Est/Ovest: la guerra delle lingue
Voglio qui dimostrare la mia tesi: che sia in atto sul continente asiatico una battaglia strisciante, un braccio di ferro tra la lingua inglese e la lingua cinese (e di conserva le più deboli lingue locali come l’indonesiano, e le lingue indiane) che si svelerà presto. Ma devo prenderla alla larga.
Prima una citazione: Xiaolu Guo, Jhumpa Lahiri e Jonathan Franzen a colloquio al Jaipur Literature Festival. Denuncia Xiaolu Guo: la letteratura angloamericana è sopravvalutata. È solo un problema di capacità di diffusione grazie al medium linguistico che si è imposto come globale. Un bell’articolo sul Guardian riporta la ricchezza di quel dibattito.
Io credo che questa battaglia tra le lingue non sia che il riflesso di uno scontro (non ancora una guerra) a bassa intensità che si sta preparando nella contrapposizione tra il/i nuovo/i gigante/i asitico/i, Cina in testa a tutti ovviamente, e l’Occidente.
Per ora, si parla di softpower. Ne ho già scritto su questo blog: gli Istituti Confucio pompano prodotti culturali cinesi in linea con le direttive del Partito, siano essi cinema o narrativa. E il governo apre i cordoni della borsa con contributi agli editori e al cinema, perché siano in grado di viaggiare verso l’Occidente e il mondo intero. Qualcuno commenta: non hanno forza di penetrazione. Gli Stati Uniti hanno imposto la loro supremazia geopolitica anche grazie ai prodotti culturali del secondo novecento (di nuovo il cinema, ma anche la musica rock e pop in genere) che i cinesi non hanno. Io non sono d’accordo.
La Cina ha registi, sceneggiatori e direttori della fotografia di primo piano. E, soprattutto, sta costruendosi un pubblico capace di fare da supporto al budget di qualsiasi kolossal. Hollywood gode di un bacino di utenza di almeno 450 milioni di spettatori di madre lingua inglese, anche fuori dagli USA. Ma la Cina sta superando di volata quelle cifre: la sua classe media delle città, quella che vede il cinema alla televisione – e lo vede in lingua cinese! – ha superato il mezzo miliardo e cresce. Non c’è avventura cinematografica che sia preclusa alle società di produzione del Paese di Mezzo. Il pubblico in lingua cinese è presente anche fuori dai confini: l’ossatura delle classi medie del sud est asiatico si forma attorno alle Chinatown delle grandi città (la percentuale di popolazione di origine cinese – e lingua – è In Tailandia il 10%, in Cambogia poco meno, in Malesia oltre il 25%, a Singapore l’80%, ed è evidente che queste percentuali salgono nelle capitali e nei grandi centri.
La narrativa in lingua cinese vive lo stesso stato di grazia, in quanto a fortune imprenditoriali. Che invidia venire a sapere che un piccolo editore, qui, stampa un minimo di diecimila copie, anche di romanzi che da noi vengono definiti di nicchia. Un buon successo editoriale vende un milione in due mesi, i blockbuster fanno cinque milioni come ridere. La superiorità evidente (in cifre) della narrativa in lingua inglese su quella tedesca, italiana o francese non deriva anche dal bacino di pubblico immediatamente raggiungibile? E successivamente dalla facilità con cui il prodotto si può sottoporre all’editoria internazionale? Il termine economia di scala vale anche in campo culturale, chiedete agli editori. E la Cina ha numeri in crescita, cresce la quota di popolazione urbanizzata, cresce la classe media.
Non stanno inventando nessun blues / rock / pop, è vero. Non hanno gli afro americani come carburante ritmico, non hanno la varietà di culture (melting pot, si diceva) degli Stati Uniti, e questo è un primo limite. Hanno, soprattutto, un limite evidente nella censura: ho visto di recente un No Man’s Land, di Ning Hao: un perfetto Tarantino, godibile assai, capace di raccontarti la ferocia della Cina recente (nella morsa tra la giungla del mercato libero e la corruzione dello stato controllore) facendoti ridere e sorridere citando perfino Morricone, ma letteralmente evirato da un finale buonista: mi hanno detto che ci son voluti due anni perché passasse il vaglio della censura, e il finale da qui deriva, sicuramente. E la stessa cosa accade per la letteratura, dove gli autori di maggior talento si spengono, con la censura – e l’autocensura conseguente – vissuta come un maglio che si abbatte sulla propria creatività, sulla libertà necessaria a ogni narrazione.
Al di là dei limiti di cui ho detto, è un fatto che il confine tra le lingue si sta ricoprendo di filo spinato: una sorta di impermeabilità. La verità stupefacente, che i cinesi non stanno facendo niente per imparare a comunicare in inglese, non mi sembra una scelta casuale. È difesa a oltranza della propria identità culturale, magari inconsapevole (altro che chiamare ordinateur il computer). E, d’altra parte, la proliferazione di eventi culturali in lingua inglese sponsorizzata dai vari British Institute e Asia Society (americana), tutti rigorosamente in lingua inglese, e vera e propria passerella di voci in lingua inglese (magari passano gli indiani, ma in inglese), è il segno che la battaglia si è aperta. Succede lo stesso nel sudest: i vari festival letterari di Ubud (Indonesia), Bangkok (Tailandia), Penang (Malesia) e Singapore hanno come supporto università australiane e pezzi da novanta occidentali. Quindi, tutta lingua inglese. Nessun complotto finemente organizzato: ma tutto congiura in quel senso. Nel sudest è guerra aperta: al festival di Singapore il multiculturalismo porta a organizzare panels nelle diverse lingue, senza nessuna traduzione simultanea: si parla, appunto, della diffusione del cinese del sudest e si parla in cinese, a chi parla l’inglese la discussione è preclusa. C’è un muro, e dietro al muro la narrativa locale in lingua cinese vive uno stato di grazia: i giovani prendono le tv cinesi, se ne godono i serials, magari non in mandarino ma nei dialetti del sud, come il cantonese. E il rock: beh, è pop rock cinese, o coreano o di Taiwan.
In Cina due festival hanno portato scrittori davanti a un pubblico in carne e ossa. Quello di M, ristorante di Shanghai e Pechino, che da sempre predilige gli anglosassoni con una spruzzatina di cinesi, e quello del Bookworm, una minicatena di caffè librerie (in inglese) a Pechino, Chengdu, e periferia di Shanghai. Il Bookworm festival diveniva una palestra per autori cinesi vecchi e giovani, occasione di incontro tra lettori expat e locali. Da quest’anno niente più cinesi: perché gli sponsor anglosassoni o europei in generale ci sono, quelli cinesi (tutti di stampo governativo) hanno dato l’aut aut: o fate come diciamo noi, o soldi non ne mettiamo.
E anche in India, le cose si muovono in tal senso: al Festival di Jaipur si critica, da parte degli scrittori locali, la sovraesposizione di narrativa angloamericana…
Il muro si è alzato. Costruttori di pace saranno ora gli interpreti e i traduttori?
P.S.
Doveva essere la mia premessa, ma è finita in fondo: io son tra quelli convinti che il confronto a muso duro ci sarà, il grande showdown tra l’Occidente e la Cina. Ben oltre la schermaglia dei softpower. Troppo sta cambiando il mondo perché gli equilibri geopolitci non trovino un giorno il loro punto di svolta, la catarsi. Se davvero la Cina sarà il primo PIL mondiale nel giro di pochi anni, allora con un pezzo di quel PIL costruirà eserciti. La guerra fredda è finita perché il PIL dell’Urss non consentiva di stare al passo della corsa agli armamenti con l’Occidente. La seconda guerra mondiale in questo Pacifico gli Usa l’hanno vinta perché l’organizzazione fordista del loro apparato industriale consentiva di produrre cinque cacciabombardieri nel tempo in cui i giapponesi ne costruivano uno solo. E non è vero che qui in tecnologia siano indietro: anche perché quella si può comprare.
La Cina, all’Oceano Pacifico sta facendo la punta da un pezzo. La retorica antigiapponese che da dieci anni riempie le sale cinematografiche di film di guerra e costruisce l’immaginario della nuova generazione sulla rabbia e la volontà di rivalsa nei confronti del Giappone (immaginatevi cosa sarebbe per noi una Germania che non fa ammenda sul nazismo: manna dal cielo per qualunque governicchio in cerca di voti facili) non è che il carburante di consenso a un orientamento politico evidente. Le isole Diaoyu (in cinese) o Senkaku (in Giapponese) sono la contesa recente, sorvolate da B52 americani un giorno e da caccia cinesi un altro, nella sovrapposizione di ‘zone di difesa esclusiva’ aeree che non promette nulla di buono. Ma queste almeno sono a poca distanza da Taiwan. Perché invece ogni mappa cinese, anche quelle del meteo, include da qualche anno un rettangolino a mostrare il Mar Cinese Meridionale le cui acque bordano Vietnam, Malesia, Filippine, lontano fin quasi duemila chilometri dalla costa sud della Cina ma che i cinesi rivendicano come proprie in toto, compreso naturalmente il gas naturale di cui è ricco il fondale. Ogni isolotto, ogni banco di sabbia a venti chilometri dalle coste del Borneo malese o del Brunei è rivendicato dalla Cina. Unico neo: non ci sono previsioni del tempo, ma arriveranno.