Speciale
AtWork: una nuova generazione dei pensatori / Pensare da sé e dentro di sé
Il 27 aprile, su invito di Art Basel for Non-Profit Visual Arts Organizations, abbiamo dato il via alla nostra prima campagna di crowdfunding su Kickstarter per realizzare il sesto capitolo del nostro format educativo itinerante AtWork.
Con questa campagna vogliamo finanziare AtWork Addis Abeba che consisterà in un workshop di 5 giorni per i giovani talenti creativi e studenti d’arte etiopi, condotto dal curatore internazionale Simon Njami, e in una mostra dei taccuini che ne risulteranno, in occasione di Addis Foto Fest a dicembre 2016.
Pensiamo che la capacità di coltivare e utilizzare un pensiero critico sia la forma di libertà più grande a cui possiamo umanamente ambire. Pensiamo anche che le persone che si confrontano con l’arte dovrebbero essere ancora più libere di pensare autonomamente: solo chi è davvero libero è nelle condizioni di poter trasformare la propria società. Il nostro impegno è quello di diffondere l’esperienza di AtWork per raggiungere ancora più studenti e giovani talenti creativi, ancora più organizzazioni culturali, artisti e istituzioni educative per creare un network panafricano di influencer culturali e di giovani. Questa comunità di pensatori creativi, così peculiare, può avere un impatto che va oltre l’esperienza del singolo workshop, e può aiutare a riscrivere la complessa narrazione del continente africano.
Con il tuo sostegno possiamo continuare ad offrire gratuitamente l’esperienza di AtWork agli studenti.
Unisciti alla nostra campagna di crowdfunding su Art Basel Kickstarter e contribuisci a far crescere una nuova generazione di “creative thinkers” che possa costruire il futuro a cui tutti noi aspiriamo!
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Per l’occasione del lancio della campagna pubblichiamo il testo di Simon Njami che descrive in modo poetico la visione che sottende al nostro approccio educativo. Buona lettura e sostieni la nostra campagna qui!
Pensare da sé e dentro di sé
Ma noi, noi prendiamo le cose dall'inizio. Siamo poveri, non sappiamo più giocare. L'abbiamo dimenticato, la mano ha disimparato a costruire.
(Ernst Bloch, Lo spirito dell’utopia, trad. it., Rizzoli, 2009, p. 21)
Ciò che Ernst Bloch enuncia è la nostra incapacità d'invenzione, la nostra poltroneria e il nostro conformismo. E poi, “prendiamo le cose dall'inizio”, con l'arroganza d'essere contemporanei dell'era digital; come se niente, prima di noi, fosse mai esistito. Forse questo è dovuto alla nostra formazione. A questi insegnamenti che ci fanno credere, una volta diplomati, che non abbiamo più niente da imparare. Eppure, imparare è la storia di una vita. Non parliamo qui del sapere scolastico, dispensato nelle università e nelle altre scuole, ma di qualcosa di più organico che, come nell'antichità, si trasmetteva di bocca in bocca, nelle cerimonie durante le quali la cosmogonia del mondo ci era rivelata. Tanti segreti che un'università non riuscirebbe a condividere, come, per esempio, l'arte del bricolage. Negli Stati Uniti, nel 1891, nel momento in cui le università di questo paese si avviavano alla svolta che le avrebbe condotte a diventare quello che sono oggi, il filosofo Peirce ha definito l'università come “ un’associazione d'uomini […] dotata e privilegiata dallo Stato, per far sì che il popolo possa ricevere una formazione (guidance) intellettuale e che i problemi teorici che dovessero insorgere nel corso dello sviluppo della civilizzazione possano essere risolti”. Vediamo bene la vanità della filosofia di Peirce in ciò che afferma. Nell'osservare il nostro mondo, sembrerebbe che i suoi problemi teorici, piuttosto che essere risolti, siano oggi più complessi e più inestricabili. Come se invece di risolverli, non avessimo fatto che contribuire ad appesantirli.
Quello che AtWork propone non è d'insegnare delle teorie astratte di cui non sappiamo che fare, scegliendo un rapporto verticale da maestro ad allievo, ma di stabilire che la conoscenza è una cosa viva. Non è un elemento esterno che viene ad illuminarci. Essa è anche riconoscenza, ossia presa di coscienza di ciò che, senza saperlo o senza concettualizzarlo, abbiamo già, nascosto nei nostri spiriti, cioè tutto quello di cui abbiamo bisogno per pensare l'universo visibile e invisibile. Non abbiamo niente da insegnare a nessuno: “La luce che permette di incontrare l'altro da sé, me lo fa incontrare come se questo uscisse già da me stesso. La luce, la chiarezza, è l'intelligibilità stessa, fa venire tutto da me e riconduce ogni esperienza a un elemento di reminiscenza. La ragione è sola. E in questo senso, la conoscenza non incontra mai nel mondo qualcosa di veramente altro” (Emmanuel Levinas, Le temps et l’autre, PUF, Paris, 2009, nuova e terza edizione, p. 53). Questa luce che ognuno porta dentro di sé non chiede che di sgorgare e il nostro ruolo, supponendo di avere i mezzi intellettuali e umani necessari, è di aiutare la rivelazione e il fiorire di questa luce.
Perché ogni vero apprendimento, come ogni iniziazione vissuta, non potrebbe consistere nel comprendere attraverso la mente escludendo i sensi, piuttosto il contrario: comprendere con la mente attraverso i sensi. E ancora, il termine comprendere non è appropriato, l'idea è quella di rivelare una realtà; arricchire la percezione di una realtà; trasformare, arricchire un'esperienza del reale.
Gli elementi caratteristici di una cultura, di una geografia e di una data storia occupano, nell'insegnamento tradizionale, un posto preponderante che occulta a volte una visione più ampia del mondo. La realtà è che l'università non è più una associazione d'uomini (universitas hominorum) che noi vogliamo immaginare onesti. Essa è diventata una caserma nella quale si insegna agli studenti come vincere, come dominare. Uno strumento di cui si servono le nazioni per assicurare il loro potere o migliorare la loro competitività. In questo scenario, l'educazione non è più la volontà di dare agli uomini i mezzi per pensarsi. Non è più che un metodo di sopravvivenza e di selezione darwiniana. Esistono altri strumenti che noi vogliamo esplorare.
Quello che noi intendiamo per educazione, e che si riferisce direttamente all'etimologia di questa parola, è l'azione di condurre fuori... Di far uscire da sé, in qualche modo, ipotizzando un mondo più vasto di quello che ci è ordinariamente proposto. Si tratterà quindi, non di stabilire un sistema di apprendimento, che supporrebbe un unico emittente (il maestro o professore) e dei riceventi multipli (gli allievi o studenti), ma di immaginare un sistema nel quale il rapporto di potere sia abolito e dove conterebbe solo la sperimentazione e ciò che oggi si usa chiamare la condivisione delle conoscenze, secondo un rapporto orizzontale. Immagino quindi l'esperienza di AtWork come una grande università fuori dalle mura, in seno alla quale si assisterà al confronto di idee, di esperienze e di contesti. Il nostro progetto non è, lungi da noi, di arrivare ad una uniformazione delle teorie sull'arte e la creazione, ma piuttosto, ad una risonanza che permetta di rendere pertinenti alcuni strumenti, anche al di fuori di un contesto specifico. Dunque qui non parliamo di apprendimento, nel senso universitario e meccanico del termine, ma piuttosto di conoscenza, di scambi, di scoperte disposti tutti sul piano del sensibile e dell'umano, lontano da ogni pretesa obiettività: “L'obiettività del sapere razionale non toglie niente al carattere solitario della ragione. Il rovesciamento possibile dall'obiettività alla soggettività è il tema stesso dell'idealismo, che è una filosofia della ragione. L'oggettività della luce, è la soggettività stessa. Ogni oggetto può essere detto in termini di coscienza, ossia messo in luce” (Emmanuel Levinas, p.48).
AtWork intende dare spazio a questo idealismo che attiva il carattere solitario della ragione aiutando gli altri a pensare il mondo da sé e dentro di sé. Non c'è, l'abbiamo capito da molto tempo, l'obiettività. Non esistono che delle volontà di potenza più o meno ammesse. La fiamma della ragione vacilla. E spetta a noi rianimarla. È l'ambizione del nostro modesto contributo.
Traduzione a cura di Valentina Gonzo.
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