio.
Nel ricordare l’impresa di Piero Angela, più volte ho trovato il riferimento a una sua dichiarazione secondo la quale, “bisogna essere dalla parte degli scienziati per i contenuti e da quello del pubblico per il linguaggio”. Ora, il senso credo di intenderlo correttamente se “traduco” che il compito e l’abilità consistono nel contemperare il massimo rigore possibile su ciò di cui si parla, facendolo con un linguaggio il più possibile vicino al senso comune, comprensibile anche da chi non ha competenze specifiche.
Ma l’implicito della citazione lascia intendere – credo chiaramente – che da una parte ci sono i contenuti e dall’altra diversi possibili modi di comunicarli, qualcuno più efficace di un altro. Senza scomodare posizioni “relativiste” o “postmoderne”, cui accenna pure Helfand (anche in questo caso un po’ troppo di passata) ma dire che, nella comunicazione, ci sono contenuti da una parte e modi di esprimerli dall’altra, significa fare un salto indietro nella ricerca linguistica e semiologica di più di cent’anni, prima ancora di De Saussure e il suo “Corso di linguistica generale”.
Coevo di Heisenberg, e danese anche lui, Louis Hjelmslev, ne I fondamenti della teoria del linguaggio (in italiano disponibile solo dalla metà degli anni ’60) ha rivoluzionato e posto le basi della riflessione sul “linguaggio” e sul “significato”, sulle quali si sono innalzate le riflessioni di tutti coloro che hanno fatto la storia della disciplina, da Barthes, a Eco, al Greimas che ricordavamo insieme al suo migliore allievo, direi internazionalmente, il nostro Paolo Fabbri. Intendere la lingua come una serie di etichette, diverse a seconda di quella che si usa, da apporre sulla realtà esterna è una semplificazione oramai inaccettabile. Non è questa la sede per un bignami teorico, ma Hjelmslev chiariva, in danese già all’inizio degli anni ’40, che non già di “significante e significato” bisogna parlare, bensì di due piani, quello dell’Espressione e quello del Contenuto, e che ogni piano distingue una forma che, proiettandosi sulla materia (dell’espressione e del contenuto) produce e ne mette in relazione le rispettive sostanze.
Quando mia moglie – che è bilingue perfetta ancorché madrelingua inglese – e che è appassionata di cucina, propone un piatto di “spaghetti”, pronuncia la parola in perfetto italiano, ma se gli ospiti parlano solo inglese la sua pronuncia – di una parola italiana parlata da una persona che l’italiano lo parla – assume l’abito linguistico inglese e la “e” quasi scompare e le “t” si mischiano con il suono della “c”. Quando in francese distinguiamo, sul piano del contenuto, tra “arbre”, bois” e “forêt”, notava Hjelmslev, in italiano diciamo quasi parimenti “albero”, “bosco” e “foresta”, ma se si assume l’abito linguistico tedesco o danese, le corrispondenze non corrispondono, le parole sono diverse perché si riferiscono ad un modo di leggere il mondo alternativo e parimenti legittimo: di qui la difficoltà estrema della traduzione, che non è mai “parola a parola” ma “mondo linguistico a mondo linguistico”, una sostanza del contenuto che bisogna provare ad esprimere a partire da un altro modo di tagliare il reale, a partire da una forma diversa.
Questo vale anche all’interno di una lingua. Quando Helfand si augura che i suoi lettori “riescano a cucirsi addosso” l’ambito mentale della scienza, li sta invitando a cambiare “forma del contenuto” così da aver accesso ad una sostanza in cui una bella giornata di “calduccio” sia raccontabile anche come l’interazione tra le molecole dell’aria e quelle della loro pelle: un modo di dirlo non è più vero di un altro, tanto meno uno ha senso e l’altro è privo di significato. Si tratta sempre e comunque di modi di comprendere il mondo. La differenza è che quando se ne maneggia più d’uno la nostra vita è più piena e, aggiungerei, più interessante e ricca e utile a misura delle diverse prospettive che si possono considerare.
Per esemplificare cambiando ambito: una qualsiasi nota musicale è definibile secondo la frequenza in Hertz che la distingue dalle altre, un Fa# non è un Fa naturale, un Do lo riconosciamo diverso dal Sol. Ma è un fatto, e non solo per un musicista, che un Fa I grado della scala omonima, una “tonica”, suona diversamente dal Fa IV grado della scala di Do, un intervallo di quarta che, nel nostro sistema musicale, implica un moto intrinseco o sul V grado, sul Sol, o a scendere direttamente sulla tonica: la frequenza fisica è la stessa, mentre il suono che percepiamo è diverso perché diverso è il rapporto che intrattiene con le altre note in scala, diverse sono le aspettative (se poi, tutto ciò, lo dici a un cinese o a un indiano, queste relazioni non contano più: di qui l’etnomusicologia). La scienza semiotica, chiariva Greimas, è scienza di termini interdefiniti, il significato di ognuno determinandosi nella pluralità di relazioni con tutti gli altri.
Così è per tutto e anche per la scienza. C’è un modo di raccontare una realtà che si esprime grazie a una semplice formula: E=mc2. Sicché, quella stessa realtà è esprimibile in molti altri modi, ognuno dei quali restituisce una parte di senso, occultandone un’altra, in un continuo processo traduttivo dove, come chiariva Umberto Eco in Dire quasi la stessa cosa: "Se consultate qualsiasi dizionario vedrete che tra i sinonimi di fedeltà non c'è la parola esattezza. Ci sono piuttosto lealtà, onestà, rispetto, pietà": addirittura la pietas latina, il sentimento di dovere e rispetto. Di più. La formula o, per esteso, il paper sulla rivista scientifica, non è il primum dal quale tradurre verso diversi e più popolari pubblici, è esso stesso una traduzione: quella dall’insieme di tutte le pratiche messe in gioco nelle scoperte, intuizioni, esperimenti, errori, nuove prove, ipotesi alternative, ulteriori verifiche, finale revisione… fino alla sottomissione dell’articolo alla redazione della rivista.
Quanto lavoro era condensato, tradotto, nella scarna paginetta di Nature pubblicata il 25 Aprile del 1953 che annunciava la scoperta del DNA? E come, diversamente, l’avevano anticipata Watson e Crick, circa due mesi prima, entrando trionfanti all’Eagle Pub di Cambridge? A pubblici diversi, forme del contenuto conseguenti!
Se posso dire la mia – formulazione assai retorica, mi rendo conto – il meritato successo delle trasmissioni di Piero Angela nulla ha a che fare con la capacità di tradurre “dall’italiano all’italiano”: non si tratta di dire “in altre parole” o “in parole povere” ma di adattare, proprio nel senso dell’adattamento, per esempio quando si traduce in sceneggiatura un romanzo, perdendo senso quanto se ne aggiunge: ma con “lealtà, onestà, rispetto, pietà”, qualità che Angela ha sempre praticato. Tantomeno si tratta di stare con i contenuti dalla parte della scienza e con l’espressione da quella del pubblico, per le ragioni che abbiamo sia pur sommariamente ricordato.
Quello che Piero Angela ha indovinato e prevalentemente perseguito è un genere di discorso particolarmente adatto, quello del racconto di viaggio: viaggio nel corpo umano, nel cosmo, nel paranormale, dentro la mente, fino al suo testamento Il mio lungo viaggio. 90 anni di storie vissute. Particolarmente adatto perché è con il genere di viaggio, è con Keplero che si rifà alla lingua di Colombo, Magellano e dei portoghesi, che si inaugura la scienza moderna nel ‘600: a far data da quella rivoluzione lo scienziato diventa esploratore di terre sconosciute, dove la comprensione parziale e approssimata è consustanziale all’impresa. Raccontare come si fa visitando luoghi sconosciuti autorizza a capire quel che si può, magari ripromettendosi di approfondire in un secondo momento. Angela autorizzava l’ignoranza, non faceva sentire il pubblico in colpa, lo rassicurava.
Su un altro piano, Luca Ronconi con la messa in scena di Infinities, uno spettacolo al quale ho avuto il privilegio di collaborare, un testo sui paradossi del concetto di infinito in matematica, non provava certo a divulgare la matematica – nulla di più lontano dai suoi interessi – ma di fatto metteva in scena lo sconcerto che quel tema e quei problemi producevano in matematici del calibro di Hilbert, Kronecker e Cantor e che ancora ci lasciano stupiti e incerti. Il pubblico non si laureava in logica matematica, pure comprendeva la natura dei problemi. Fenomenale suggerimento, quello di Ronconi, per chi si vuole occupare di divulgare la scienza del ‘900, che certo non è raccontabile con l’abito mentale positivistico ottocentesco.
Per chi scrive, appassionato di scienza ma con una formazione semiotica, sembra una perorazione pro domo personale, ma veramente credo che sia ineludibile un incontro proficuo tra chi si occupa di scienza e chi studia e ricerca le forme della significazione. Così come non si può virgolettare Newton ignorando le scoperte di Einstein e Bohr, allo stesso modo, nel mondo della ricerca scientifica, non ci si può accontentare di qualche banalità sociolinguistica con la quale tromboneggiare sull’uso dei social.
Sarò di parte, ma mi sembra un progetto di lavoro interessante quanto irrimandabile.