Donne: lavorare stanca
“La fame. Stay hungry, resta affamato, seguito dal più criptico stay foolish, rimani pazzo, è forse il più popolare degli adagi contemporanei su come si sta al lavoro: non a caso, azzardo prendendo a prestito un vocabolario novecentesco, lo ha coniato un padrone”.
Di questo tenore lampante sono innumerevoli paragrafi dell’inchiesta firmata da Irene Soave per Bompiani, Lo statuto delle lavoratrici, 2024. Proprio come confessava lo scrittore Alex Niven nel suo commiato a Mark Fisher, di cui aveva letto Capitalist Realism, a percorrere le 306 pagine del saggio firmato da Soave ci si sente come qualcuno che “torna a respirare dopo essere stato troppo tempo sott’acqua”.
Lo statuto delle lavoratrici è un’indagine e un trattato sul mondo del lavoro italiano e occidentale dal taglio inedito. Taglio che rende il libro una lettura del tutto fuori dal comune e obliqua a diversi generi. Lo stile ha qualcosa di visivo, costruisce una specie di percorso a falcate che assomiglia a un videoclip girato con una steadicam: una semi-soggettiva sul male di lavorare, sul lavoro che ammala, ma anche su una serie di tracciati concettuali e materiali grazie a cui il lavoro si potrebbe ripensarlo, riscriverlo, eccome.
La questione d’altronde è globale; Soave cita autori cult – Mark Fisher, Sarah Jaffe, David Graeber, Eva Illouz, Thomas Piketty, Gloria Steinem. Il lavoro non ci ama, ma nemmeno noi.
Indagine. Lo statuto delle lavoratrici è un saggio femminista; il punto di partenza è perciò obbligato: gli stipendi delle donne mostrano una forbice di notevole disparità rispetto a quelli maschili. Tra i lavoratori poveri – quelli cioè il cui salario è inferiore al 60 per cento della mediana nazionale – il gap italiano dei salari maschili e femminili è del 16,6 per cento e non si è mai ridotto negli ultimi trent’anni. Nel nostro Paese, l’80 per cento dei contratti part-time è stipulato con femmine. Al 2020, in un sondaggio di Doxa per una società d’investimenti – il saggio di Soave restituisce un’immagine al vetriolo dei “prodotti di alfabetizzazione finanziaria pensati per clienti donne” – si fissava l’indipendenza economica a un introito di circa 1778 euro; 2060 con un figlio; 1520 al Sud. Ma ci arrivava solo il 40 per cento delle intervistate.
D’altra parte il successo anche finanziario è un mito del neofemminismo – “l’uomo ricco sono io”, rispose Cher, controbattendo al consiglio della madre di trovarsi un marito benestante. Ed eroine di questa mitologia sono Oprah Winfrey, Angela Merkel, J. K. Rowling, Beyoncé; per le donne meno “straordinarie”, il neofemminismo offre piuttosto “il leitmotiv dell’incolumità personale”. Ma il punto, il grande rimosso che il saggio esplora, resta piuttosto “una busta paga ridicola” in moltissimi lavori (femminili): se l’insufficienza del salario è un problema ambosesso, lo è, invariato e invariabilmente, in modo diverso.
Dall’economico al simbolico non va meglio. Soave fronteggia gli elementi che concorrono a far sì che su più di una nullipara le cronache della maternità contemporanea facciano “lo stesso effetto scuola Diaz delle cronache dei parti”. La mistica dell’allattamento, l’ansia da prestazione di una genitorialità a cui si chiedono quote sempre più imponenti di abnegazione: non sorprende che le donne che lavorano, che hanno avuto una carriera, spesso pensino a diventare madri soprattutto “il più tardi possibile”. Le donne non vogliono figli? Ma volere “è più un istinto o un desiderio, un obiettivo o una voglia? Un capriccio? Un’utopia? Un’inclinazione, un progetto, un criterio, un sogno o una priorità?” Una risposta possibile è quella fornita dai dati delle dimissioni del 2022 secondo la relazione dell’Ispettorato nazionale del lavoro e un report dell’Inapp. Il 72 per cento dei provvedimenti di licenziamento riguardava neomadri. Inoltre, se non avevano un impiego prima di partorire, solo sei donne su cento in Italia lo trovano dopo. Su cinque lavoratrici, una lascia il posto dopo il primo figlio. “Tra queste: metà perché non riesce a conciliare il lavoro con la cura del figlio. Un terzo perché aveva un contratto precario e dopo la maternità è stata lasciata a piedi. Le restanti perché facendo il conto dello stipendio che prenderebbero lo dividono tra la retta del nido, la tata e le sei sedute mensili dall’ostetrica per la riabilitazione del pavimento pelvico, naturalmente intra moenia nello stesso ospedale dove hanno partorito. Nessuna risponde: ‘grazie, preferivo non lavorare’”.
Trattato. Lo statuto delle lavoratrici è una riflessione sistematica sulle utopie e sulla cura di noi stessi e del nostro lavoro. L’economista statunitense Claudia Goldin nel 2023 ha vinto un Nobel per uno studio recentemente tradotto in italiano, La parità mancata (Mondadori 2024). Soave entra in dialogo con Goldin rispetto alla possibilità di un futuro in cui una carriera non richieda più come complemento necessario quello “di avere una moglie”. Il tema è cioè quello del tempo lavorato e che si può pretendere sia dedicato al lavoro da un dipendente: dal momento che la maggior parte (se non tutte) le carriere sono greedy jobs, “lavori ingordi” che comportano una dedizione necessariamente sottratta a qualsiasi altra attività esistenziale, è solo ripensando la struttura complessiva del lavoro che possiamo trovare una via di uscita. Il programma è in più punti, e, di fatto, costituisce il secondo filo rosso del libro.
Prima di tutto occorre organizzarsi. Più che di grandi dimissioni come fenomeno sociologico – il quiet quitting che ha campeggiato come orizzonte di liberazione dal lavoro verso la fine della prima ondata di Covid – Soave chiosa sull’aspetto scoraggiante di un’idea di “autoritiro”, meschina, solitaria. Il nichilismo di queste scelte è il contraltare perfetto degli scioperi bianchi, che però scioperi sono, collettivi, rivendicazioni di gruppo in senso tradizionalmente politico, e che “quasi sempre, hanno visto esaudire qualche richiesta”. L’autunno caldo del 1969, quell’enorme mobilitazione collettiva che in Italia è stata prodromo della legge 20 maggio 1970 n. 300, cioè dello Statuto dei lavoratori, ci ricorda diritti che andiamo perdendo, dimenticando e forse anche prendendo in odio. Nessuno, scrive Soave, ha tempo o energie di fare anche il sindacato; “ma gli straordinari, neanche sempre pagati, misteriosamente sì”.
E quindi vanno ripensati i greedy jobs, i lavori ingordi, al centro anche dei due importanti saggi di Jaffe, Il lavoro non ti ama (Minimum Fax 2022) e Criado Perez, Invisibili (Einaudi 2020). Fino a che lasceremo campeggiare il mito per il quale lavorare in misura mostruosa sia fenomeno ingovernabile e inevitabile saremo inerti davanti agli avamposti del wishful thinking contemporaneo sul lavoro che fa male – lo stigma dei Neet, le liriche del southworking, le life coach e i manuali di self help, il grande mito della creator economy. Ripensare il lavoro è riscriverlo gettando luce sugli interessi aziendali, di chi i lavori li somministra e li organizza. Gli interessi, appunto, “dei padroni”.
D’altra parte, anche agli uomini, ricorda Soave, con Goldin e Criado Perez, i lavori ingordi “stanno sempre più stretti. Sono anche loro, in questo senso, delle lavoratrici”. La situazione delle norme nazionali sul congedo di paternità – che in Europa scava un solco ancora malvagio tra il Mediterraneo e la socialdemocrazia scandinava e l’Islanda – è in pieno sviluppo, anche perché l’ingordigia del lavoro di genitore trascina verso una sensibilità diffusa contro i sacrifici dei lavori redditizi anche i dipendenti maschi.
Corollario di questo paesaggio futuribile – secondo l’Accademia di Svezia, intanto, che ha assegnato il Nobel a Goldin – è a tutti gli effetti il concetto di cura. Il saggio indulge sulle condizioni di lavoro di baby sitter, colf e badanti: cioè sul rimosso nel rimosso delle disparità del lavoro femminile. Le lavoratrici del lavoro domestico appaiono il rovescio della cura collettiva, sindacale, e politica che Soave invoca e rivendica. “È incredibile come alle femministe degli anni Settanta, che dell’emancipazione delle donne dal lavoro domestico hanno fatto una delle loro più accanite battaglie, sia sfuggito questo aspetto: che i piatti che non hanno più lavato loro, emancipandosi, difficilmente li hanno poi lavati i mariti (…) che rifiutare il lavoro domestico ha significato mollarlo sulle spalle di altre donne, quasi sempre più povere, a condizioni ancor più opprimenti. Ma soprattutto ha significato rendere il lavoro di cura meno dignitoso, più mortificante, meno importante: in una parola rimuoverlo”.
Per Sarah Jaffe, nel volume citato sopra, il lavoro domestico è una “palude preindustriale” su cui si è innestata “nel bene e nel male, la razionalità capitalista” (insieme alla globalizzazione). Per questo occorrerebbero sindacati tagliati su misura per i “lavoratori intimi”: sempre più numerosi nei Paesi postindustriali e già l’equivalente contemporaneo della working class da lavoro in fabbrica.
Davanti a un passaggio storico-politico che dal Sud del mondo e dal passato coloniale traduce schiave in serve e in colf – in lavoratrici salariate – Soave torce tutto il problema verso un aspetto forse ancora più vasto, sulla scia del pensiero dei femminismi intersezionali. Cioè verso il concetto di potenziale di cura. Si può ed è desiderabile delegare del tutto la cura di sé e degli altri? Quanto ha senso amare il proprio lavoro? Quanto dicono i “lavori intimi” della familiarità instaurata con il proprio mestiere da parte di chi appalta ad altri la cura di sé, dei propri cari, della casa?
Lavorare senza amore è sempre e solo un bene? Chi ci ha insegnato a lavorare?
Il saggio si conclude dispiegando una risposta duplice, che pare quantomai lucida.
A livello individuale ogni forma di sé, di quel sé da curare, che cura e ama, sul quale abbiamo aspettative e che conduciamo attraverso prassi e progetti, è un lavoro, una materia che si modella in noi stessi senza sosta.
Tuttavia l’umano, che non è individuale, è un’altra cosa. L’umano partecipa di sentimenti – collera, frustrazione, vulnerabilità – che appartengono “alle epoche” e che generano scioperi, proteste, e poi contrattazioni collettive, leggi. “La manutenzione dell’habitat del lavoro, la cura a che non sia respingente, il conflitto necessario per difenderlo dall’ingordigia e dalla prepotenza di chi lo comanda, e ritiene di possederlo, sono mansioni collettive”. In definitiva, “collettivamente disponiamo di modi leciti – e di qualcuno più ruvido – per esercitarle”.