Donald Weber, Interrogations. Una non-fiction, una mostra e un libro
In una scena del Maestro e Margherita Bulgakov ripropone l’incontro fra Pilato e Gesù raccontato dai Vangeli, quello in cui l’uomo che rappresenta il potere di Roma nella terra di Galilea si confronta con una forma di verità altra da quella rappresentata da lui, una forma di verità che lo scrittore russo fa insinuare anche nella sua figura sotto forma di un insopportabile mal di testa.
Nel suo personale interrogatorio, Pilato accusa Gesù di essere un bugiardo, di essere colpevole di ciò per cui è stato accusato e allude contro le sue ragioni al discorso della follia, in una visione simile a quella che ha spinto Lombroso alla fine dell’800 ad accomunare nel suo Atlante pazzi e criminali. D’un tratto anche Gesù sembra diventare uno di quei personaggi del popolo russo a cui ci hanno abituato Gogol’ e Dostoevskij. E mentre Gesù accusa Matteo di non trascrivere fedelmente le sue parole, anche Pilato pare iniziare a prendere le forme di un uomo della burocrazia russa.
Tutta l’accusa nei confronti di Gesù si sarebbe basata su un fraintendimento: avrebbe istigato il popolo a distruggere il tempio di Eršalaim, asserendo che il tempio della fede sarebbe stato distrutto per far posto al tempio della verità.
E proprio qui l’intreccio fra verità e potere inizia a prendere forma. Nel momento in cui Pilato dalla sua posizione di giudice pronuncia queste parole, mette in discussione la capacità dell’arrestato di avere accesso alla verità: “Perché parli di una verità di cui non hai nozione. Che cos’è la verità?”
Nel chiuso delle camere degli interrogatori, Donald Weber mette in scena, da regista e insieme operatore, un teatro del potere che si gioca tutto su un intreccio, un sovrapporsi e una triangolazione di punti di vista – di quello dell’accusato, di quello del testimone e di quello del giudice-accusatore – che giocano tutti con la stessa strumentalizzazione della verità. La quale parte da un presupposto diretto a individuare non le condizioni di veridicità di un’affermazione, quanto piuttosto l’importanza, all’interno di una società, che ci sia un individuo che dica la verità: in questo caso, ciò che importa non è tanto verificare una condizione di colpevolezza, ma trovare un colpevole.
Donald Weber ha messo a punto il suo ultimo progetto, Interrogations, esposto in ottobre all’interno della manifestazione “Fotoleggendo” all’Isa di Roma, nel corso di sei anni.
Dopo un lungo viaggio a Chernobyl nel 2005, ha trascorso un lungo periodo fra Ucraina e Russia, dove ha messo a fuoco il mondo dell’autorità attraverso le stanze degli interrogatori. Lì dove, come ricorda nel suo testo la curatrice della mostra, Gaia Tripoli, la verità è assieme il loro prodotto finale e ciò che mai lascia quelle stanze. Perché la verità è fatta di complicità, un reciproco riconoscimento di potere, una resa al potere.
Nel sistema giudiziario ucraino più del 90% delle imputazioni finiscono in dichiarazioni di colpevolezza. Per Donald Weber, quello delle stanze degli interrogatori diventa lo scenario di uno Stato ridotto a un rituale sanguinario piegato a un potere senza nome.
Da questo punto di vista, in Interrogations “il luogo specifico è stato utilizzato per ritrarre un tema universale. E in questi giorni di “Occupy Wall Street”, della Primavera Araba e altri movimenti di persone che insorgono contro l’autorità, o contro coloro che controllano ciò che noi non abbiamo, la potenza di questo lavoro diventa più intellegibile. Il significato ne è amplificato perché credo che tutti noi possiamo immaginarci in quella posizione; non siamo mai coloro che interrogano, ma gli interrogati”.
Nel breve scritto alla fine del libro, che verrà pubblicato in Europa da Thames & Hudson nel dicembre 2011, Weber si sofferma proprio sulla questione del Potere, soggetto invisibile delle sue fotografie, invisibile come cerca di apparire il fotografo stesso per far posto alle storie che racconta.
Siamo tutti prodotti del potere – sostiene Weber – e anche in questo set reale rappresentato dalle stanze degli interrogatori non riconosce innocenti, non riconosce soggetti che non siano già all’interno di questo sistema che sembra aver pervaso la realtà: proprio come in una sorta di peccato originale dove l’illusione di un accesso alla verità attraverso la conoscenza corrisponde alla caduta dell’uomo.
La dimensione invisibile che Weber assume nella triangolazione in atto all’interno delle stanze è una dimensione tutt’affatto neutrale però: farsi mezzo attraverso cui far parlare la voce degli altri non significa non riconoscere il proprio ruolo di fotografo. Non semplice osservatore, e tantomeno passivo, con la propria presenza Weber altera la realtà di ciò che sta accadendo. “Non sono un fotografo, ma mi occupo di critica sociale”, e il movimento paradossale che s’innesca nelle stanze degli interrogatori è esattamente questo: nel momento in cui si pone nella posizione di testimone invisibile, Weber mette in azione una macchina critica.
Attori, complici, cavie, vittime dello sguardo del fotografo, gli individui all’interno delle stanze degli interrogatori, sono gli ingranaggi di un meccanismo che si muove sulle linee della non-fiction: un teatro del vero giocato all’interno di quattro mura che riflettono una scena – quella che Weber intende rappresentare nella sua personale epica del Potere – che si estende fino a rendere ognuno complice silente al contempo di carnefici e vittime.
“Quando all’inizio ho cominciato a fotografare per questo progetto, ho pensato a un’installazione piuttosto che a un libro. Penso che sia un lavoro spaziale, e l’uso dello spazio nell’allestimento della mostra è una cosa importante. C’è sempre stata l’idea non solo della violenza psicologica, ma anche dell’uso del terrore da un punto di vista architettonico. Ho lavorato come architetto, e penso che il mio lavoro abbia un senso dello spazio molto reale e ricercato, non solo nelle ambientazioni, ma anche nei modi in cui lo spazio condiziona le persone. Ho trovato che le stanze e i modi in cui veniva intenzionalmente data una posizione alle persone all’interno delle stanze, non fosse una circostanza fortuita, ma ideata dal poliziotto. Quello che spero è di creare una tensione all’interno dello spazio della mostra attraverso lo spazio che mi è dato. Per esempio, di solito quando guardiamo una fotografia manteniamo una certa distanza, ma vorrei stampare le foto quasi a dimensione naturale e forzare le persone a confrontarsi con loro, impedendo loro di fare un passo indietro, e ‘ammirare’ la foto, ma piuttosto mettendole nella condizione di confrontarsi ed essere messi a confronto. Non sono interessato alla fotografia come medium autonomo, sono interessato al modo in cui posso utilizzare la fotografia per inseguire un’idea e comunicarla a un pubblico.”
Anche Giulio Paolini, quando nel 1967 dipingeva Giovane che guarda Lorenzo Lotto, una riproduzione fotografica in scala 1:1 del Ritratto di Giovane del Lotto, era interessato a tirare le fila dell’esperienza visiva, spostando l’attenzione dallo sguardo dell’artista di fronte al proprio soggetto, al soggetto ritratto che guarda l’artista, che come punto di vista si sovrappone a quello dello spettatore. Nell’idea di allestimento di Weber, lo spettatore viene coinvolto in un faccia a faccia con gli interrogati che a tratti si allinea con il punto di vista del carnefice, per poi discostarsene e farsi testimone terzo, quasi dentro la stanza, a volte sorpreso dai gesti degli interroganti, in un processo di disorientamento e interrogazione che sembra diventare a ciclo continuo.
Nella mostra all’Isa sono stati esposti una serie di ritratti, accompagnati da semplici e incisive didascalie: prostituta, tentato stupro...
Se Weber ritrova un riferimento pittorico nel suo lavoro, questo è nei ritratti di alienati di Géricault, ed è buffo notare come anche questi ritratti, realizzati dal pittore francese forse come supporto descrittivo alle ricerche dello psichiatra francese Georget, siano animati da uno spirito clinico e sistematico che proprio nei titoli – Alienata con monomania del gioco, Alienato con monomania del furto – rimanda da un lato alle didascalie di Weber e dall’altro alle modalità di classificazione di lombrosiana memoria, e con lui a tutta quella dimensione della fotografia, da quella segnaletica alla fotografia giudiziaria, che porta in primo piano l’aspetto di prova e testimonianza, di rappresentazione della verità che come un guscio racchiude la forza controversa e manipolatoria delle immagini, quella per cui si ritrovano ad essere al servizio di un determinato potere, di una determinata autorità.
Taryn Simon, nel suo lavoro The Innocents documenta le storie di individui non colpevoli che hanno passato anni in prigione accusati di un crimine che non avevano commesso. E questo perché in primo luogo la fotografia è stata considerata una forma di testimonianza credibile e in grado di avere la funzione di ago della bilancia della giustizia.
Le immagini di Weber, non immuni dal peccato, vivono della propria fragile ambivalenza – in questo rendendosi esse stesse passibili di accusa.
In un’intervista su “Dvafoto”, blog che prende il nome dal duo di fotogiornalisti Mark Lutton e M. Scott Brauen, Weber cita la famosa frase di Stalin “Come il tribunale della storia giudicherà le nostre azioni è cosa che non mi riguarda” per descrivere la propria personale posizione: “Trovo questa provocazione affascinante e capace di arrivare dritta al cuore del mio essere fotografo. Ho iniziato a considerare il mio ruolo come quello del tribunale della storia, un altro qualcuno che possa analizzare le azioni della Storia e presentarle a un’udienza. Sono più interessato a far foto su qualcosa che di qualcosa. Nell’approfondire il mio lavoro, ho iniziato a trarre ispirazione da scrittori come Mikhail Bulgakov, Varlam Shalamov and Vasily Grossman, tutti artisti capaci di rivelare i seducenti slogan della Storia e i loro significati oscuri. Ho iniziato a indagare non solo il soggetto che mi interessava, ma anche i metodi migliori per presentare il mio lavoro. Questi scrittori sono stati una grande ispirazione e così hanno iniziato a emergere le idee di libro. Per me il ruolo di fotografo non si limita alla creazione di una narrazione visiva, ma deve comunicare delle idee e le persone. I luoghi, i suoi soggetti possono essere esplorati nella stessa maniera in cui uno scrittore esplora certi temi."
Quando, sempre nel suo breve testo a chiusa del libro, Weber parla di non-fiction, fa riferimento a una pratica di defamiliarizzazione (“Non-fiction is a practice of defamiliarization”), un termine che rimanda ancora una volta alla Russia, in questo caso ai formalisti russi, per i quali la letteratura è un linguaggio che serve semplicemente a farci vedere le cose con occhi diversi, e riesce a farlo grazie a tecniche stilistiche e strutturali precise. Il libro di Interrogations, in questo senso, oltrepassa la definizione di libro fotografico e ambisce alla dimensione della letteratura: “Ho realizzato che la documentazione quando confinata nella sua tradizionale camicia di forza, è solo una forma limitante di espressione di un’idea, di una filosofia, o una storia. Ero interessato in questa idea di fiction narrata usando una situazione di non-fiction, cosa che ogni grande romanzo fa. Come Il Maestro e Margherita, una critica al sistema sovietico narrata attraverso un racconto fantastico”.
Il libro di Donald Weber, a sua volta, come la scena in atto nelle stanze degli interrogatori, come le dinamiche messe in moto nella mostra, è frutto di una triangolazione pratica, orchestrata con lo scrittore Larry Frolick e con il book designer Teun van der Heijden, che per primo lo ha convinto a restringere il fuoco prevalentemente sulle fotografie di interrogatorio, ma anche di una triangolazione formale: la non-fiction, nella sua articolazione in prologo, interrogatori ed epilogo che riflettono proprio quell’intenzione di farci vedere cose con occhi diversi, o, come dice Weber, “per subire uno shock attraverso il nostro stesso rimaner senza parole”, attraverso forme stilistiche e strutturali. Il libro è un punto di arrivo, un concentrato portatile di queste tensioni, e frutto di un modo di operare volto a garantire, per quanto possibile, il grado di maggiore libertà possibile per un fotografo attraverso forme di autofinanziamento legate al sito interrogationbook.com. È un’ulteriore forma di mal di testa, questa volta in formato cartaceo, che si insinua come dubbio all’interno di uno schema apparentemente basato sull’ostensione di una verità.