Fuori i nomi!
I nomi sono una faccenda complessa. Non ne è affatto all’oscuro Fare nomi (Nunzio La Fauci, Bompiani, 2023, 328 pp). I nomi sono una questione politica e una questione estetica. Per il primo aspetto, l’autore ricorda la sventura degli amanti shakespeariani divisi da un cognome, Capulet, Montague. Per il secondo, vale il fatto che spesso i nomi sono un tema molto divertente. È il caso dei nomignoli italiani. Se fino alla prima metà del Novecento Antonia e Antonio diventavano Tonia e Tonio, Giovanni e Giovanna Vanni e Vanna, Beniamina e Beniamino davano Mina e Mino, e così via, questo schema di lungo corso si è evoluto in un altro. Oggi i nomignoli – ipocoristici, in senso tecnico – si formano conservando solo le sillabe iniziali. Antonia e Antonio diventano Anto, Giovanni e Giovanna Giova. Beniamina e Beniamino daranno Benia o Benny, anche per un’influenza dell’inglese che ricorre in varie epoche ‘anagrafiche’ recenti. (Sul «furore per il nome esotico», d’altra parte, Bartezzaghi aveva scritto qualche tempo fa del «brivido del passaggio da Cristiano a Christian»).
I nomi sono soprattutto una questione sintattica e semantica, e nella prospettiva di La Fauci, linguista, scrivere di nomi significa far bordeggiare chi legge verso il sistema e i processi della lingua. Il titolo del libro ne è un piccolo compendio: fare nomi può infatti essere inteso secondo almeno tre diverse sfumature.
I nomi si costruiscono, si fanno e si disfano attraverso le strutture della lingua. Le vicissitudini giudiziarie del Cavaliere non ammettono fraintendimenti con le gesta di Orlando nella Chanson de Roland, ma è anche vero che un politico può berlusconeggiare, come può renzeggiare, e ancora oltre maramaldeggiare, e non meno narciseggiare. I nomi comuni possono cioè funzionare come nome propri, e viceversa, quelli propri possono diventare nomi comuni.
I nomi si fanno quando si menzionano, si evocano come puntatori di riferimenti: nella telecronaca di una partita di calcio sono come la trama tessuta con l’ordito delle azioni che stiamo vedendo in campo. Insieme ai cognomi, i nomi si celebrano in un cimitero di guerra e in opere di memorialistica. Tra le più curiose abitudini occidentali rispetto all’elencare nomi si potrebbe forse annoverare quella di produrre alberi genealogici, in cui risulta chiaro, in ogni caso, che la parte verbale dell’identità degli avi conta molto più dei loro ritratti.
Inoltre, e infine, i nomi si fanno nel senso che si svelano e si confessano in circostanze discorsive che hanno a che fare con il segreto, e perciò con il potere. Da una parte infatti in senso filosofico, fenomenologico, mistico, il nome «cela e rivela la natura di chi lo porta o ne prefigura il destino o ne determina l’indole», tanto che «conoscere il nome di qualcuno è già averlo in potere». Dall’altra, un nome funziona da figura sullo sfondo del teatro semiotico del senso comune, collettivo. Un teatro in cui nomi e pronomi sono strettamente legati, un teatro di «fantasmi».
Lo mostra l’analisi del «fare e del pensare mafioso», di cui è emblema il nome Cosa nostra. Brand di notabile efficacia, Cosa nostra deve la sua consistenza semantica a un noi, proiettato dall’aggettivo «nostra», e allo statuto di indeterminatezza del termine «Cosa». In generale, ricorda l’autore, la lingua fa della cosca un gruppo tra gruppi. Infatti il pronome noi fonda e fornisce coesione a comunità di tutti i tipi: partiti politici, famiglie, chiese, nazioni, «logge, branchi, scuole accademiche, tifoserie»; l’associarsi umano passa dalla possibilità di proferire un noi. Ma se immaginassimo una cosa sua, o una cosa loro, o una cosa vostra, ci renderemmo conto che noi comporta dei valori peculiari. Cioè la facoltà di accogliere – un noi inclusivo quale quello della (opinabile) campagna elettorale di Sarkozy del 2007, Ensemble tout devient possible –, e la facoltà di escludere – quel noi, per esempio, con cui la Lega Nord si contrapponeva agli avversari e a più vaghi nemici (voi, loro). È per questa ragione, nota acutamente La Fauci, che solo noi è capace «sia di proteggere sia di nuocere». L’espressione cosa, per parte sua, funziona perché «è nulla». Perfettamente adeguata al suo soggetto fantasma, cosa è pura forma, e quindi eccellente nome proprio. Cosa non è terra, non è lingua, non è mano, non è patria, non è denaro: è ognuna di queste, e anche altro. Nome proprio fatto con ‘materiale’ semantico semplice e corrente, una parola vuota e un deittico, in senso benvenistiano, Cosa nostra ha un potere «onnivoro», arma un noi capace di impossessarsi e di divorare qualsiasi riferimento semantico.
Oltre a questo esempio, Fare nomi è nel suo complesso un lavoro di linguistica amorevole, per così dire, che fa vagare chi legge tra nozioni teoriche e densi appunti di analisi di lingua letteraria e lingua quotidiana, provvedendo scoperte, meditazioni e svariate preziosità. Dai cognomi come «fossili» di nomignoli, all’origine del verbo coventrizzare, ai nomi segreti dei gatti di Thomas S. Eliot.
Ma da un punto di vista scientifico è forse un saggio di ancora più rimarchevole coraggio. Osservante dell’eredità saussuriana, La Fauci si accosta a uno dei punti forse più delicati di una teoria della lingua, cioè i nomi propri. Con una frase celebre, Saussure aveva scritto che «la lingua è un vestito coperto di toppe fatte della sua stessa stoffa». Intendeva dire, probabilmente, che quello che vige e vive nell’uso di una lingua, i ‘vestiti’ che usiamo nei processi linguistici di tutti i giorni, dipende sempre dalla stoffa del sistema, cioè dalle strutture soggiacenti (astratte), che costituiscono gli strati della sintassi. Ma l’aspetto che fa funzionare una lingua è proprio la comunicazione incessante tra i due piani, il fatto che qualcosa che funziona al livello delle regole può sempre discendere al livello dell’uso – anzi non può che farlo – e poi da questo livello non fa altro che fornire materiale che può risalire. È per questo che La Fauci parla dei nomi come «montacarichi», come ‘attrezzo’ che serve alla lingua per far transitare senso dal particolare al generale, o viceversa, e da capo.
Si può provare a dirlo meglio, con le parole dello stesso autore, in punti. Chi studia linguistica deve abbandonare qualsiasi platonismo, e più in generale qualsiasi ontologia. I nomi, puri effetti di relazioni, come tutte le parole, non saranno mai sacri – nella lingua Dio vale infatti come nome comune, ricorda l’autore, tanto quanto può essere usato come nome proprio; i nomi non saranno mai di qualche natura più specifica dalle parole comuni. Anzi Roman Jakobson ne aveva colto l’aspetto metalinguistico. Se una persona si chiama Felice o un cane Fido, non è possibile descrivere la Felicità o la Fidità, diversamente da quello che si può dire di bastardino o di una persona ci cui predichiamo che è felice. I Felice e i Fido designano chi porta quel nome. I nomi sarebbero quindi un modo con cui la lingua parla di sé stessa, cioè delle funzioni che assegna, tanto che un Felice, o un Fido, valgono come nomi propri e insindacabili per i parlanti di qualsiasi lingua. I nomi propri si possono tradurre, certo – ma non si può protestare che un nome inglese come Hunter o come Providence non ‘si capisca’ in italiano. Compito del linguista, allora, è proprio studiare come si passa (e si ripassa, ‘su e giù’), da Narciso a narciso, da Petrarca a petrarcheggiare, nonché da felice a Felice, da lupa a La lupa (antonomasia nel senso più tipico), e poi da abate, a L’Abate, al cognome Labbate, che «pietrifica l’antonomasia».
Tutto ciò contravviene a molto di una linguistica folk di cui siamo spesso stati edotti a scuola, e il saggio di La Fauci non è per principianti. Chi legge viaggerà in territori di estremo esotismo rispetto all’idea che le parole siano etichette poste sopra le cose, e anche rispetto a quella che i nomi propri costruiscano specifici rapporti con i loro referenti (su cui si possono compiere esplorazioni, in ambito di filosofia del linguaggio, per esempio, a partire dai saggi di Kripke). Ma per chi ama, studia, insegna la lingua e le conseguenze filosofiche del saussurismo, vale un monito preciso. Oltre all’idea che il lessico sia, con una formula cara a chi scrive, «come ghiaia nei fiumi delle lingue», cioè quanto di meno scientificamente utile a capire come le correnti attraversino quei fiumi e in base a quali regole, Fare nomi insegna che si possono studiare linguisticamente e semioticamente anche i nomi propri, i quali non sono né meno, né più, che vestiti dei fantasmi della sintassi.
Riferimenti
- Bartezzaghi, S., Come dire. Galateo della comunicazione, Mondadori, 2011, p. 32.
- Per i riferimenti alla prospettiva linguistica in rapporto a «fantasmi» e «ontologia» cfr. Apollonio Discolo, La musa di Saussure, ETS, 2013, p. 20.
- Lavori dell’autore su nomi propri e telecronaca sportiva hanno coinvolto anche Heike Necker, Sophia Simon e Liana Tronci. Cfr. La Fauci, Necker, «Nomi propri (e fatti correlati) in una telecronaca sportiva», 2010; La Fauci, Necker, Simon, Tronci, «Costrutti con c’è e nome proprio in una telecronaca sportiva: configurazioni funzionali e valori testuali», 2010.
- Saussure, F. de, Cours de linguistique générale (CGL), Bally, C., Sechehaye, A, éds., Payot, 1916; trad. it. Corso di linguistica generale, Laterza, 1967, p. 206.
- Kripke, S., Naming and Necessity, 1972; trad. it. Nome e necessità, trad. it. di M. Santambrogio, Bollati Boringhieri, 1982.
- Kripke, S., Reference and Existence, 1973; trad. it. Riferimento ed esistenza, trad. it. di A. Raimondi, Bollati Boringhieri, 2021.
- Per il riferimento al lessico come «ghiaia nei fiumi delle lingue» cfr. Prampolini, M., Ferdinand de Saussure, Carocci, 2017, p. 14.