Speciale
Arte africana contemporanea / Esploratori fuori tempo massimo
Negli ultimi tempi, la vecchia Europa sembra essere affetta da una strana febbre: l’arte africana contemporanea! Dalle fiere alle rassegne, fino ai numerosi simposi, improvvisamente ci si accorge dell’esistenza di questo continente che, per la maggior parte è – utilizzando un’espressione presa in prestito da Joseph Conrad, il cuore di tenebra. E la cosa più divertente, rispetto a questa infatuazione folgorante, è che ci si chiede per quanto tempo durerà. Si ha l’impressione di assistere a una serie di precipitazioni da un’altra dimensione temporale.
Dappertutto, risuona la parola scoperta, come se i nuovi Cristoforo Colombo, Magellano, Vasco da Gamma e Marco Polo si fossero trasformati in collezionisti, galleristi, direttori di musei, capaci – secondo le parole di Sartre – di estrarre ogni cosa dal buio primario:
«Perché il bianco ha goduto per tremila anni del privilegio di vedere senza che lo vedessero. Era puro sguardo, la luce dei suoi occhi traeva ogni cosa dall’ombra nativa, la bianchezza della sua pelle era un altro sguardo ancora, una luce condensata. L’uomo bianco, bianco perché era uomo, bianco come il giorno, bianco come la verità, bianco come la virtù, illuminava la creazione come una torcia e rivelava l’essenza segreta e bianca degli esseri»
(Orphée Noir, in «Anthologie de la Nouvelle poésie nègre et malgache», Paris, Puf, 1948).
L’uomo bianco, come l’uomo nero, tuttavia, sono qui solo metafore che mettono in scena dominanti e dominati.
Sartre ha già detto tutto. Il mondo oggi si comporta come se William Kentridge, El Anatsui, Julie Merethu, Pascale Marthine Tayou (solo per citarne alcuni) avessero aspettato la luce verde occidentale per cominciare a creare. La verità è che da più di trent’anni, con una crescita esponenziale, l’Africa si è messa al lavoro. Biennali, festival, centri d’arte emergono ogni anno.
Giovani curatori (Elvira Dyangani Ose, Koyo Kouoh, Elise Atangana, Bonaventure Soh Bejeng Ndikung) contribuiscono numerosi a rivelare – a un mondo impigliato nelle sue definizioni etnocentriche – il linguaggio contemporaneo degli africani. Poi, arriva il mercato e non può che essere successivo.
Sarebbe sbagliato pensare che la proliferazione di aste dedicate all’Africa sia dovuta a una casualità. Anzi! Una nuova generazione di uomini e donne d’affari africane riconoscono l’importanza della creazione artistica per la definizione di un’identità e per il posizionamento estetico e filosofico (naturalmente, iniziative come la Revue Noire hanno contribuito in larga parte) di un pensiero africano autonomo e originale. Potrei anche citare un progetto in cui sono coinvolto con la Fondazione lettera27 di Milano, AtWork, che mira a dare ai giovani artisti del continente gli strumenti intellettuali per proiettarsi in un mondo complesso.
Il fenomeno a cui stiamo assistendo in Occidente potrebbe rivelarsi solo una illusione. Un metodo spazzato via da un altro. Ma se ci si prende la briga di pensare al di fuori dei parametri dell’«antico Centro», è evidente che è grazie al loro lavoro che gli africani si affermano come presenza internazionale. Continueranno a lavorare, quali che siano i capricci di un mercato «globale», principalmente attorcigliato su se stesso. E se è accaduto un evento importante nel nuovo millennio, è proprio questo: l’Africa e gli africani non aspettano più di essere consacrati da una determinata istituzione. Hanno dovuto partire da zero. E i frutti che, lentamente, cominciano a germogliare, sono solo un passo necessario verso l’inevitabile maturità. A rischio di sconvolgere tutte quelle buone intenzioni che cercano di comprendere come gli africani abbiano deciso di prendere il destino nelle loro mani, mi viene voglia di urlare le parole di Sartre: «Che cosa speravate dopo aver tolto il bavaglio che chiudeva queste bocche nere? Forse che intonassero le vostre lodi? Queste teste, che i nostri padri avevano piegato sino a terra con la forza, pensavate forse che, quando si fossero risollevate, vi avrebbero guardato con occhi adoranti? Qui ci sono uomini neri in piedi che ci guardano e vorrei che voi provaste, come me, lo sbigottimento nell’essere osservati».
È questo brivido, questo shock d’essere visti che noi – io e Fernando Alvim (che dirige la fondazione Sindika Dokolo a Luanda, ndr) – abbiamo messo in scena, ormai dieci anni fa, alla Biennale di Venezia. La fioritura di nuovi padiglioni, a volte progettati e realizzati nonostante la resistenza dello stesso paese che rappresentano, ben testimonia questo movimento e la volontà di esprimersi con le proprie parole. Sarei davvero felice se la vecchia Europa capisse finalmente che non può decidere tutto e che non ha più il controllo del potere né delle norme universali. I prossimi anni saranno ricchi di insegnamenti.
Questo articolo è ripubblicato con il permesso di Il Manifesto. Potete vedere l’articolo originale qui.