Speciale
Una matita per l'estate / Lapis
Eccoli, emozionati e fieri come cadetti nelle proprie uniformi. Rispondono alla tromba dell’adunata slanciandosi fuori dalla scatoletta di cartone. Eccoli, lapis che a dodici a dodici si dispongono rapidamente sulla scrivania, dapprima in ordine sparso, poi in riga l’uno accanto all’altro. Ce ne sono di tutti i reggimenti, quelli striati di giallo e nero, quelli laccati in un unico colore, quelli dalla divisa color senape e il capo marrone, quelli dall’elmetto di gomma. Eccoli ora tutti in ordine l’uno a fianco all’altro a formare minute ma solide palizzate. Ognuno con la propria arma appuntita, baionetta di grafite pronta a lasciare il segno su mille fogli.
Ma è quella la fine dell’apprendistato, da quel preciso momento, un lapis scelto a caso nella dozzina entra nella vita adulta: viene infilato nell’astuccio a sacchetto e non è più protetto dai propri compagni, non fa più goliardicamente a spallate nella confezione. Il lapis ora è accanto alle penne dall’indelebile magistero; al matitone rosso e blu dal segno largo; al mai elastico righello. Dall’angolo più remoto dell’astuccio, le minacciose sagome della gomma da cancellare e del temperino lo guardano con fare smaccatamente sornione.
Il lapis, nel trasporto quotidiano dalla casa all’università, subisce i contraccolpi della corsa per prendere il bus, quando lo zaino sussulta sulla schiena, gli schiacciamenti fra i passeggeri, lo scossone che l’astuccio gli provoca quando viene lasciato cadere sul tavolo della biblioteca dopo che la penna è stata estratta. È in questi frangenti, in quel primo assaggio di realtà, che il righello e il temperino gli piombano addosso con la durezza di plastica e metallo, e gli incidono dei segni sulla pelle di legno laccato.
Se il segno è vicino alla punta, il lapis può sperare in un prossimo intervento dell’ambiguo temperino, che ne mangerà via la cicatrice... Ma che prezzo pero! Il lapis viene accorciato un poco e smette improvvisamente i panni del cadetto lustro e felice: il conetto di legno attorno alla grafite si fa improvvisamente meno uniforme, qualche piccola scheggia resta aggrappata anche dopo che i polpastrelli si sono stretti attorno all’anima di legno per pulirla; anche dopo che anche soffio energico di fiato ha cercato di liberarla dai residui.
Il lapis compie al meglio il suo dovere, quando deve sottolineare lo fa con caparbietà, anche se non è abituato all’asimmetria che dopo una giornata di sottolineature la sua punta risulta avere, consumata solo da un lato. Se invece viene adoperato per prendere appunti o segnare glosse a margine di una pagina, sente la grafite smussarsi da ogni parte, farsi tozza e assume le più svariate forme poliedriche. È piacevole e straniante, ritornare di sera nell’astuccio con la testa stordita e l’attesa per nuovi sbalzi nello zaino, altri colpi di righello e temperino. E rendersi conto di non toccare più, con la testa o con i piedi, le pareti di tela.
E tutto questo si ripete. Giorno dopo giorno il lapis smette di stupirsi, riesce ad anticipare quello che gli accadrà. Alcune volte è anche caduto dalla scrivania, una volta si è spezzato di netto la punta, e subito il temperino è intervenuto per rifarla, accorciando lo di qualche millimetro. Una volta però è caduto e sembrava non essersi fatto niente, poi però si è accorto che c’era una frattura invisibile, perché la grafite era crepata all’interno del corpo di legno. Una ferita che il lapis celerà in sé a lungo, fin quando – ormai la sua lunghezza è la metà di quella originaria – un ennesimo giro di lama disvelerà la frattura della verghetta di grafite, e l’impossibilità di creare una nuova solida punta se non temperando a lungo e con certosina attenzione.
È molto ormai che il lapis è abituato ai suoi compagni dell’astuccio a sacchetto. Ha imparato a riconoscerne pregi e difetti; ha imparato, per esempio, che la gomma non è solo la signora che cancella i suoi tratti: anche lei è in pena perché ogni suo utilizzo significa frammentazione di sé e abbreviazione della propria esistenza; ha anche imparato che capitarci accanto è un contatto morbido e materno.
Il Lapis è ormai lungo sei o sette centimetri e la sua vita sembra essere indirizzata, ma un giorno viene preso per essere temperato. Non dalla parte della punta. Il lapis è così messo di fronte allo specchio mentre il temprino ruota a lungo e con sempre maggiore intensità, svelando tutta la doppiezza di cui esso stesso non credeva di essere capace.
Ecco, ora il lapis ora è diventato un lapis da cappotto. Se ne sta solo nella tasca accompagnato tal volta da un burro di cacao di cui non capisce lo scopo o, più raramente, da un foglietto di carta. È un mozzicone dalla doppia punta, perché non c’è più il temperino a disposizione in ogni momento e con la doppia punta tutto dura a lungo ed è tutto più lento. Capisce di non essere più parte di un uso sistematico e prolifico, non vede più scrivanie di studio o postazioni di biblioteche, ma solo banconi di bar o tavoli di trattoria. Non sottolinea più, non prende appunti dentro ai libri, che ormai vede solo chiusi; può capitargli al massimo di segnare un codice o un indirizzo su un post-it stropicciato.
È la lunga vecchiaia del lapis. Finché un giorno, destino che accomuna i lapis agli accendini, farà misteriosamente perdere le proprie tracce e sentiremo improvvisamente la sua mancanza.
Le altre matite:
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Anna Toscano, Facendo la punta
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Francesca Serra, Simonio e Lyndiana
Chiara De Nardi, Matita. Strumento divinatorio
Giuseppe Di Napoli, L'anima nera del carbone
Aldo Zargani, La matita del fato
Giovanna Durì, La prima matita e le sue compagne
Francesca Rigotti, Matita: veloce e lenta, giovane e antica
Maria Luisa Ghianda, Histoire d’H (di B e di F)
Guido Scarabottolo, Perdonare gli errori
La redazione, Una matita per l'estate. Il concorso doppiozero