Cagliostro medianico e mediatico
Il conte di Cagliostro, mago massone, avventuriero, taumaturgo, muore in carcere nel 1795. È stato arrestato quasi sei anni prima, nel 1789, insieme a circa sessanta sospettati, che la Chiesa di Roma identifica come possibili agitatori di un movimento eversivo comprendente forse qualche milione di adepti. Il processo inquisitoriale a Cagliostro è quello che oggi si potrebbe definire un processo mediatico. Meglio, con una sintesi che chiarisce alcuni temi al centro del suo studio, Pasquale Palmieri parla del processo a Cagliostro celebrato dal Sant’Uffizio come di «un processo alla Rivoluzione» (francese).
Prima di addentarci nel saggio, Le cento vite di Cagliostro, Il Mulino, 2023, 247 pp., vale la pena ricordare che Cagliostro ha goduto di un vantaggio abbastanza sui generis, ovvero quello di essere un «divo» nell’epoca in cui è vissuto, la seconda metà del Settecento, quanto nei secoli seguenti. Solo per fare qualche esempio, Cagliostro è menzionato da Goethe e Casanova, poi cinquant’anni dopo è ispiratore di Alexandre Dumas padre e ancora di Johann Strauss; ritorna nel Nocevento in un racconto di Tolstoj, compare nelle avventure di Lupin firmate da Maurice Leblanc, interessa moltissimo Umberto Eco, popola i manga di Monkey Punch, i fumetti di Jean Luc Istin e i cartoon di Miyazaki. Ispira un film con Orson Welles nel 1948 e uno di Ciprì e Maresco nel 2003, per poi disperdersi nei mille rivoli della testualità del Duemila come cameo massmediatico dell’occultismo o della spregiudicatezza ciarlatana.
La menzione di una scia di Cagliostro così persistente e ancora viva nella cultura contemporanea può servire a comprendere il taglio assai originale che Palmieri sceglie per il suo lavoro, che è, d’altronde, un’indagine instancabile nella mole dei documenti di prima mano sulla vita e i trascorsi giudiziari del mago massone. Se ‘l’analisi della scia’ di Cagliostro, oggi, comporterebbe identificare dei temi e seguire i tracciati lungo i quali il conte può essere declinato nelle vesti dell’eroe, dell’alchimista, del ladro, del bugiardo, del santone, del martire – cioè sempre, e solo, come specchio di mille forme della cultura di massa – in modo analogo procede Palmieri. Della psicologia del conte l’autore si interessa molto poco, e non avvalla mai, nel suo studio, l’ipotesi per cui Cagliostro sarebbe stato un alias di Giuseppe Balsamo, truffatore palermitano nato l’8 giugno del 1743. Il mago massone interessa Palmieri come prisma, come traduttore, potremmo dire, dei discorsi e delle pratiche di credenza dell’Europa in cui a un certo punto deflagra la Rivoluzione francese. Rompendo con il ritratto pittoresco, lo storico usa il conte di Cagliostro per restituire un grande quadro socio-politico.
In primo luogo, Palmieri gioca Cagliostro sulla scena del secolo dei Lumi. Gli scritti denigratori e le notizie sul conte riportavano come si vantasse di essere nato trecento anni prima, di saper guarire i malati, di indovinare i numeri del lotto, di «discendere dalle nuvole» o «uscire dall’abisso». Ancora, di aver appreso «la scienza delle Piramidi» e «oscure nozioni» in terre remote, in grado di renderlo profeta e spiritista, e di aver ricevuto dal conte di Saint Germain (altra leggendaria figura d’illusionista dell’epoca) il dono di svelare gli arcani della natura. Palmieri ricorda che tutte queste imprese e capacità non potevano sembrare, nei due decenni Settanta e Ottanta del XVIII secolo, ‘del tutto inverosimili’. Gli alchimisti, gli stregoni e gli indovini imperversavano proprio anche in ragione delle radicali evoluzioni scientifiche dell’epoca. Scienza e pseudo-scienza erano specchiate dall’immaginario letterario e rifluivano nel giornalismo, in modo tale che le storie degli inventori riconosciuti dalle istituzioni accademiche si affiancavano alle imprese dei ciarlatani.
Inoltre, Cagliostro aveva operato nel fiorire (e nel derivare) delle logge massoniche. Gli adepti della «libera muratoria» – free mansory –, ispirata alle corporazioni medievali dei muratori, si riunivano sia secondo un codice di segretezza e di rispetto delle gerarchie, sia nell’alveo di una riforma del pensiero scientifico che si rifaceva al meccanicismo di Newton. Una nuova separazione tra universo spirituale e materiale fondò la diffusione di una rete via via più capillare di sette europee tra il 1720 e il 1760. Non è mancato chi, come Umberto Eco, ha letto la storia del XVIII secolo secondo la profonda ambiguità (e le collaborazioni biografiche) tra gli «illuminati», e gli Illuministi – Voltaire è un esempio illustre di questa doppia appartenenza.
Palmieri colloca il mago massone in una linea di discendenza specifica, in un proliferare più tardo delle conventicole, a partire dagli anni Settanta. Si tratta di nuove logge che promuovono pratiche mistiche e divinatorie, spesso «accompagnate da insofferenze verso l’organizzazione istituzionale del sapere e da istanze di rigenerazione sociale».
Sembra emblematico in questo senso il racconto di una cena «dei morti resuscitati». Cagliostro la organizza a Parigi nel 1785, in una strategia generale del conte di autoelezione a fondatore di una nuova setta massonica «di rito egiziano». È allestito un convivio con dodici posti ma sei soli invitati: i posti vuoti ospiteranno i defunti che ogni commensale desidera conoscere o rivedere. Tra i prescelti ci sono nientemeno che D’Alambert, Diderot, Montesquieu e Voltaire. A colloquio con Cagliostro e i suoi adepti, questi grandi pensatori esprimono opinioni e reprimende sui contemporanei e sulle vicissitudini della ricerca filosofica.
Al di là della curiosità aneddotica, questa vicenda va connessa anche con la spaccatura profonda che Palmieri individua nel mondo protestante e in quello cattolico del XVIII secolo rispetto ai confini della vita e della morte. Se la fede luterana, ricorda lo storico, vedeva nel defunto «un soggetto incapace di passare completamente in un’altra dimensione», e dunque atto a «liberare forze residue imprigionate nel cadavere», la Chiesa di Roma aveva regolamentato il ritorno dei morti con la teoria dei castighi purgatoriali. Nel cattolicesimo un esplicito decreto divino poteva far sì che i trapassati apparissero ai vivi «chiedendo suffragi o inducendoli al pentimento». I riti egizi della loggia di Cagliostro, basati su forze oscure e ambigue, non potevano non ascriverlo a pieno titolo, agli occhi del Sant’Uffizio, al ruolo di eretico. Fatto da cui derivarono per il conte conseguenze drastiche.
Un secondo modo in cui Palmieri mette a frutto il personaggio del mago è all’interno di una solida teoria dell’opinione pubblica settecentesca. Molte pagine del saggio sono dedicate all’intrico vertiginoso tra fogli, gazzette, avvisi, diari, bollettini e memorie che costituivano il «mercato delle notizie dell’epoca». Per Palmieri, Cagliostro raggiunse una fama straordinaria soprattutto in quanto oggetto di «un racconto collettivo», in un momento cruciale di proliferazione informativa e di ‘ammodernamento’ del senso comune. La fama di Cagliostro si diffonde in un panorama editoriale cangiante, in cui il racconto ‘democratico’ delle peripezie di truffatori virtuosi – una vera e propria «banditti mania» – conviveva con la «persistente fortuna» delle vite dei santi, dei racconti di viaggio, dei «resoconti di scandali politici, fatti macabri, spaventosi o più generalmente sensazionali». Uno scenario di vivida attualità, che si può misurare per esempio rispetto allo scandalo della collana; l’episodio forse più noto della biografia di Cagliostro. Nel 1785 il conte fu accusato (e poi assolto) per una truffa clamorosa ai danni della corona di Francia, in un paese attraversato da una profonda crisi. Una nobildonna vicina a corte, madame de La Motte, fu accusata, insieme a un alto prelato, presunto suo complice, dell’acquisto segreto di una collana di diamanti di enorme valore. Il prelato, il cardinal de Rohan, disse di essere stato convinto da La Motte che la transizione era stata ordinata dalla regina Maria Antonietta in persona, desiderosa di divenire proprietaria della collana (mentre lo scopo, più prosaico, era commercializzare il gioiello sul mercato nero). Gli ultimi due personaggi coinvolti furono la ventidueenne Nicole Le Guay, che madame de La Motte avrebbe fatta passare per la regina, in modo da convincere Rohan a procedere con l’acquisto, e il conte di Cagliostro, supposto architetto dell’intero affare. Il saggio di Palmieri ripercorre con dovizia di dettagli la storia del giudizio e delle strategie difensive degli imputati. Gli aspetti di grande interesse sono però soprattutto relativi alla mediatizzazione del processo. Da una parte, infatti, Cagliostro si difese con una strategia rivolta sia alla corte che all’opinione popolare. Il conte fece diffondere l’atto scritto di una propria memoria difensiva: qui si rivolgeva provocatoriamente «ai Francesi», per denunciare una giustizia iniqua e le calunnie diffuse sul suo conto. Subito dopo l’assoluzione, rincarò la dose con una celeberrima Lettera al popolo francese, veemente attacco alla monarchia borbonica, poi trasformato a torto, dal Sant’Uffizio e da diversi biografi, in una chiara ‘profezia’ della Rivoluzione a venire. Dall’altra parte, tutti gli imputati – La Motte, Rohan, Le Guay – si trasformarono in miti popolari. Il cardinale, incarcerato alla Bastiglia, non poteva passeggiare sulle mura per la folla di curiosi che provava a parlargli. Le Guay divenne un’icona per la sua presunta somiglianza alla regina Maria Antonietta, che in tante cercarono di imitare. Gli effetti personali di Madame de la Motte, non diversamente da come accade oggi a persone comuni coinvolte in un processo penale in qualità di vittime o di accusati (o ai luoghi teatro dei delitti), furono oggetto di una sinistra feticizzazione. Infine, le abitazioni degli avvocati erano assediate da torme di cittadini a caccia di anteprime o pettegolezzi. Pasquale Palmieri coglie molto bene il flusso discorsivo continuo di un «ecosistema mediatico», un flusso in cui si richiamano e si riscrivono reciprocamente documenti scritti e dicerie, ritratti e caricature, notizie e aneddoti. Un flusso in cui peraltro, come sottolinea lo storico, le passioni collettive legate allo scandalo non ‘indeboliscono’ affatto, ma anzi rinforzano, declinandola in nuove forme, l’indignazione politica e una nuova percezione dell’istituto monarchico.
La terza e ultima partita del saggio riguarda il processo inquisitoriale alla luce della Rivoluzione francese. Qui l’autore segue le tristi sorti di Cagliostro, arrestato dall’Inquisizione nel 1789 e poi detenuto nella fortezza di Castel S. Leo. Eppure, nonostante le privazioni e la violenza a cui il Sant’Uffizio lo sottopose, secondo Palmieri il conte uscì vincitore da una battaglia comunicativa che era anche il terreno di gioco della fine dell’antico regime.
La tesi forte dello storico è che il potere ecclesiastico che processa Cagliostro pochi mesi dopo l’emanazione della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, sia costretto a un’innovazione strategica abbastanza radicale, proprio davanti alle trasformazioni in corso del panorama ‘mediatico’ e del comune sentire. Ora, l’inquisizione degli anni Ottanta del XVIII secolo non era nuova a certe difficoltà. Erano passati appena trent’anni dalla denuncia di Cesare Beccaria in Dei delitti e delle pene. Inoltre l’uso dei tribunali di pubblicare solo le sentenze, con uno scopo «teatrale» – quello di celebrare «l’efficienza dei sistemi repressivi» – era in via di revisione. Si cominciava a predisporre la pubblicità dell’iter processuale e delle tesi difensive. E va aggiunto anche che l’inquisizione era stata abolita nelle monarchie cattoliche ed aveva come territorio di esercizio il solo Stato Pontificio – mentre, nella vicina Francia, nel 1790, l’Assemblea costituente trasformava i parroci in funzionari dello Stato. Tuttavia, la fama di Cagliostro e il dibattito incandescente intorno alla sua carcerazione e alla sua condanna, avvenuta nel 1791, spinsero l’Inquisizione a due mosse ancora più estreme. La prima fu quella di pubblicare un Compendio della Vita e delle gesta di Giuseppe Balsamo che rendeva conto della pena comminatagli come fondatore di una setta massonica, miscredente, truffatore e ladro. L’intento era ‘ingenuamente didascalico’: la cittadinanza doveva ricevere di buon grado la testimonianza della Santa Sede su che tipo di pericoloso e «malvagio impostore» fosse l’imputato. Tuttavia non fu questo l’effetto ottenuto: da quando Cagliostro, esausto, per salvarsi aveva abiurato e giurato fedeltà alla Chiesa, la stampa di tutta l’Europa e un gran numero di scritti anonimi dubitavano delle prove contro di lui; la sua fama non diminuiva. Il che portò l’Inquisizione alla seconda, e più assurda manovra. Sospettando un’improbabile evasione organizzata dai suoi seguaci, le autorità romane trasferirono Cagliostro in una cella di massima sicurezza, il «Pozzetto», dove era stato immobilizzato con «ceppi ai piedi» che lo legavano al muro attraverso una catena. Ma anche questo non sortì gli effetti sperati: il prigioniero si lamentava e urlava della sua tortura con tanta tenacia che si udiva anche dal centro abitato più vicino. Il che portò le autorità papaline a servirsi dei propri organi di stampa per tentare una controlettura: Cagliostro dissimulava, non veniva torturato, anzi aggrediva i suoi carcerieri con qualsiasi pretesto. Al di là della morte del conte, sopravvenuta in quella cella tre anni dopo, Palmieri legge la vicenda come un fallimento dell’antico regime. La fama, l’influenza e il carico simbolico di Cagliostro come ‘traduttore’ delle istanze del suo tempo non furono messe a tacere dalle mura di Castel S. Leo. Sopravvissero a discapito di qualsiasi tentativo di repressione tradizionale, non solo con la leggenda secondo cui il conte a un certo punto si sarebbe liberato, ma con la celebrità postuma di cui si è detto sopra.
Il saggio di Palmieri, oltremodo denso, è un percorso affascinante con un metodo e una tesi inconsuete e rigorosamente condotte. Ovvero quello di un cortocircuito tra l’orizzontalità della diffusione mediale dell’informazione settecentesca e la verticalità del potere ecclesiastico e dell’antico regime.
Se il Cagliostro medianico, quello mistico, certo, ma anche riformatore e occasionalmente antiborbonico, è un simbolo che si indebolisce e cede di fronte alla repressione del processo inquisitoriale, è il Cagliostro mediatico che, più o meno consapevole della sua consonanza con le istanze rivoluzionarie, non è messo a tacere.
L’autore non tenta alcun tipo di collegamento storico, ma è vero che a volte, davanti agli ecosistemi mediatici che tra Novecento e Duemila costruiscono l’emblema della ciarlataneria di Wanna Marchi, danno notizia delle imprese di Wikileaks o tematizzano il dramma infinito della repressione penale degli imputati di un processo ‘politico’, bisognerebbe ricordarsi di Cagliostro.