Viaggi 1936-1968 / L'America di Moravia
Che ve ne sembra dell’America? Bella domanda. Se lo chiedeva, già negli anni quaranta, lo scrittore William Saroyan in un celebre racconto dal titolo omonimo. E oggi? Oggi sarebbe appropriato rispondere con un’altra domanda: quale America? Quella meschina di Trump, o quella sommessa di Biden? Quella fanatica e oscurantista della Bible Belt, o quella della cultura delle Grandi Università dell’Ivy League, della scienza, di centri come il MIT, il JPL, il Caltech? E ancora, l’America della East Cost, di New York, o quella della West Coast, di Los Angeles? Quale, dunque?
Cominciando dall’ultima domanda c’è da rispondere con l’ovvietà con cui, da sempre, qualcuno fa presente che “New York non è l’America”, come, altrettanto, non lo è Los Angeles, e nessuna delle due è uguale all’altra, anzi, secondo la percezione che ne hanno i locali (e che aveva avuto anche Andy Warhol), New York non è che un pezzo distaccato di Europa, mentre è Los Angeles la vera polis americana.
Sarà per questo che, fin dall’inizio del secolo scorso, i “viaggiatori letterati” europei hanno prediletto New York e, salvo episodiche, fuggevoli eccezioni hanno preferito giocare su un terreno più o meno familiare (sì, qui è tutto un po’ più ciclopico, la gente è più nevrotica, tutti corrono, taxi quando piove o nevica non si trovano, ma a Milano non è che sia poi così diverso).
Di Americhe ce ne sono tante, compresa quella dal sapore di due uova al tegamino incontrata da Alberto Moravia in un drug-store di Harlem, appena sbarcato dal piroscafo che l’aveva traghettato dall’Italia del 1935 sull’orlo della guerra d’Etiopia, a un mondo di Masscult, come lo chiamerà Dwight Macdonald, e che troverà per molti versi, alieno.
Moravia, come parecchi della sua generazione, vagheggiava l’America, sognava soprattutto di viaggiare, lui più di altri, perché ammalatosi di tubercolosi ossea all’età di otto anni passerà i successivi dieci tra casa e sanatorio. «All’immobilità del corpo sopperiva l’agilità della mente, lanciata in avventure memorabili incontro all’ignoto. È solo con un balzo all’indietro, negli anni dell’infanzia, è solo risalendo al desiderio di vita covato nella malattia che si può capire il cosmopolitismo di Moravia, il bisogno mai sopito di sentire la frenesia della partenza, di andare, essere altrove, conoscere», scrive Alessandra Grandelis, curatrice del volume L’America degli estremi che raccoglie trent’anni di reportage a stelle e strisce, che Bompiani, suo editore storico, ha appena mandato in libreria per ricordare l’anniversario della morte dello scrittore scomparso nel 1990. Resoconti di viaggi americani, che vanno dal 1936 al 1969, in cui si mescola «il fascino, gli interrogativi e i dubbi verso l’irresistibile impero culturale americano e l’esportazione su larga scala del modello capitalista».
Modello che, nella città di New York, in particolare nell’isola di Manhattan, si traduce, anche grazie a ciò che l’architetto Rem Koolhaas, definisce «la tecnologia del fantastico», in monumentali opere di architettura, i “grattanuvole” di futuristica memoria, quei grattacieli che Bernard Berenson assimila alle torri del borgo medievale di San Gimignano e che, per i “viaggiatori letterati”, diventano l’allegoria di una città, a sua volta metafora dell’America stessa.
I grattacieli sono anche il Grande Tema iconico che ritorna, sistematicamente, negli scritti di questi umanisti pellegrini che, ironizza lo scrittore, giornalista, saggista, regista, sceneggiatore Mario Soldati, appena sbarcati a neviorche si illudono di raccontarli in modo nuovo, tanto che l’“Arrivo a New York” e la “Descrizione dei Grattacieli” sono diventati temi per un facile sfoggio di bravura letteraria, un pezzo obbligato dei tanti “grattacielisti”.
A loro difesa c’è da dire che, nei primi anni del novecento, gli unici riferimenti iconografici a cui costoro possono attingere sono le cartoline inviate dagli emigrati, le illustrazioni di rotocalchi e libri, qualche cinegiornale della Incom o dell’Istituto Luce, come “Il dirigibile Baby in volo su Manhattan” del 1928, oppure “Danze sui grattacieli di New York” del 1929, oppure ancora “I pulitori di finestre di grattacieli dopo le bufere di neve” del 1934.
L’America come illustrazione
Al grattacielismo, seppure in tono minore, non sfugge neppure il giovane Alberto Moravia che in una corrispondenza del 1936 (“Il paese del lusso per tutti”), così li descrive: «grigi e gelidi nell’aria nuda, con le cuspidi dorate scintillanti al sole d’inverno».
Passato il primo impatto iconico, New York – o meglio «Nuova York», come la chiama lui, e come farà più tardi, con un pizzico di ironico snobbismo, Ruggero Orlando, storico corrispondente RAI – gli appare, sì, città apparentemente organizzatissima, ma più che altro «una metropoli orientale, molle, informe, sterile, disorganizzata e soprattutto lussuosa. Una metropoli di schietto carattere assiro-caldaico; e non importa che vi si parli inglese e stia migliaia di chilometri lontana dal deserto dove crebbe e prosperò Babilonia».
A Nuova York si vedono davvero cose “dell’altro mondo”, palazzi le cui dimensioni «che attraggono e atterriscono, insinuano il sospetto di un artefice non umano», avverte Mario Soldati anticipando, con l’intuizione dell’artista, l’avvento di un’era di algoritmi e di software sofisticatissimi che rivoluzioneranno le tecniche di costruzione, e permetteranno la realizzazione di opere capaci di sfidare la più scapestrata immaginazione.
Dal canto suo, solo col tempo Moravia si riappacificherà con i grattacieli. Anni più tardi, smussata l’effervescenza giovanile, assorbiti i primi vagiti di una globalizzazione a venire, lo scrittore troverà, alla fine, che lo spettacolo architettonico offerto da Manhattan è unico al mondo, che in fondo i grattacieli sono meravigliosi a vedersi: «si proiettano verso l’alto, si direbbe con velocità crescente, come missili luminosi, rigati di cemento bianco, di acciaio grigio e di cristallo scintillante. Salgono su, su, verticali e vertiginosi, non finiscono, semplicemente si interrompono senza motivo, potrebbero essere molto più alti, potrebbero anche non finire affatto, perdersi nel cielo. Non sono più le torri a gradini babilonesi di anni or sono; fanno semmai pensare a una selva di computer giganteschi, ossia di cervelli meccanici assiepati in uno spazio esiguo. Manhattan sarebbe così un mazzo di computer che pensano e decidono per gli Stati Uniti, cioè quanto dire per il mondo intero».
Il primo impatto con l’America? Due uova al piatto
È dunque in questa città manicomio e officina che, per dirla ancora con Rem Koolhaas, diventerà «la stele di Rosetta del XX secolo», che, nell’inverno del 1935, Alberto Moravia sbarca in fuga da un’Italia che, sono le sue parole, «è rimasta intatta come ai tempi di Stendhal», e dall’aria pesante che si respira, come dicevamo, con lo scoppio della guerra d’Etiopia. È il suo primo viaggio negli Stati Uniti, ed è ospite della Casa Italiana della Cultura presso l’Università di Columbia, diretta da Giuseppe Prezzolini.
Era comunque almeno un anno che Moravia fremeva per partire: «Il mito dell’America non ce l’avevo, tuttavia sentivo quasi una indispensabilità dell’andare in America, questo sì. Per qualche mese ebbi come una piccola ossessione, perciò quando arrivò l’invito di Prezzolini, accettai subito di andare».
Ci arriva a bordo del leggendario transatlantico Rex, uno dei vanti della cantieristica dell’era fascista, a cui, purtroppo, pochi mesi prima, il francese Normandie, al suo viaggio inaugurale, aveva soffiato il Nastro Azzurro, l’ambito trofeo assegnato alla nave passeggeri che deteneva il record di velocità di traversata dell’Atlantico.
Dunque, il 6 dicembre, dopo una navigazione agitata, Moravia sbarca e si reca al 1161 di Amsterdam Avenue. Prezzolini non c’è. Lui non si perde d’animo: «Avevo fame e sono uscito», racconterà una vita più tardi, nel 1984, a Ugo Rubeo, allora giovane ricercatore di letteratura angloamericana alla “Sapienza”, che ne raccoglierà le confessioni nel volume Mal d’America (Editori Riuniti, 1987). «Sono andato in un drug-store, e ho mangiato due uova al piatto. Questo fu il mio primo impatto con l’America».
Fra dicembre e gennaio, pescando a piene mani nella fornita biblioteca di “Casa Italia”, Moravia prepara tre conferenze sul tema del personaggio nel romanzo italiano: da Manzoni a Verga, a Nievo, Fogazzaro, fino a D’Annunzio e Svevo.
Nei mesi in cui soggiorna a New York, il Nostro non lavora ad alcun articolo sull’America, occupato com’è ad assimilare quell’eccesso vitalistico che lo travolge, e che, apparentemente, annacqua la sua creatività. Credeva che nella sua vita fosse «caduta ogni fantasia e ogni curiosità», che avesse preso una «minacciosa andatura automatica. Mi alzavo, leggevo, andavo a mangiare in un ristorante qualsiasi, tornavo a leggere fino a sera, cenavo, leggevo di nuovo fino all’ora di coricarmi. La sola idea di far qualcosa che non fosse strettamente necessaria al vivere quotidiano, mi ripugnava. Ogni immaginazione era morta in me, uccisa da non sapevo che gelo (...) Pian piano, insomma, mi sentivo diventare automa, per difetto di vitalità, come tutti gli altri americani; con questa differenza, che loro l’automatismo pare inebriarli; e a me sembrava di morirne».
Scriverà il resoconto della sua esperienza solo al rientro in Italia, dopo aver digerito, elaborato e assimilato quella massa di novità, a mente fredda, sicuramente senza nostalgie.
«Viaggiare vuol dire uscire dalle abitudini, dai crucci, dalla noia profonda e crearsi ricordi improbabili e fantastici come sogni sognati nelle prime ore del mattino», annota Alberto Moravia in una “corrispondenza a posteriori”, scritta per La Gazzetta del Popolo (16 settembre 1936), al ritorno dal primo soggiorno americano. Viaggiare è in effetti l’unico modo per evadere, per «sostituire i problemi morali con i paesaggi». E le vedute di New York non lasciano certo indifferente il Nostro che, ricordiamolo ancora una volta, arriva da un’Italia che negli anni trenta è ancora un grande paese contadino e Roma una capitale provinciale.
Se si aggiunge poi che il ventinovenne futuro Grande Scrittore non è ancora uomo di mondo, non del tutto preparato all’impatto con la prima linea d’America, si capisce bene che la città gli appaia come l’incarnazione di un futuro distopico, un luna-park, immagine che era già stata usata da Mario Soldati in America primo amore, e adotterà persino Simone de Beauvoir nel suo Amérique au jour le jour (1948). «Si gira con gli occhi spalancati e l’anima vuota tra le baracche e i vagoni dei saltimbanchi (...) Nuova York è come la fiera: intontisce e abbaglia sul momento, ma poi non lascia che un ricordo senza peso».
La nuova razza: i materialisti dell’astratto
Il Moravia del 1936 non è certo tenero con gli americani: nella sua analisi di semiotica sociale li paragona a una pittura piatta e senza volumi. «L’europeo ha volume, l’americano non ne ha». Come il Golem, l’americano è composto di elementi eterogenei nessuno dei quali gli appartiene; il Nostro gli rimprovera di essere “specialista”, incapace di afferrare idee generali, il contrario dell’uomo del Rinascimento che vedeva il mondo come un tutto armonioso. «Nella sua parte cosciente l’americano si rivela come una mescolanza di cose udite per strada o lette nei giornali, di brandelli di annunzi economici e di prediche protestanti, di convenzionalità, “poncifs” [NdA: nel senso di banale, privo di originalità] e idee bell’e fatte che non si compongono mai, e come potrebbero?, in quello che noi chiamiamo una personalità. Tutto è buono per un americano, fango e ciarpame. Gli americani sono dei frammenti, con quello di doloroso che c’è talvolta nel sentirsi nient’altro che frammenti».
In pratica Moravia fa sua la critica che Adorno avrebbe rivolto, in seguito, al concetto di “frammentarietà”. Il filosofo della Scuola di Francoforte aveva, infatti, intuito che la frammentarietà sarebbe diventata la cifra della cultura Masscult del nuovo millennio, e già allora etichettava come menzognero il piacere estetico immediato causato da brandelli incompleti di prodotti culturali senza che questi fossero retti da un sofisticato reticolo di correlazioni interdipendenti fra i contenuti stessi, il know-how che, per Adorno, costituisce il vero discrimine dell’essere colti.
I sentimenti di Moravia verso New York cambiano nel tempo, si ammorbidiscono, i giudizi saranno sempre meno tranchant. A Ugo Rubeo, nel libro intervista del 1987, già citato, dirà: «A me non piaceva la vita in America, e non mi piace neanche adesso. New York, tuttavia, mi piace molto, è molto bella: forse la città più bella del mondo, nel senso moderno, ovviamente. Però non ci vivrei, ecco tutto».
Dell’America, del gusto per l’iperbolico, l’eccentrico, lo smisurato, l’impensabile, il non regolabile, alla fine, confesserà di apprezzarne la “follia”, la stravaganza di matrice anglosassone che ha partorito frutti nuovi, una razza nuova, gli americani, appunto, «materialisti dell’astratto».
È dunque di questa asimmetria che sono fatte le sue corrispondenze.
È sempre il rapporto degli americani con il denaro, con il profitto, con l’opulenza percepita come nemica della qualità, con l’idea stessa di democrazia intesa come uguaglianza consumistica, ciò che più sconcerta e accomuna questa generazione di “primi viaggiatori”, seppure di vedute assai diverse, a cui non sfugge lo stesso Moravia che sembra quasi rimpiangere «l’aristocratico modello umano delle civiltà europee del passato», a cui contapporre, in negativo, l’Average Man, l’uomo della strada, «modello umano democratico, ma non necessariamente liberale (...), colui che è all’origine della frenesia manipolatrice di questo Paese».
Paese il cui potere, ammette, è però bilanciato dalla sua grande fluidità e vitalità: nuove forze, nuove correnti scacciano le vecchie, «correggono gli antichi errori e conformismi, sia pure, talvolta, con nuovi errori e nuovi conformismi».
I ritratti che Moravia fa dell’uomo e della donna americani sono talvolta impietosi. La donna, scrive, è indubbiamente più intelligente dell’uomo, per lo meno più sensibile, anche se valuta tutto in termini di dollari (ecco che ritorna l’ossessione per il denaro). Ma, alla fine, la giustifica, le concede le attenuanti generiche perché se è così, non è colpa sua, ma delle condizioni di vita del Paese che l’ha formata.
L’uomo è, invece, «una macchina per produrre denaro e la donna l’oggetto più prezioso che egli possa acquistare con questo suo denaro. La donna lo sa, sa che per quegli uomini dal collo corto e dalla mascella brutale essa è il solo elemento romantico in vite spaventosamente aride». Se poi il matrimonio ha spesso, come scrive Moravia, un carattere di concubinaggio legale, di associazione d’affari, c’è da chiedersi che razza di vita vivano questi americani.
Forse è per questo che una delle grandi occupazioni di distrazione delle signore è lo shopping, «la scorribanda per i negozi», come la chiama Moravia, che descrive orde femminili invadere Fifth Avenue, Madison Avenue, Broadway e dintorni, sciamare in negozi di ogni tipo «vivaci, instancabili, gutturali, garrule, esuberanti, curiose», sotterrate da pacchi, pacchetti e involti, tornare a casa con la sotterranea che ad ogni stazione raccoglie altre donne e altri pacchetti.
Insomma, ormai è chiaro che la forza espansiva del modello economico americano non va proprio giù ai nostri “viaggiatori letterati”. E così non ti aspetti che il più duro critico dell’edonismo della società consumistica, il cantore della purezza della cultura contadina, Pier Paolo Pasolini, di passaggio negli Stati Uniti, nell’estate del 1966, resti folgorato dall’America per cui, peraltro, non aveva mai nascosto un’infatuazione irrazionale, e per cui Moravia lo chiamava “comunista sentimentale”.
«Vorrei avere diciotto anni per vivere tutta una vita quaggiù», confida Pasolini a Oriana Fallaci (“Un marxista a New York”, L’Europeo). «New York non è un’evasione: è un impegno, una guerra. Ti mette addosso la voglia di fare, affrontare, cambiare: ti piace come le cose che piacciono a vent’anni».
E poi arrivano gli anni sessanta
Nel fatidico 1968, Moravia è di nuovo in America, inviato per L’Espresso. È tempo di Vietnam, di hippie, di droghe più o meno leggere, di acido, di Black Power, di Malcom X. È tempo di paura sociale, di insicurezza per niente immaginaria, di violenza. Bobby Kennedy e Martin Luther King sono stati assassinati e il sogno americano sembra essere definitivamente sepolto con loro. «Perché un sistema politico, culturale, economico degenera? Di solito perché, per una misteriosa alchimia, le sue qualità, nel tempo, si trasmutano in difetti», scrive un preveggente Moravia alla vigilia dell’arrivo di “Tricky Dicky” (Richard Nixon) alla Casa Bianca.
L’anno successivo (sarà in pratica l’ultimo in cui elabora le proprie impressioni in una serie di articoli, dopodiché si dedicherà a conferenze accademiche) Moravia si occupa esclusivamente di corsa allo spazio. In compagnia di Norman Mailer, segue da Cape Kennedy l’emozione del lancio dell’Apollo 11 in partenza per la Luna, poi si sposta nella sala stampa del centro di controllo di Houston per l’allunaggio della capsula sul suolo del nostro satellite. È sopraffatto, spaesato. Si aggrappa a McLuhan, scrive: «Non è il messaggio quello che conta, ma il mezzo. Ossia non è lo sbarco sulla Luna, ma il procedimento tecnologico dello sbarco».
Non si inquieta per il fatto che quel successo sia dovuto al lavoro di 126 scienziati tedeschi, coordinati dal barone Wernher Magnus Maximilian von Braun, ex Sturmbannführer delle SS, che durante la seconda guerra mondiale si occupavano, a Peenemünde, della costruzione dei razzi V2 con cui i nazisti bombardavano Londra.
Annota piuttosto che la riuscita del progetto spaziale si deve proprio alle caratteristiche del neocapitalismo americano, «alla sua scatenata furia consumistica». Va bene la Luna, va bene von Braun, ma, insomma, il consumismo, quello, proprio, non gli va giù.
Eppure, è nel suo primo viaggio, quello del 1936, che Moravia scrive: «Il viaggiatore non può fare a meno di riconoscere che questa nuova civiltà non è affatto negativa, né decadente. Si sente invece che la gran macchina dell’America funziona benissimo, è viva e vitale e non si arresterà così presto». Parole profetiche.