Arjun Appadurai / La vita segreta delle merci
Non c’è che dire, il mondo in cui viviamo è piuttosto strano. Criptovalute, blockchain, bitcoin, bastano poche parole per evocare un’economia di cui in tanti fanno fatica a capire le logiche. Non bastava il mercato azionario con i suoi alti e bassi, con i suoi “miliardi bruciati” e le sue “bolle speculative” a farci andare, perplessi, alla ricerca di cerini e sapone, adesso ci mettiamo a caccia di meccanismi ancora più complessi e oscuri. Quelli secondo cui una moneta che nessuno ha mai visto e toccato può assumere un valore completamente diverso a seconda che uno di coloro che – sembra – ne possiede in quantità (ma quantità di che? come si pesa un bitcoin?) decida di accettare la suddetta moneta in cambio delle automobili elettriche che produce (vedi su doppiozero l’articolo di Riccardo De Bonis).
Macchine, e quindi cose, in cambio di bit insomma, che qualcun altro scambierà con qualcos’altro, sempre ammesso che nel rapidissimo circolare di queste sequenze elettroniche, qualcun altro ancora non decida che da quel giorno non crede più che un ulteriore qualcuno possa credere in quei bit. Al terzo passaggio tra bit, transazioni e merci, la gran parte degli esseri umani comuni comincia a fissare il vuoto cercando di immaginare soldi, beni, scambi e strette di mano, qualunque cosa insomma renda tangibile tutta questa astrazione, e si ritrova invece a vedere solo altre persone con un’espressione famelica nel volto. Io non riesco a smettere di pensare alle fotografie dei cercatori d’oro ritratti da Sebastião Salgado, i “dannati della Sierra Pelada”, che andarono a migliaia nel cuore del Brasile a scavare la terra con le mani nude sulla base di una voce messa in giro da un contadino e non trovarono nulla. C’è poco da fare, la ricchezza prevede ancora depositi pieni di denaro e tuffi nelle monete, e non solo a Paperopoli.
Poi, in contrasto con tutto questo, ma in realtà in perfetta consonanza, c’è l’impero del gratuito. Penso a tutti quei prodotti che nel mondo contemporaneo non si pagano: caselle e-mail, ricerche sul web, mappe, social network, filmati di ogni genere, musica, e ovviamente la possibilità di produrre post, video, pagine web e tutto il resto diventando di conseguenza famosi e dunque, ancora una volta, ricchi. L’unico prezzo che difficilmente aumenta è quello che ci consente di essere on-line, di esistere nel cyberspazio, o metaverso, o insomma quella cosa lì di cui nessuno deve poter fare a meno. Così, quella stessa rete che per qualcuno è una miniera da scavare (si parla proprio di data mining per “estrarre” le criptvalute) per qualcun altro è il luogo dove si può avere tutto con niente. O almeno, ancora una volta, niente di tangibile perché, evidentemente, da qualche parte uno scambio ci deve essere. Anzi più d’uno visto che, di passaggio in passaggio, si finisce sempre lì, ad automobili che passano di mano insieme a pizze, case, vestiti e tutto il resto.
Eccoci così catapultati nel solito territorio inesplorato della contemporaneità, con lo sguardo dritto in avanti e l’aria da novelli Livingstone, sicuri che tutto quello che di qui in poi incontreremo nessuno l’ha mai visto prima. Ovviamente sbagliando di grosso. Perché la verità è che in questa storia del denaro e delle merci non c’è mai stato nulla di concreto. E non solo da quando sono nate le economie cosiddette simboliche, quelle appunto che prevedevano la presenza di una qualche forma di valuta, ma da molto prima. Perché, banalmente, non esiste economia se non di tipo simbolico. Lo spiega bene un libro curato da Arjun Appadurai che è stato recentemente tradotto in italiano con il titolo (fedele all’originale una volta tanto) La vita sociale delle cose (Meltemi, 474 pagine, 25 euro). Inutile dire che il grande antropologo, e i tanti autori che scrivono i saggi contenuti in quest’opera fondamentale, non parlano mai di criptovalute e servizi Internet. Neanche una parola sul futuro misterioso che ci attende, quelle giuste invece sul passato e sul presente, magari quello di società cosiddette primitive che, se osservate con attenzione, ci mostrano bene come ciò che ci aspetta sia già successo, anzi accada continuamente.
Prendiamo la questione del valore. In genere si pensa che le merci siano il prodotto di un sistema capitalistico di produzione, il quale a sua volta genera il sistema finanziario e di scambio postindustriale a cui siamo abituati. Per Marx, spiega Appadurai, la merce è un qualunque oggetto concepito per essere scambiato e questo lo rende un prodotto di tipo particolare, ma soprattutto rende pertinente nel sistema un altro oggetto speciale che è il denaro. Il baratto non darebbe vita alla merce perché non presupporrebbe l’intervento di un oggetto monetario nella relazione che lega chi cede a chi acquisisce. Ancora più lontano da qualunque forma economica sarebbe allora il dono, che rispetto allo scambio di merci sarebbe da considerare opposto, non foss’altro perché in questo caso scomparirebbe l’orientamento al profitto. Sto semplificando naturalmente, ma grosso modo è il punto di partenza del libro. A essere problematico in questo modo di pensare è proprio il fatto di pensare alla merce (e quindi alla non-merce) come un determinato tipo di cosa, come se venisse prima questo suo presunto stato naturale e poi il valore che può assumere, senza tenere conto della vita sociale che le cose hanno.
Gli oggetti non hanno nulla di oggettivo scriveva qualche tempo fa Andrea Semprini, di cui questo libro di Appadurai sembra essere una articolata e minuziosa dimostrazione. Il valore di una “cosa” è dato dalla resistenza che oppone al desiderio di qualcuno di ottenerla. In poche battute la prospettiva si ribalta, l’antropologia mostra come non siano le persone a definire il valore delle cose ma queste ultime, nella loro “vita”, a definire il valore dei primi. Le biografie delle persone e degli oggetti si intrecciano al punto che per capire i primi bisogna pensare i secondi come normalmente facciamo con gli esseri umani.
Quello di merce insomma non è uno stato ma un ruolo dal quale oggetti (e, ahinoi, persone) possono entrare e uscire senza particolari problemi. E così, reliquie sacre, inutili conchiglie, dipinti, souvenir, tessuti indiani del ‘700 e molto altro diventano altrettanti testimoni parlanti di un viaggio incredibile nella “cosità” delle cose e nella umanità delle persone che non riesco a non ricondurre a quello strano presente ipertecnologico in cui viviamo che ho evocato all’inizio. Non tanto per dimostrare che non siamo mai stati moderni, per prendere a prestito le parole di Bruno Latour, ma per evidenziare come, alla fine, i meccanismi profondi che dominano i diversi modelli sociali e industriali non cambino poi così tanto e siano dunque analizzabili anche guardandosi intorno (o indietro), e non solo fissando una sfera di cristallo. La grande lezione dell’antropologia è che nella storia cambiano gli aspetti esteriori dei fenomeni ma non le logiche sulle quali essi si basano. Una cosa che dobbiamo ricordarci in tempi in cui è facile farsi abbagliare dalle tante lucine colorate che ci circondano.