Su Le immagini dell’amore di R. De Gaetano / Le storie d’amore non esistono
Nessun sentimento umano è stato mai tanto raccontato quanto l’amore. Lo hanno fatto poeti, scrittori, musicisti, pittori, fotografi, filosofi e registi. Lo fanno quotidianamente tutti coloro che un amore lo vivono o lo hanno vissuto. Quasi che esistesse una naturale propensione dell’amore a trasformarsi in parola – scritta o orale – così come in immagine.
Eppure, se si leggono le pagine dell’ultimo libro di Roberto De Gaetano, Le immagini dell’amore (Marsilio, 2021), scopriamo – non senza qualche espressione di sorpresa – che molti di quei racconti poco hanno a che fare con l’amore. Ché se l’amore è propenso a farsi raccontare, non altrettanto lo è a farsi definire una volta per tutte. Che cos’è dunque l’amore? È la domanda che attraversa tutta la prima parte del volume, e che nella seconda trova una risposta.
Da Platone in poi, in molti si sono chiesti in cosa l’amore consista, ma le ipotesi avanzate sono state sempre tutt’altro che univoche, forse proprio in virtù della natura stessa dell’amore, che è il nome di un oggetto sfuggente, impossibile da definire per via argomentativa e dimostrativa. Di qui deriva, si capisce, la centralità delle arti, nel tentativo di afferrare l’amore e cercare di nominarlo. Al pensiero che non rinuncia a questo compito complicato, non rimane, in alternativa, che la possibilità di procedere attraverso affermazioni apodittiche: in un certo senso è questa la strada che anche De Gaetano sceglie per il suo libro. In fondo, a ben vedere, i Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes testimoniavano proprio della difficoltà di cui stiamo parlando, resa – stilisticamente – attraverso l’uso di una prosa che ha il tono perentorio di ciò che è necessario (al contrario della sostanza aleatoria del suo oggetto): “La necessità di questo libro sta nella seguente considerazione: il discorso amoroso è oggi d’una estrema solitudine […]. Quando un discorso viene, dalla sua propria forza, trascinato in questo modo nella deriva dell’inattuale, espulso da ogni forma di gregarietà, non gli resta altro che essere il luogo, non importa quanto esiguo, di un’affermazione. Questa affermazione è in definitiva l’argomento che qui ha inizio” (R. Barthes, Frammenti di un discorso amoroso): in quel caso, come in questo.
Isolare l’amore per imparare a riconoscerlo (prima ancora di cominciare a parlarne) significa, anzitutto, distinguerlo da ciò che amore non è. L’amore non è cieca passione, che indica appunto la passività di un sentimento, inteso come un patire, come una forza che attraversa chi la vive, senza esserne davvero padrone. Al contrario, l’amore è il nome di un gioco, concepito come esperienza nel suo farsi, in cui ciascuna delle parti coinvolte ha un ruolo funzionale alla costruzione di uno spazio comune e condiviso: uno spazio che si amplia e si restringe, si modifica, in fasi diverse. L’amore ha delle regole, ma nessuna legge, neppure quelle del cuore. Per questa ragione, l’amore non è neanche – come d’altronde solo da qualche secolo a questa parte siamo disposti a credere – la cifra che contraddistingue un legame coniugale, che questo sia sancito con un rito davanti a dio o sottoscritto con un contratto davanti allo stato. L’amore è un’unione che si alimenta della separazione fra i soggetti coinvolti, piuttosto che della loro con-fusione. È l’indicazione di un tra, di un tempo e di uno spazio in costruzione, sempre di nuovo negoziabili: un tempo e uno spazio in cui è difficile (impossibile anzi) isolare un prima e un dopo, in cui nessuna azione è causa logica di quella che le succede e nulla come una linearità è ravvisabile.
Su questa via, passando dall’amore alla sua rappresentazione, si potrebbe persino dire che le storie d’amore non esistono: ché l’amore, per come lo abbiamo descritto fin qua, ha poco a che fare con la narrazione classicamente intesa, in cui a un prima fa sempre seguito un dopo, a un’azione una conseguenza, più o meno diretta. La tragedia e la commedia – forme generiche del racconto – hanno riferito, piuttosto, di passioni e di unioni coniugali: da Sofocle a Billy Wilder, passando per William Shakespeare, incontriamo storie di amanti, innamorati, animati da un sentimento che a volte li dilania e li separa, altre invece, seppure dopo mille difficoltà, corona un sogno di compiuta felicità. Quando, nei suoi volumi sul cinema, Gilles Deleuze ha parlato del cinema hollywoodiano lo ha fatto, non a caso, riconducendolo a uno schema fondato sulla centralità delle azioni e del loro concatenamento, riconoscibile in ciascuno dei grandi generi della classicità cinematografica. Ma è di passioni, tradimenti, equivoci, separazione e di eventuali ricongiungimenti che stiamo parlando.
Se invece è l’amore quello che cerchiamo, è necessario interpellare piuttosto la forma del romanzo moderno che – come ricorda Rancière in uno dei suoi lavori più noti, Politica della letteratura – ha diretto il nostro sguardo non tanto verso le azioni esemplari di grandi personaggi, quanto piuttosto verso gli intervalli, gli interstizi, le piccole pieghe dell’agire umano, là dove persino gli oggetti dimostrano di avere una vita e una dignità letteraria proprie, in un tempo e in un luogo in cui qualcosa di inaspettato e incalcolabile come l’amore può accedere. Eccola, dunque in positivo, una delle definizioni plausibili dell’amore. Esattamente come l’arte e la politica – lo ha detto bene, in più di un’occasione Alain Badiou – l’amore è una delle manifestazioni possibili dell’evento, che si dispiega nell’apertura che soltanto un incontro rende possibile. Insomma, l’amore è ciò che aristotelicamente definiremmo una “contingenza” e per questo si sottrae alle maglie della narrazione intesa come concatenamento consequenziale e necessario di azioni che si susseguono una dopo l’altra. L’amore può essere, come non essere: nella sua gratuità sta la ragione della sua unicità.
Questo assunto, a cui giunge la prima parte del volume di De Gaetano, è l’occasione per cominciare a parlare da vicino di cinema, o meglio di una certa idea di cinema che traspare in controluce, attraverso le analisi dei film che costituiscono la seconda sezione di Le immagini dell’amore. Se è vero – come sostiene Ejzenstejn – che il grande romanzo moderno ha trovato, nel corso del Novecento, il suo erede nel cinema (non di tutto il cinema, è ovvio, ma di quello che – nello specifico – ha scelto le modalità di funzionamento del monologo interiore come proprio principio costruttivo), allora è nelle immagini di questo cinema che vanno ricercate le manifestazioni dell’amore di cui stiamo parlando. Immagini che non si susseguono in maniera logica e consequenziale, ma che – si potrebbe dire – si incontrano concatenandosi liberamente come accade alle parole che compongono un monologo interiore.
De Gaetano ce ne offre un buon numero di esempi, parlando di film che – da Aurora di Murnau (1927) a Cold War di Pawlikowski (2018) – punteggiano una storia del cinema sub specie amoris, che è poi, a ben vedere, la storia di un cinema che in qualche modo ha eluso i dettami della cosiddetta classicità.
Come sempre accade con i libri che ci lasciano qualcosa a cui pensare, anche in questo caso si può rileggere l’intera sezione cinematografica del volume, oltrepassando almeno le intenzioni esplicite del suo autore. Si può partire, per esempio, dall’assunto ejzenstejniano per cui Finnegans Wake di Joyce rappresenterebbe le colonne d’Ercole della letteratura e spiegarci con esso perché proprio il cinema – più di altre arti – dovrebbe farsi carico di dire cos’è l’amore.
La risposta non risiede certamente nelle storie che il cinema racconta, ma nel modo del tutto peculiare in cui, in qualche caso, le racconta. Dobbiamo allora, finalmente, arrivare a parlare di montaggio e intenderlo come quel principio costruttivo del film che procede non su base logica (come accade in tutte le forme classiche della narrazione), ma (come accade, invece, nel monologo interiore) su base ana-logica o (come direbbe proprio Ejzenstejn) pra-logica (Il metodo, 2020). In questo caso, infatti, il montaggio è il luogo, l’occasione di un incontro fra immagini che danno avvio a un gioco che è poi il cinema stesso. Per tutto quanto detto fin qua, proprio il montaggio è dunque il luogo in cui l’amore in quanto evento soltanto può dispiegarsi. E se questo è vero, forse addirittura cinema e amore sono la stessa cosa. È il senso più autentico di quella che chiamiamo cinefilia: l’amore di cui parliamo è insieme l’amore del cinema (quello che da sempre esso ha raccontato) e per il cinema.