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Carteggi d'amore / Gozzano e Guglielminetti. L'ansiomania inesplicabile del Signorino Infelicito
Il carteggio d’amore più commovente e utile sarebbe quello che racconta la resistenza nel tempo, di un amore: sappiamo come fare innamorare, innamorarci, ma quel che è difficile è rimanere accanto a qualcuno, sostenerlo, rispettarlo, desiderarlo, volerlo ogni giorno per anni. Ci incuriosisce comunque leggere di fiammate, ci entusiasma il plateau in cui sia lui che lei sono innamorati, ci rattrista l’intiepidirsi dell’ardore, assistere al distacco di uno dei due, alla disperazione e poi alla tristezza di chi amava e resta solo con la torcia della passione tra le mani. L’amore tra Amalia Guglielminetti e Guido Gozzano è tra i più malinconici possibili. L’era delle lettere ci permette di scrutare dalla serratura, post mortem, il diagramma che dalla pianura dell’indifferenza si innalza al picco dell’ardore, per poi calare per versanti quasi sempre non paralleli al piattume del ritrarsi, dell’amor proprio che si ricuce con orgoglio ritrovato, a volte con ripicche, colpi di coda che virano il triste in squallido.
Le lettere dei due poeti gravitanti sulla Torino di una tardiva Belle Époque furono collezionate da Spartaco Asciamprener, industriale milanese del vetro, bibliofilo, gozzaniano, motociclista, che le pubblicò da Garzanti nel 1951 con il titolo Lettere d’amore. L’epistolario ha molte lacune; evidentemente, nella riedizione curata da Franco Contorbia per Quodlibet nel 2019, molte lettere mancano; a volte è difficile ricostruire l’asse temporale che generalmente portava Amalia a voler rivedere Guido, che prendeva tempo, rimandava nel tempo, a volte rifilava pacchi clamorosi; il poeta, che proprio in quell’anno sta per diventare famoso nell’ambiente letterario italiano per La via del rifugio pubblicata da Streglio, flirta con la poetessa che sta proprio per diventare famosa in quell’anno per Le vergini folli; prima dell’era telefonica, gli appuntamenti si prendevano con lettere via posta, o biglietti recati a mano da valletti o conoscenti; l’appuntamento è al Parco del Valentino per il pomeriggio del 30 novembre 1907; Gozzano vigliaccamente non si presenta e Amalia scrive una delle sue lettere più commoventi e dignitose: «Passò un ragazzo con un carretto cantando: “E aspetta il fidanzato”… Allora fuggii davvero umiliata, avvilita, annientata dinanzi a me stessa, pensando di voi tutto il male possibile, soffrendo in me tutto il male possibile.
Non osai rincasare subito per non lasciar sospettare alle mie sorelle la mia disdetta. Ho errato quasi un’ora per il Valentino mordendomi le labbra per trattenere in me qualche cosa d’amaro che mi saliva dal cuore, una pietà ironica e aspra per me stessa, per il mio orgoglio, per tutti i piccoli e i grandi colpi già ricevuti in silenzio sussultando, a cui s’aggiungeva ancora questo, inatteso. Sono folle, Guido, a scrivervi queste cose, lo so che voi lo pensate. Vorrei che mi vedeste piangere ancora, mentre scrivo, tanto. Neppure il foglietto rosso che mi portava le vostre scuse ha potuto consolarmi. Ho dovuto lasciar sgorgare tutta quell’amarezza accumulata goccia a goccia, minuto per minuto in umiliazione e in tristezza. Ora sto un poco meglio, ma bisogna ch’io non vi pensi, ch’io non mi ricordi per non soffrirne ancora». Invece Amalia, che è liberamente, passionalmente innamorata del suo coetaneo di venticinque anni, andrà avanti sino a tutto il 1908 a inseguire il Signorino Infelicito.
A cominciare è lei, con una lettera di ammirazione letteraria spedita all’autore della Via del rifugio il 13 aprile 1907; lui sin da subito comincia a lavorare i tempi di una seduzione retrattile molto femminea, e si abbandona a ferventi elogi delle Vergini folli soltanto il 5 giugno 1907. Tutto il loro epistolario ha questa impronta in cui una donna bella, sincera, elegante, libera insegue un ometto dalle bellissime mani, raramente sincero, elegante e legatissimo alla Mamma. I due si sono già incrociati nei salotti letterari: lei isolatissima e sdegnosa scrittrice schernita dagli scrittori maschi, lui già stellina del suo tempo, seguito a frotta dall’ambiente dei giovani letterati torinesi. La prima e l’ultima parte del carteggio è piena di aiuti, consigli, contatti per avere la recensione di Tizio o di Caio su questo giornale o quella rivista.
Lei ha buoni contatti per lui, lui ha buoni contatti per lei. In questo senso Gozzano e Guglielminetti non hanno mai posposto ai fuochi e agli acidi di una relazione del tutto disfunzionale la loro vera costante amicizia letteraria. Sono sullo stesso fronte, sostanzialmente: poco graditi nei loro esordi ai vecchi critici tromboni. Guglielminetti ha forse più amicizie-chiave di Gozzano; Ada Negri la stima e protegge; si reca a Roma per un importante raduno suffragista dove ci sono Sibilla Aleramo e Emma Gramatica, tra le altre. L’intelligenza combattiva però inforca gli occhiali della snobbissima e parigina poetessa torinese, e si abbandona per il pettegolo Guido a una descrizione davvero al vetriolo del raduno, nella lettera del 30 maggio 1908: «Non rievoco i giorni e i fasti antipatici del Congresso Femminile, consesso di gente sprovvista d’ogni grazia di gesti e d’ogni eleganza di spirito. Donne d’ogni età e d’ogni presenza ma tutte così poco accoglienti, così poco fraterne, così intimamente sconosciute ed ostili quasi l’una all’altra da destare in me un senso sordo di antipatia sdegnosa per tutto ciò che sa di riunione femminile di congrega intellettuale, e specialmente di rombante richiamo a poche inferiori intelligenze provviste bene o male di qualche abilità più o meno fruttifera. Alcuni uomini – rari nantes ecc. – nereggiavano fra una marea d’abiti primaverili non tutti anzi ben pochi di taglio elegante».
Lei incontra qualche volta D’Annunzio, e gliene scrive nella fase finale del carteggio, quando la sua dignità risale amaramente e più volte lancia frecciate per farlo ingelosire (con successo): «Caro Guido, questa mattina ho parlato per mezzora con Gabriele d’Annunzio il quale mi ha manifestato un vivo desiderio di conoscerti. Gli ho promesso di portarti da Lui io stessa quando il Poeta tornerà a Torino, cioè nel mese di marzo. E spero che non vorrai smentirmi, tanto più che il Divino è poi la persona più cortesemente umana del mondo».
Perché Gozzano non ha voluto godere l’amore di Guglielminetti? Perché egli stesso teorizza nel carteggio quello che con una schiettezza poetica magistrale scrive nella sua letteratura! L’uomo malato, seduttivo, debole, ironico, scettico dei Colloqui che sta scrivendo in quegli anni e di cui concede molti assaggi a lei è esattamente l’uomo malato, seduttivo, debole, ironico, scettico che manda asciutte cartoline da Torino, dal Meleto di Agliè, dall’eremo (allora) dell’Abbazia di San Giuliano a Genova, da Ronco Canavese, infine dal giro del mondo in piroscafo; la tubercolosi lo spaventa, lo debilita, lo tortura con iniezioni («Faccio due iniezioni al giorno di due dosi l’una; e sono così saturo di essenze resinose, di canfora, di creosoto, che il sapore aromatico si diffonde dal sangue nel palato»), maschere inalatrici («giorno e notte e quell’ordegno che mi chiude in una rete metallica quasi tutto il volto mi dà l’aspetto rimbecillito d’un palombaro») e detta in toto la sua agenda di avvocatino benestante che non deve lavorare ad altro che ai suoi manoscritti. Guido non vuole nessuna donna accanto, gli basta la Mamma. Sa come vellicare il cuore delle donne, ma una volta caduto nella sessualità fugge. Perché? Era soltanto uno stronzo? Era impotente?
Il Gozzano che ci è stato consegnato da Edoardo Sanguineti è un capitolo del nostro Novecento, e la sua poesia parlata dentro forme perfette ha influenzato la nostra poesia degli ultimi decenni, più parlata e ironica, più amara che tragica. Ma il Gozzano uomo di questo epistolario è insopportabile, poco raccomandabile, narcisista con effetti dannosi quanto il poeta narciso sboccia influenze straordinarie. Per me è il nostro Whitman, senza il coraggio omossessuale e l’amore compassionevole e universale di Walt: parlano-parlano cantano-cantano. Whitman grande cantore di inni al popolo umile macellato nella Guerra Civile, Gozzano canterino di filastrocche leziose, di bruchi crisalidi e farfalle intrise di morte, anaffettivo, avaro. Diversissimi con lo stesso bisogno di dire moltissimo.
I bei sonetti petrarcheschi di Guglielminetti sono stati i primi testi italiani in cui una donna abbia espresso con coraggio la sua intimità desiderante e frustrata da un contesto moralista e vetusto (dopo Gaspara Stampa? di cui Amalia si sentiva una reincarnazione). Ma queste sue lettere, la sua metacognizione di donna solissima con la sua intelligenza, oggi possono valere come storia della coscienza culturale delle donne italiane. Quando ama, ama meravigliosamente; l’unico errore è l’uomo che ha scelto: «Io ti sono compagna ora senza tremori e senza fremiti, sorella della tua anima.
Io ti saprei baciare la fronte con un sorriso sereno come si bacia un bambino. No, noi non abbiamo ancora sepolto nulla di noi stessi. Io sono per te come il primo giorno che ti vidi, non sazia, né stanca, né oppressa dalla più piccola parte di te. Sei nuovo e fresco al mio spirito come allora che m’eri ignoto. Ogni tua parola è come una piccola luce che ti rischiara un momento e ch’io guardo risplendere con gioia nuova ogni volta che tu parli. È un senso strano ch’io non so dire, ma che non ho mai sentito per altri, una malia, quasi, che è credo, una occulta profonda fraternità, un oscuro legame spirituale che ci unisce anche nostro malgrado. Ma tu non provi questo fascino, lo so, poiché mi respingi dopo alcune ore di comune vita, mi allontani con un gesto che mi pare un urto di disdegno. Forse io non sono stata con te, quel giorno, quella della tua attesa. Fui rude, lo ricordo, violenta anche. Ma quale contrazione, quale ribellione era in me, allora, davanti a quel nuovo tu che lottava contro la mia volontà aspra di solitaria! Ma ricordo anche un momento di chiara dolcezza, il mio volto chinato sul tuo, le mie labbra parlanti con franca umiltà di cose umili e nascoste. Ma come puoi non volermi bene se mi rivedi ancora in quell’atto? Nessuno, ti giuro, mi ha mai veduta così spoglia d’orgoglio, così vestita di pura tenerezza. Tu solo che non mi ami, tu solo che mi sfuggi».
Gozzano, avvicinandosi il 1911 della pubblicazione dei Colloqui da Treves, e della sua gloria letteraria frutto della sua «tabe letteraria», si sgancia sempre più da lei, che infine molla il rovinarsi la vita e il rovinare la vita degli altri di lui. Gozzano muore a 33 anni nel 1916, Guglielminetti di una setticemia nel 1941 dopo essersi ferita correndo in un rifugio antiaereo sotto un bombardamento inglese. Lui inventa il Novecento prima che la Prima Guerra Mondiale lo crei, lei vive nel ventennio fascista senza affatto diventare antifascista, ha un’altra nota storia d’amore storta con lo spregevole delatore dell’Ovra fascista Pitigrilli (Dino Segre) che finisce con squallide denunce in Tribunale.
A un certo punto viene da chiedersi, a metà carteggio: ma questi due a letto ci sono andati? Dopo buchi temporali e castigate allusioni Gozzano toglie il dubbio: «L’abbiamo fatto». Una volta? Qualche volta? «Non già che io fossi per commettere qualche pazzia, (non ho amato pur troppo fin ora e forse non amerò più; non amerò mai se non ho amato Voi!) ma il desiderio della vostra persona cominciava ad accendermi il sangue con una crudeltà spaventosa; ora l’idea di accoppiare una voluttà acre e disperata alla bellezza spirituale di una intelligenza superiore come la vostra mi riusciva umiliante, mostruosa, intollerabile… Quando l’altro giorno uscii dal vostro salotto con la prima impronta della vostra bocca sulla mia bocca mi parve d’aver profanato qualche cosa in noi, qualche cosa di ben più alto valore che quel breve spasimo dei nostri nervi giovanili, mi parve di veder disperso per un istante d’oblio un tesoro accumulato da entrambi, per tanto tempo, a fatica.
E ieri, l’altro, quando scendeste disfatta nel vestito nel cappello nei capelli, e mi lasciaste solo in quella volgare vettura di piazza, io mi abbandonai estenuatissimo contro la spalliera, dove alla finezza del vostro profumo andava succedendo l’acredine del cuoio logoro… E nel ritorno (orribile!) verso la mia casa, sentivo il sangue irrompermi nelle vene e percuotermi alla nuca come un maglio, e, col ritmo fragoroso dei vetri, risentivo sulla mia bocca, la crudeltà dei vostri canini. Sono rientrato in casa con un desiderio solo: partire, lasciare Torino subito». Gozzano non conobbe la psicanalisi. Ma passando la sua vita a raccontare e commiserare se stesso (cattivo, crudele…) un giorno di quegli anni formulò per sé una diagnosi convincente: «Ansiomania inesplicabile che m’accendeva il cervello quasi fossi alla vigilia di non so che avvenimento…». La seppe rilevare, la seppe infliggere.
A carteggio letto, viene da dire: non è cambiato niente; ci sono e sempre ci saranno donne belle, intelligenti, colte, erotiche che ameranno ardentemente uomini che non le meritano, e sempre ci saranno uomini bugiardi, narcisisti, seduttivi che sapranno artigliarle. Dopo, Amalia capì tutto: l’ometto Guido preferiva le Signorine Felicita, provinciali, senza istruzione e bruttine, socialmente inferiori al padroncino che riusciva a far piangere pure loro; Amalia vide nero su bianco che il sadico esteta che aveva fatto qualche volta l’amore con lei aveva consegnato alla storia, in una strofa, la sua derisione:
Tu non fai versi. Tagli le camicie
per tuo padre. Hai fatta la seconda
classe, t’han detto che la Terra è tonda,
ma tu non credi... E non mediti Nietzsche...
Mi piaci. Mi faresti più felice
d’un’intellettuale gemebonda...